L'omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e la "questione eutanasia"
Le novità approvate dal parlamento olandese riaprono il dibattito in Italia

di Giulio Pasanisi

Dicembre 2000 - La recente approvazione, da parte di un ramo del parlamento olandese, di una legge disciplinante l'eutanasia, ha riaperto, anche in Italia, un dibattito, per la verità mai sopito (anche a seguito di alcuni fatti di cronaca ), sulle problematiche etiche e giuridiche legate alla c.d. "morte dolce". Per inquadrare il problema in chiave giuridica appare opportuna una, seppur breve, ricognizione della disciplina vigente nel nostro sistema. Il nostro ordinamento considera indisponibile il bene della vita in vista degli obblighi che l'individuo deve adempiere verso la famiglia e la collettività, e realizza, in questo modo, una forma di tutela "oggettiva" della dignità dell'uomo. L'oggettività del valore attribuito a taluni beni fa sì che essi vengano protetti, in certa misura, indipendentemente dalla volontà del titolare degli stessi, ma talvolta anche contro la sua volontà . Mentre il diritto alla vita non è disponibile mediante consenso, il diritto all'integrità fisica risulta al contrario disponibile, seppur nei limiti dettati dall'art. 5 c.c., che vieta ogni atto di disposizione del proprio corpo, quando cagioni una diminuzione permanente dell'integrità fisica o quando sia comunque contrario alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume, e protegge, in tal modo, un'imprescindibile esigenza di carattere morale e sociale. La configurazione del delitto di omicidio del consenziente (art. 579. c.p.) e la sua autonoma previsione, quale tipica ipotesi di reato, permettono di evidenziare che, pur mantenendosi consacrata dalla norma penale l'indisponibiltà del bene vita, viene in rilievo proprio il consenso della persona offesa, il quale, in altri casi, sarebbe idoneo a scriminare la condotta dell'autore. Il valido consenso della vittima infatti, nei delitti di omicidio, non può mai avere efficacia esimente, così come previsto in generale dall'art. 50 c.p., ma nella fattispecie di cui all'art. 579 c.p., rappresenta uno degli elementi costitutivi di un'ipotesi delittuosa autonoma, quale elemento differenziatore e specializzante, ai fini della pena, rispetto all'omicidio volontario comune . La norma in esame stabilisce particolari condizioni di validità del consenso del titolare del bene della vita, che risulta privo di effetti se prestato da persona minore di anni diciotto, inferma di mente o comunque incapace di intendere e di volere ovvero se estorto con violenza, minaccia o inganno. Il consenso deve essere manifestato, ma sono indifferenti la forma e le modalità di tale manifestazione, esso può essere condizionato ed è sempre revocabile , mentre non può essere radicalmente esclusa l'efficacia di un consenso tacito . Perché si configuri questo più mite titolo delittuoso è pertanto necessario che tale determinazione di volontà promani dal titolare del bene protetto dalla norma e che essa sia giuridicamente apprezzabile, cioè effettiva, reale e valida . Il delitto in esame è doloso, né sarebbe concepibile per ovvi motivi una figura di omicidio colposo del consenziente per l'evidente contraddittorietà tra colpa e consenso. L'elemento soggettivo importa dunque oltre a tutti i requisiti richiesti per l'omicidio doloso, la consapevolezza dell'autore di agire con il consenso della vittima. Sorge pertanto il problema dell'errore, il quale può manifestarsi quale errore riguardante sia l'esistenza, sia la stessa validità del consenso prestato. Per testuale ed espressa previsione normativa non sono applicabili all'omicidio del consenziente le circostanze aggravanti comuni (art. 61 c.p.) e neppure quelle di cui agli artt. 576 e 577 c.p. , si applicano invece quelle relative al concorso di persone nel reato ex artt. 111 e ss. c.p. La pena edittale è la reclusione da 6 a 15 anni , la competenza spetta alla Corte d'Assise, si procede d'ufficio.
