Il tema delle domande suggestive è stato ancora una volta ripreso dalla Corte di Cassazione in una recente sentenza (1)
che ha ribadito il principio che il giudice (o un suo ausiliario) può porre al teste domande che suggeriscono la risposta non
ostandovi alcun divieto legislativo.L'affermazione di tale principio, secondo i giudici di legittimità, risiede nelle
norme procedurali che disciplinano il contesto dell'esame incrociato.
Il divieto delle domande suggestive, sostiene la Suprema Corte, è circoscritto solo alle parti che hanno chiesto
l'esame e a quelle che hanno un interesse comune ma non a quelle del giudice e del suo eventuale ausiliario.
Già in precedenza il Supremo Collegio si era occupato della questione che era stata risolta allo stesso modo: il divieto di
porre domande suggestive non opera nell’esame condotto direttamente dal giudice poiché, si è anche sostenuto,
non vi è il rischio di un precedente accordo tra il testimone e l’esaminante (quasi che tra il teste e le parti private vi
sia sempre un accordo pregresso). (2)
Il processo penale accusatorio italiano nell'ambito della formazione della prova su tale aspetto mette a nudo le
sue debolezze e le sue deficienze. Infatti, se l’art. 111 della Carta Costituzionale sancisce che ogni processo si
svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a giudice terzo ed imparziale, le norme che
disciplinano l'esame testimoniale (artt. 498, 499 c.p.p.), ove consentono un'intromissione senza limiti del
giudice terzo ed imparziale, non possono che ritenersi non in linea con il precetto costituzionale soprarichiamato.
Il nostro metodo esaminatorio, in virtù di tali orientamenti giurisprudenziali, sembrerebbe quindi non
perfetto e non aderente alla norma costituzionale.
Nella formazione della prova, è noto, il legislatore impone alle parti che hanno chiesto l'esame e a quelle che
hanno un interesse comune di muoversi con passo felpato al fine di rendere più genuina possibile la ricostruzione del
fatto.
E ciò sotto l'attenta regìa e vigilanza del giudice terzo ed imparziale che deve evitare la proposizione di domande
suggestive e di quelle che possono nuocere alla sincerità delle risposte.
La regola impone al giudice di intervenire durante l'esame, anche d'ufficio, per assicurare la pertinenza
delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell'esame e la correttezza delle contestazioni.
L'invadenza del giudice durante l'esame testimoniale era stata avvertita dal legislatore tant'è che
nel 1999 è intervenuto per modificare il secondo comma dell’art. 506 c.p.p. prevedendo che il presidente può
rivolgere domande, ai testimoni, ai periti ecc.. alle parti esaminate solo dopo l’esame ed il controesame.
Tale norma, però, nella pratica non viene quasi mai osservata soprattutto perché priva di sanzione.
Si assiste il più delle volte a questa generale tendenza da parte del giudice ad intromettersi durante l’esame
incrociato che compromette spesso la sincerità delle risposte così sviando la parte interessata dall'obiettivo che si
prefiggeva di raggiungere e demolendo, talvolta, la strategia accusatoria o difensiva.
Tutte le ragioni che sono sottostanti al divieto di domande suggestive nel corso dell'esame (assicurare la genuinità
dell'acquisizione degli elementi di prova) vengono in un solo colpo demolite dal potere attribuito al giudice di porre
domande senza alcun limite.
Nessuna invocazione, quindi, di inutilizzabilità della prova, ex art. 191 c.p.p., può essere fatta se si ritiene che la disciplina
degli artt. 498 e 499 c.p.p. non riguarda il giudice terzo ed imparziale;.
Il potere accordato al giudice di porre domande, di indicare i temi di prova nuovi o più ampi, utili per la completezza
dell'esame (ex art. 506 c.p.p.) non può essere visto solo come un intervento dell'ultimo momento teso a
colmare le lacune dell'esame incrociato, atteso che il II° comma del citato art. 506 c.p.p., facultando il presidente a
porre domande senza alcun divieto, consente di stravolgere il principio costituzionale secondo cui la prova si forma nel
contraddittorio delle parti dinanzi a giudice terzo ed imparziale.
