Sono entrata nell’account Facebook di mio marito e ho trovato una chat aperta con un’altra donna in cui era chiara una relazione tra i due; se faccio presente questo fatto al giudice per chiedere la separazione con addebito a suo carico, rischio una responsabilità penale? Faccio presente che, in passato, mio marito mi aveva rivelato la sua password di accesso all’account.
 
Il codice penale [1] punisce chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza, oppure si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo. La pena prevista è della reclusione fino ad un massimo di tre anni. Il reato è stato introdotto nel 1993 per tutelare il cosiddetto “domicilio informatico”, inteso come lo spazio virtuale all’interno del quale il titolare svolge attività e intrattiene relazioni personali e rispetto al quale costui ha il diritto di impedire o limitare l’accesso o la permanenza altrui. Non a caso la lettera della norma e la stessa collocazione nel codice sono prossime al reato di violazione di domicilio
 
Per sistema informatico si intende qualunque complesso di hardware e software che sia in grado di immagazzinare, generare ed elaborare dati rilevanti per l’utente e il cui accesso sia protetto da un dispositivo che può essere costituito anche da una semplice password [2].
 
Non vi è dubbio, pertanto, che anche l’account di un social network, come nel caso di specie, rientri tra i sistemi informatici cui è applicabile la norma appena citata.
 
Posta quindi la certa sussistenza del reato nel caso in cui ci si impossessi dei dati di accesso all’account contro la volontà del titolare, la questione si rivela più problematica qualora, come nel caso da Lei esposto, l’agente sia legittimamente in possesso della password e tuttavia acceda al sistema per scopi estranei a quelli per i quali era entrato in possesso dei dati di autenticazione.
 
A tal proposito le Sezioni Unite della Cassazione hanno stabilito il principio secondo cui, ai fini del reato in esame l’abusività dell’accesso – quindi l’illiceità penale della condotta – non dipende dalle finalità perseguite dall’agente con l’accesso al sistema, quanto dalla sussistenza o meno del consenso del titolare dei dati, che, qualora non esplicito, deve essere escluso ogni qual volta chi compie l’accesso al sistema violi le prescrizioni impartite dal titolare circa l’uso del sistema [3]In parole semplici, anche qualora un soggetto sia legittimamente in possesso dei dati di accesso ad un account altrui, se l’avente diritto ha imposto delle condizioni e dei limiti riguardo all’utilizzo di tali dati e l’agente viola queste prescrizioni, vi sarà reato.
 
Se invece il titolare dell’account non ha imposto nessun limite, neanche implicito, limitandosi a fornire a un’altra persona le credenziali di accesso, ogni accesso da parte di quest’ultima – qualunque ne sia la finalità – non integra alcun reato.
 
In conclusione, ciò che rende abusivo l’accesso è la consapevolezza, da parte dell’agente, di accedere al sistema contro – o oltre – la volontà del titolare.
 
Dovendo adesso applicare i principi fin qui esposti al caso che La riguarda, riveste importanza decisiva accertare se Suo marito Le avesse fornito i dati di accesso al proprio account Facebook solo per scopi occasionali oppure se il rapporto di intima relazione fra voi avesse reso “abituale” e incondizionato l’accesso da parte Sua all’account di costui.
Nel primo caso infatti, qualora dovesse provarsi, anche tramite una testimonianza dell’uomo, la sussistenza di precisi limiti imposti da costui all’utilizzo dei dati in Suo possesso, la condotta che ha descritto rivestirebbe rilevanza penale. Contrariamente, se tale prova non dovesse raggiungersi, o se ancor meglio Lei fosse in grado di provare il contrario, non sarebbe riconoscibile alcun profilo di responsabilità penale nei Suoi confronti.
 
Occorre precisare tuttavia che la netta alternativa appena illustrata si scontra necessariamente con gli altalenanti orientamenti tanto degli uffici del Pubblico Ministero, quanto dei Tribunali, che oscillano da un orientamento garantista, che richiede ad esempio la prova dell’esplicito divieto all’accesso della persona interessata (sulla scorta dei principi in materia di violazione di domicilio), a un orientamento opposto e particolarmente rigoroso che ammette addirittura sul punto la prova per presunzioni (confronta recentemente Tribunale di Milano [4] che ha ritenuto sussistente il reato anche nel caso in cui l’accesso sia avvenuto tramite i dati memorizzati automaticamente sul computer dallo stesso titolare).
 
In conclusione, quale risposta al quesito proposto, non posso negarLe la possibilità che nei Suoi confronti possa formularsi l’accusa di aver commesso il reato di accesso abusivo al sistema informatico, sempre che, ovviamente, il Suo marito compagna dovesse decidere di sporgere querela per questi fatti.
 
Quanto al possibile esito dell’eventuale processo penale, al fine di una efficace difesa occorrerà dimostrare l’insussistenza di alcun divieto, pur implicito, da parte della titolare dell’account di continuare ad utilizzare i dati di autenticazione in Suo possesso. Nonostante tale circostanza non sia agevole da dimostrare, si potrà richiamare il fatto che nonostante Suo marito fosse a conoscenza del fatto che Lei fosse in possesso dei dati d’accesso al proprio account, costui non abbia provveduto né ad intimarLe di non farne più uso, né tantomeno a modificare la password. Ad ogni buon conto, lo strumento di difesa più efficace da ora in poi sarà il cessare ogni futuro accesso all’account in questione.
 
È anche vero che l’accertamento di una relazione adulterina potrebbe comportare per Suo marito una responsabilità per la cessazione del matrimonio, con relativa pronuncia di addebito. Ed è certo che ciò inciderebbe profondamente sull’obbligo di mantenimento ed eventuale risarcimento che il giudice della separazione potrebbe imporre all’uomo medesimo. A riguardo, comunque, per completezza, L’avverto del rischio che il giudice civile possa non accogliere, all’interno del giudizio di separazione, la prova acquisita in modo illecito (per esempio, una stampa della videata con la conversazione adulterina): e ciò perché alcuni giudici ritengono che la prova acquisita in violazione delle norme dell’ordinamento (come nel Suo caso) non possa essere assunta nel processo civile.
   
[1] Art. 615 ter cod. pen.
[2] Cass. sent. n. 3067 del 4.10.1999; Cass. sent. n. 36721/2008.
[3] Cass. sent  n. n. 4694 del 7.2.2012.
[4] Trib. Milano, sent. 17.4.2013.