Il tema in oggetto coinvolge anche e soprattutto la problematica dell'eutanasia , questione largamente dibattuta già in epoca passata che, da qualche decennio, è diventata di grande attualità. Data l'assorbente dimensione pregiuridica che lo investe, è facile capire le enormi difficoltà di una compiuta trattazione dall'argomento, che voglia mantenersi in una chiave asetticamente giuridica. Deve, infatti, constatarsi che la maggiore o minore diffusione di tale pratica sia in stretto rapporto con i sistemi giuridico-morali-religiosi da cui deriva il rispetto ovvero il disprezzo per la vita umana. Ogni uomo ha una sua etica della morte, così come ogni popolo ha una sua cultura della morte. Se la pretesa di assolutezza e di definitività non fosse di per sé ingenua e velleitaria, si può dire che quello dell'eutanasia pietosa è uno di quei campi ove appaiono impossibili sia pronunciamenti universalmente validi, sia soluzioni sottratte al relativismo delle coordinate spazio-temporali, come confermano oltre tutto gli esiti di un pure superficiale esame storico e comparativistico". Al giorno d'oggi, comunque, si parla di eutanasia solamente con riferimento all'uccisione liberatrice dal male e dalla sofferenza, secondo alcuni limitata ai soli malati agonizzanti, da altri estesa a tutti i malati sofferenti in misura intollerabile. Ciò premesso ed alla luce della disciplina dettata dal nostro ordinamento, deve anzitutto evidenziarsi come sia ammessa, da parte della dottrina, la liceità dei casi di eutanasia passiva consensuale . Sono poi da rilevare le problematiche nascenti da tre particolari ipotesi: l'interruzione del sostegno vitale artificiale (condotta omissiva mediante azione); la c. d. "terapia del dolore" (lecita se vi è proporzione tra la quantità di vita che si sacrifica con la somministrazione di farmaci solo lenitivi e la qualità di vita che grazie ad essi si recupera); la sospensione consensuale delle cure da parte di persona diversa dal medico (legittima se compiuta nel rispetto dell'ars medica ma che, proprio per questo, configurerebbe, in capo all'agente, il reato di esercizio abusivo di professione). Sotto altro profilo, ma strettamente collegate con il problema della sospensione delle cure, risultano poi le casistiche di c.d. persistenza terapeutica compiuta dal medico, in assenza del consenso del malato, che integrerebbero il reato di violenza privata (nei casi in cui il paziente ne percepisse la concreta lesività). Dibattuta è invece la situazione in cui viene a trovarsi il malato terminale, in stato d'incoscienza ed incapace di fornire un valido consenso alla cessazione delle cure. Sembrerebbe applicabile qui il brocardo in dubio pro vita, che appare tuttavia insufficiente nel caso di pazienti in coma e, soprattutto, in stato vegetativo ormai permanente, quando il malato è solamente mantenuto in vita, senza possibilità di recupero (c.d. distanasia o arbitrario prolungamento del corso naturale della morte). In queste situazioni sambra comunque valida, nonostante perplessità espresse da parte della dottrina, la scelta sulle cure da sopportare fatta dal soggetto nel c.d. "testamento biologico" .
Alle correnti di pensiero che propugnano l'impunità dell'eutanasia si oppongono principi scientifici e di convenienza, quali la possibilità d'errori di diagnosi, di scoperta di nuovi rimedi oltre all'eventualità di pretesti ed abusi. Si oppongono poi motivi morali e giuridici, dato il valore dato alla vita umana dalla coscienza comune oltre che dall'ordinamento. Si oppongono infine motivi religiosi (è nota la posizione di netto rifiuto da parte della religione cattolica). Appaiono comunque fondate le ipotesi di coloro i quali, constatando la profonda differenza tra l'eutanasia e l'omicidio volontario comune, insistono per l'introduzione, nel nostro sistema positivo, di una figura criminosa di omicidio minore. 
Commento redatto nel dicembre 2000, pubblicato dall'autore sul sito jei - Jus e internet (jei.it) il 15/12/2000.