Le parti durante la cross examination spesso subiscono impotenti l'introduzione da parte del presidente del
collegio di domande suggestive e talvolta nocive accompagnate da toni severi che incutono timore al teste specie
quando non sembra allineato alla tesi accusatoria, in barba al principio di presunzione di non colpevolezza.
Ma quello che più può essere considerato devastante è l'esame del minore condotto dal presidente o di un suo
ausiliario quando non si osservano le regole, anche non codificate, di massima cautela che l'età del soggetto
impone.
Quindi, mentre da un lato il legislatore ha inteso proteggere il minore nel suo racconto, specie nei delitti sessuali e ciò per
evitargli altre conseguenze negative psicologiche, dall'altro, il consentire domande che possono alterare ed
influenzare il ricordo, comporta un netto squilibrio che inevitabilmente inquina la prova.Ora, se è vero che i principi posti
dalla Carta di Noto non hanno alcun valore normativo, trattandosi di suggerimenti diretti a garantire
l'attendibilità delle dichiarazioni del minore e la protezione psicologica dello stesso, è anche vero però che
un esame del minore condotto dal presidente o da un suo ausiliario deve pur sempre seguire le regole di cui agli artt.
498 e 499 c.p.p.. (3)Invero, l'art. 498 4° comma c.p.p. dispone che l'esame testimoniale del minorenne è
condotto dal presidente su domande e contestazioni proposte dalle parti cosicché il presidente rappresenta soltanto la
longa manus della parte che ha chiesto l'esame del minore con la conseguenza che egli deve non ammettere
quelle domande che sono suggestive o che nuocciono alla sincerità.
Consentire allo stesso o al suo ausiliario di muoversi liberamente durante il racconto del minore non può che costituire
una chiara alterazione della formazione della prova.
Per evitare tale anomalia si dovrà assistere ad un radicale mutamento del pensiero di chi ancora sostiene che il processo
penale accusatorio italiano è improntato più che ad un processo delle parti alla ricerca spasmodica di una verità; e fin
quando nel nostro ordinamento troveranno alloggio gli artt. 506 2° comma e 507 c.p.p. sarà difficile eliminare le
incongruenze del sistema che portano ad una grave alterazione della formazione della prova.
Il giudice delle leggi è intervenuto più volte sul tema se la facoltà del giudice di intervenire attraverso il potere di
integrazione della prova sia costituzionalmente legittimo nell'ambito dell'esercizio del diritto della prova
riconosciuto alle parti.
Si è sostenuto da più parti che il nuovo codice processuale penale non tenderebbe alla ricerca della verità ma solo
ad una decisione correttamente presa in una contesa dialettica tra le parti, secondo un astratto modello accusatorio nel
quale un esito vale l'altro, purchè correttamente ottenuto.
Un processo penale, quindi, che vede il giudice meramente arbitro dell'osservanza delle regole di una contesa tra
parti contrapposte, e il giudizio avrebbe la funzione di non accertare i fatti reali onde pervenire ad una decisione il più
possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale, ma di attingere nel presupposto di
un'accentuata autonomia finalista del processo quella sola verità processuale che sia
possibile conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel rispetto di rigorose regole metodologiche e
processuali coerenti nel modello.
Tale concezione, però, non era stata accettata prima dell'avvento del principio del giusto processo dal giudice delle
leggi (cfr. sent. Corte Cost. 26-03-1993 n. 111) che richiamando il tessuto normativo positivo (la legge delega e i principi
costituzionali di cui questa richiede l'attuazione) ha evidenziato che fine primario ed ineludibile del
processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità(4).
Il fantasma dell'inquisitore, come è facile rilevare, è stato ed è sempre dietro l'angolo, anche se con la
modifica costituzionale dell'art. 111 il giudice delle leggi ha, in un certo qual modo, invertito la rotta.
