Si può brevettare come marchio il nome di un personaggio notorio ? La questione si è posta ora in relazione al regista Federico Fellini, autore di film d’autore come Amarcord e Otto e mezzo, all’indomani del caso “Thumberg”. La nota attivista ecologista Greta Thumberg ha infatti recentemente registrato il proprio nome come marchio per evitare che altri, sfruttando magari una legislazione nazionale favorevole, potessero accaparrarsi il suo nome per finalità speculative commerciali.
Ma fino a che punto è possibile questa pirateria d’immagine nella legislazione italiana? e fino a che punto il titolare del marchio può effettivamente impedire a terzi l’uso non strettamente commerciale del nome?
La parente più prossima di Federico Fellini anni fa ha registrato il celebre nome come marchio, in una serie di classi merceologiche fra cui capi di vestiario, scarpe, ristoranti e servizi educativi. Effettivamente chiunque può registrare un nome altrui, se non ne lede la reputazione (art.8 c.2 cod.propr. ind. - d.lgs.30/05); tuttavia, se il personaggio è “celebre” (come appunto il regista riminese), la registrazione può avvenire solo a favore dei parenti più prossimi (art.8 c.3 ibidem).
Ora un comune italiano intende realizzare il “Museo Federico Fellini”. Messo di fronte al problema brevettuale, il comune decide di patteggiare con la titolare del marchio, “comprando” il diritto a utilizzare il nome secondo specifiche finalità e sotto determinate condizioni.
In particolare, il contratto prevede:  a) utilizzo del nome “Federico Fellini” come intitolazione del museo e come “domain name” del sito ufficiale del museo ; b) possibilità per il comune di realizzare un merchandising sfruttando lo stesso nome, con pagamento di royalties alla titolare del marchio; c) pagamento di una royalty per ogni entrata da sponsorizzazione privata del museo.
Il caso ha destato discussione in quanto tale contratto sembra adombrare un “brevetto sulla cultura”, perché nessun altro intento ha il museo se non quello di divulgare la vita di un personaggio e una particolare sensibilità culturale.  E’ mai possibile – ci si chiede - che un parente dell’illustre regista possa impedire a un ente pubblico di intitolare “Federico Fellini” il proprio museo specificamente dedicato a tale personaggio?
La questione va affrontata avendo in mente sia il diritto dei marchi, sia i principi codicistici del diritto al nome e della libertà di concorrenza.  In primo luogo, vale il principio che qualunque utilizzo di un nome celebre non possa essere tale da infangare, svilire, deturpare l’immagine del personaggio (art.8 c.2 cod.propr. ind. e inoltre artt.7-8 del cod.civ.).
In secondo luogo, vale ricordare che la titolarità del marchio (che sia registrato o solo “usato di fatto”) assicura al titolare il diritto di contraddistinguere specifici prodotti e/o servizi che vengano offerti dal titolare stesso o, per sua concessione, da uno o più licenziatari (ricordiamo che con il contratto di licenza il titolare concede l’uso del marchio “in affitto” a terzi, perché se ne serva a sua volta per contraddistinguere propri prodotti o servizi, normalmente sotto un disciplinare dettato dal concedente, che assicura la continuità d’immagine del prodotto o servizio).
In terzo luogo, per essere oggetto di tutela, il marchio occorre che sia utilizzato in funzione “distintiva”, deve cioè avere l’attitudine di contrassegnare prodotti e/o servizi (art.13 c.1 cod.propr.ind.).
Non per fare della “teoria generale”, ma per “venire al dunque”, osserviamo che il marchio vive sempre di un collegamento funzionale fra un soggetto (titolare, o licenziatario) e un oggetto; l’oggetto può essere un prodotto (per esempio l’intero output di un’azienda di abbigliamento, o una sola linea della produzione), o un servizio. Il servizio può consistere a sua volta nell’intera serie dei servizi di un’azienda (per esempio una scuola di lingua, una catena di ristoranti, un’assicurazione privata) o in un solo “prodotto di servizio” (come per esempio un singolo contratto bancario o un singolo evento musicale).
Nel caso che ci interessa, il servizio messo a punto dal comune consiste nella prestazione di servizi museali, ovvero nella raccolta, organizzazione ed esposizione al pubblico di oggetti, cimeli, disegni, foto e spezzoni cinematografici riguardanti la vita e le opere di un personaggio.  E qui viene la questione cruciale.  Nel fare ciò, il comune “sfrutta” il nome “Federico Fellini” per pubblicizzare prodotti o servizi ? Che equivale a chiedersi: il comune utilizza il nome famoso quale marchio per connotare “servizi”, di talchè necessita del consenso del titolare?
