La nota sentenza delle SS.UU. della Corte di Cassazione n. 28605 del 24 aprile 2008 aveva sancito che la condotta di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti assume sempre e comunque rilevanza penale, fin dal momento di messa a dimora dei semi.

Ciò in quanto la condotta in questione “…si caratterizza, rispetto agli altri delitti in materia di stupefacenti, quale fattispecie contraddistinta da una notevole “anticipazione” della tutela penale e dalla valutazione di un “pericolo del pericolo”, cioè del pericolo, derivante dal possibile esito positivo della condotta, della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla normativa in materia di stupefacenti” (così Cass. Pen., SS.UU., 24 aprile 2008, n. 28605).

La coltivazione sarebbe, in sostanza, sempre perseguibile penalmente in quanto fonte di produzione delle sostanze stupefacenti, indipendentemente dall’esclusivo uso personale, per il pericolo, non altrimenti controllabile, di diffusione del fenomeno delle tossicodipendenze.

Sulla scorta delle argomentazioni svolte dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 360 del 1995, la Suprema Corte aveva precisato che si imporrebbe comunque al giudice di verificare se la condotta, di volta in volta contestata ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando di fatto inoffensiva: circostanza riscontrabile soltanto qualora la sostanza ricavabile dalla coltivazione non sia idonea a produrre un effetto drogante in concreto rilevabile.

Con riferimento invece alle forme di condotta non perseguibili penalmente di cui all'art. 75 del D.P.R. n. 309/1990, integranti illeciti amministrativi, per la Cassazione la norma avrebbe carattere tassativo, attesa l’indicazione specifica delle attività potenzialmente esenti, e non permetterebbe pertanto di equiparare la c.d. “coltivazione domestica” alla detenzione per uso personale.

Le tesi esposte nella citata sentenza non sono state tuttavia esenti da critiche e sono seguite pronunce di segno opposto.

Con sentenza del 13 ottobre 2009, il GIP presso il Tribunale di Milano ha ritenuto assai discutibile la negazione da parte della Suprema Corte della distinzione fra coltivazione agraria e coltivazione domestica.

Al riguardo, il GIP ritiene utile ricordare ciò a cui si riferiscono gli artt. 26 e ss. dello stesso D.P.R. n. 309/90 che contengono la disciplina amministrativa che regola le procedure di rilascio dell'autorizzazione ministeriale per la coltivazione (e la produzione) lecita, ad esempio a fini di studio, di piante contenenti principi attivi di sostanze stupefacenti.

L'espressione "coltivazione" evoca chiaramente un'attività tecnico-agraria o imprenditoriale poiché nel D.P.R. n. 309/1990 si parla, ai fini dell'autorizzazione, di superficie di terreni, particelle catastali, locali destinati all'ammasso e si prevede che la coltivazione e la raccolta possano essere controllate periodicamente dalla Guardia di Finanza e dal personale del Ministero dell'Agricoltura e delle Foreste (ora Ministero per le Politiche Alimentari Agricole e Forestali) anche in relazione alla ubicazione ed estensione del terreno coltivato e alla natura ed alla durata del ciclo agrario.

Il GIP conclude quindi che la crescita domestica di alcune piante in vasi esca dal suddetto concetto di "coltivazione" risolvendosi, in assenza di circostanze di segno opposto, in una forma di detenzione senza acquisto da parte del soggetto che si procura da sé ed anche ripetutamente la sostanza stupefacente.

A conclusioni conformi è pervenuta la recente sentenza del Tribunale di Ferrara del 20 marzo 2013, che ha sostenuto che il termine “coltivazione” contenuto nell’art. 73 del D.P.R. n. 309/1990 implica un’attività con certe caratteristiche dimensionali minime e non ricomprende la fattispecie di quattro piantine cresciute in un vaso all’interno di un appartamento.

Secondo il Tribunale di Ferrara, contrariamente a quanto ritenuto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quantità di stupefacenti in circolazione nella società italiana sono enormi, sicché quattro piantine coltivate in un appartamento da due giovani, privi di collegamenti con la criminalità, non possono certo aumentare in modo apprezzabile la quantità di stupefacenti già in circolazione.

Anzi, paradossalmente, il consumatore che non si rivolga ai traffici legati alla criminalità ma produca in proprio la sostanza stupefacente per il suo consumo personale evita di contribuire all’incremento dei suddetti traffici, poiché non alimenta la domanda che accresce la conseguente offerta e circolazione delle sostanze stupefacenti, finanziando e rafforzando l’attività illecita dei narcotrafficanti.