(5)S'impone, però, un intervento legislativo che delimiti i poteri del giudice durante l'esame incrociato, in
quanto l'interpretazione data dalla Corte di Cassazione con la sentenza in commento, è estremamente lesiva
della genuinità della prova testimoniale e non in sintonia con il principio del giusto processo.
In dottrina, è stato osservato che il divieto di porre domande suggestive abbia il suo ambito operativo solo per
l'esame diretto, ovvero per quello condotto dalla parte che abbia un interesse comune a quella richiedente, e
come ciò abbia suo fondamento giustificativo nell'esigenza di garantire la genuinità della prova e di evitare che la
possibile pregressa conoscenza dei fatti della parte richiedente, nonché l'astratta o anche solo potenziale
comunione di intenti tra la stessa ed il teste, possa indurre l'esaminante aguidare l'esame
verso un scopo predeterminato; (6).
Con ciò, è stato giustamente rilevato, si tende a scongiurare il pericolo che la parte che ha chiesto
l'esame possa influenzare la risposta attraverso domande a cui il teste si limiti a rispondere con un sì o con un no.
Mentre tale divieto non è posto per la parte che deve controesaminare in quanto il controesame assolve al compito di
verifica dell'attendibilità del teste con funzioni distruttive e confutative (7).
Ma non si può, però, convenire con la stessa dottrina che sostiene che se il controesame assolve alla funzione di
verificare l'attendibilità del teste al fine di garantire la genuinità della prova (..) sarebbe assimetrico riconoscere solo
alla parte controinteressata il potere di porre domande suggestive e non anche al presidente del collegio. (8)
Dimentica tale concezione che ora il processo penale italiano, con la riforma costituzionale dell'art. 111, è più
accusatorio di prima.
Infatti, perché mai dovrebbe ritenersi assimetricovietare al giudice di porre domande in un sistema in cui
la prova si appartiene alle parti? D'altronde il giudice non conosce il fatto e quindi non si comprende come egli possa far
rilevare eventuali contraddizioni o colmare lacune nel racconto; egli, tra l'altro, non è portatore di alcun interesse
contrapposto ad una delle parti.
Infine, il principio costituzionale (art. 111) del giusto processo non può consentire di spuntare le armi alle parti contendenti
senza dire, poi, che il potere suppletivo del giudice è ridondante della vecchia concezione del giudice inquisitore
che non subisce alcun controllo quando pone domande che nuocciono alla sincerità delle risposte.
Conclusivamente, è auspicabile che il presidente eviti domande che possano condizionare la risposta; e per altro
verso, che il legislatore intervenga anche su questo nodo (..) (9).
Avv. Giuseppe DACQUI'* Nota pubblicata sul sito Penale.it (voce procedura - giurisprudenza)
(1) Cass. Pen. Sez. III^, 28-10-2009 n. 9157
(2) Cass. Sez. III^, 12-12-2007 n. 4721, Muselli
(3) Tale principio è in controtendenza con gli altri arresti giurisprudenziali che hanno invece valorizzato la validità del
metodo suggerito dalla Carta di Noto (cfr. Cass. Pen. Sez. IV^ 29-09-2006 n. 32281; Cass. Sez. III^ 18-
09-2007 n. 852). Se ci trovassimo nel sistema di Common Low potremmo sostenere che si tratti di un caso di Overruling.
Nella fattispecie, però, ci sembra un'abrogazione del precedente assolutamente immotivata.
(4) sent. Corte Cost. 26-03-1993 n. 111
(5) sentenze Corte Cost. n. 440/2000 e n. 32/2002
(6) Piero Silvestri – in Cass. Pen. n. 04 del 2009 pag. 1568
(7) ut supra
(8) ut supra pag. 1569
(9) Ettore Randazzo – Insidie e strategie dell’esame incrociato, pag. 116 , Giuffrè Editore
2008
Studio Legale Dacquì
http://www.dacquigiuseppe.it