Anche secondo il Tribunale di Cremona, sentenza del 10 ottobre 2013, tra le condotte punite dall’articolo 73 del D.P.R. n. 309/90 non deve essere ricompresa la coltivazione limitata e domestica, ad uso strettamente personale, di piante come la marijuana.

Infatti, in conformità al principio di offensività che regola la materia penale, con riferimento alla coltivazione di piantine di stupefacenti, considerando che nel quadro delineato dal D.P.R n. 309/90 il bene giuridico protetto è quello di evitare che le sostanze stupefacenti siano cedute a terzi e fatte circolare accrescendone così la diffusione, deve essere considerata irrilevante sul piano penale ogni condotta nel caso concreto inidonea a ledere il bene della salute di terzi.

Nel caso esaminato dal Tribunale di Cremona, il principio attivo presente nelle infiorescenze raccolte dai Carabinieri era di non molto superiore ai limiti massimi indicati nelle Tabelle ministeriali previste dall’art. 73, comma I bis del D.P.R. n. 309/90 ed avrebbe quindi consentito l’approvvigionamento solo di poche dosi, non essendo peraltro nemmeno certo che tutto il principio attivo contenuto nelle foglie e nelle infiorescenze fosse davvero recuperabile dall’imputata, che disponeva solo di tecniche rudimentali di raccolta.

Occorre inoltre ricordare che il Tribunale di Milano, con sentenza del 3 maggio 2013, ha assolto con formula piena perché il fatto non sussiste due imputati che coltivavano nel proprio appartamento 27 piantine di canapa indiana.

La sostanza ricavabile da 18 piantine alte solo 10 cm non raggiungeva nemmeno la quantità massima di stupefacente detenibile secondo il D.M. 11 aprile 2006 e per tale ragione la condotta non poteva essere punita.

Quanto alle altre 9 piante, il Tribunale di Milano ha affermato che il superamento della soglia del D.M. 11 aprile 2006 non significa che la condotta accertata sia di per sé pericolosa per la salute, dovendo essere considerate, ai fini della valutazione dell’idoneità a ledere il bene giuridico tutelato, anche le ulteriori circostanze fattuali della fattispecie concreta, quali la natura domestica della coltivazione, il numero limitato di piantine oggetto di coltivazione e l’assenza delle finalità di distribuzione a terzi della sostanza ricavata.

A giudizio del Tribunale di Milano non si può inoltre omettere di rilevare l’incongruenza logica di una decisione che, in caso di contestuale detenzione di foglie di marijuana triturate e di piantine destinate all’approvvigionamento esclusivamente personale, ritenesse meno grave la detenzione di foglie di marijuana pronte all’uso rispetto alla coltivazione delle piantine, nonostante l’inoffensività di entrambe le condotte per la salute pubblica.

La stessa Corte di Cassazione, Sez. VI, con sentenza n. 17983 del 10 maggio 2007, aveva infatti osservato che l'art. 75 contempla tra le possibilità di accesso alla causa di non punibilità l'importazione, concludendo, quindi, che "non appare conforme a ragione...un differente trattamento penale delle due condotte di importazione e di coltivazione di droga identiche sotto il profilo oggettivo-quantitativo (donde, forse, l'implicita distinzione tra coltivazione in senso tecnico-giuridico e coltivazione "domestica") e soggettivo una volta che il risultato dell'incremento della disponibilità della droga sul territorio dello Stato, comune a entrambe, non ha impedito, in ragione dell'uso personale, l'inserimento della fattispecie della importazione nell'elenco delle condotte di cui all'art. 75.

Un'interpretazione in chiave costituzionale ed in termini di ragionevolezza impone, quindi, nel modo più stingente di estendere la disciplina dell'uso personale anche alla coltivazione; il tutto sulla base di un'interpretazione estensiva della espressione "comunque detiene" di cui al testo dell'art. 75, comma I, del D.P.R. n. 309/1990, in modo da comprendervi anche quelle attività che, come appunto la coltivazione, implichino comunque la detenzione ad uso personale delle sostanza stupefacente prodotta (in questi termini, Cass. pen., Sez. VI, sentenza 30 maggio 1994, n. 6347, Polisena).


 

Avv. Elisabetta Doro

Foro di Bologna