Occorre allora distinguere. Se il museo vende gadgets con la sola immagine di Fellini, si pone più che altro un problema di tutela del ritratto (art.8 c.1 cod.propr.ind. e art.10 cod.civ.), che esula dalla nostra trattazione.   Se il museo vende gadgets con il nome del regista, effettivamente sfrutta un marchio commerciale e lucra contraddistinguendo propri prodotti con il nome coperto da privativa. Qui l’idea delle “royalties” ci sta. E’ vero infatti che il “merchandising” (fenomeno nel quale il nome, il marchio, l’immagine, il personaggio, diventa esso stesso il prodotto, in forza di appeal intrinseco, e qui la funzione distintiva diviene secondaria) sfrutta il marchio altrui in un modo diverso dal modo classico della contraffazione, ma i due casi sono accomunati dalla finalità specifica di determinare un impulso all’acquisto: nel caso dell’utilizzo in funzione distintiva del prodotto, mediante accostamento del proprio prodotto alle produzioni del titolare del marchio, reputate qualitative; nel caso del merchandising, per l’appeal del personaggio stesso, la cui immagine, o il nome, o un segno caratterizzante, viene incorporato nel prodotto (caso classico: una ipotetica maglietta “Yves Saint Laurent”).  Anche il merchandising deve rispettare la privativa del titolare del marchio, per la ratio che, al pari dell’uso diretto su prodotto affine a quello per cui esiste registrazione, si trae vantaggio da una  notorietà creata da altri.  Pertanto la clausola che assicura royalty all’erede, in relazione al merchandising “Fellini”, è valida e applicabile.
Del pari (facendo un caso di scuola) se il museo vendesse pellicole felliniane, o lanciasse una catena di locande museali denominata “Fellini”, ancora si esporrebbe alle giuste rivendicazioni del titolare del marchio, il quale a buon diritto potrebbe reclamare royalties (o l’inibitoria e i danni, nel caso di utilizzo senza consenso).  Nei casi visti finora, infatti, il nome “Fellini” sarebbe usato come catalizzatore d’acquisto di prodotti pubblicizzati e venduti dal comune, e tale uso  costituisce utilizzo di marchio altrui, come tale sottoposto al consenso del titolare.
Nel caso dell’intitolazione del museo, invece, a ben vedere si realizza una torsione funzionale. Abbiamo detto che un conto sono i servizi museali (giuridicamente, l’insieme delle prestazioni  di servizi che permettono l’allestimento e la fruizione), un conto è l’oggetto di tali servizi (i cimeli, i testi, le foto ecc). Il nome “Fellini” applicato al museo, non contraddistingue più un prodotto o un servizio, bensì il contenuto stesso del servizio. La privativa sul marchio serve a proteggere il titolare dai terzi che pretendano di contraddistinguere con il marchio il servizio stesso; essa non serve invece a proteggere dai terzi che desiderino “raccontare”, “descrivere”, “illustrare” quanto riguarda un personaggio;  similmente, chiunque potrebbe ipoteticamente registrare il marchio “Napoleone Bonaparte” per connotare forniture militari, ma nessuno potrebbe impedire che si intitolino musei e libri allo stesso personaggio.   La fonte normativa da cui trae origine il principio ora visto è l’art. 7 cod. propr.ind.: “Oggetto della registrazione - Possono costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa tutti i segni, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni (…) purche' siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese. Appunto: “atti a distinguere”, dice la legge. Ne consegue che quando il nome non è utilizzato in funzione “distintiva”, ma solo in funzione “descrittiva” (come nel caso di “Federico Fellini” usato per descrivere il contenuto del museo) il segno perde la sua funzione specifica di marchio di contraddistinguere i prodotti, ed è utilizzabile nel “discorso pubblico” allo stesso modo in cui un conferenziere o un giornalista possono pubblicamente parlare di un marchio celebre, nominandolo espressamente in totale libertà.  E’ proprio la “funzione” che è diversa.
A sostegno di questa logica, vi è l’art. 21 c.1 b) e c) del cod.propr.ind.  che recita “1. I diritti di marchio d'impresa registrato non permettono al titolare di vietare ai terzi l'uso nell'attivita' economica (…)  b) di segni o indicazioni che non sono distintivi o che riguardano (…) altre caratteristiche del prodotto o del servizio”.  Di nuovo: il nome del regista non distingue il servizio museale in se’, ma solo il contenuto del servizio.
Con medesima ratio, troviamo l’art.13 c.1 b) cod.propr.ind., il quale (in altro contesto) riconosce che quando vi è una prevalente funzione “descrittiva” del segno distintivo, non è possibile la registrazione.
Allo stesso modo, un comune non potrebbe certo realizzare un “Museo Ferrari” (per contrarietà all’art.21 c.2 cod.propr. ind., “rischio di confusione” quanto alla “paternità” dell’iniziativa), ma ritengo potrebbe liberamente realizzare un “Museo delle Ferrari”:  nel secondo caso, infatti, la funzione del segno è meramente descrittiva dell’oggetto del servizio, e manca non solo lo sfruttamento dell’altrui notorietà, ma anche quell’intrinseca “ingannevolezza” che costituisce un il limite generale a qualsiasi utilizzo (o registrazione) di un marchio (art.21 c.2 cit.).
In conclusione, un comune può liberamente intitolare a “Federico Fellini” il proprio museo, senza alcun obbligo di royalties a favore del parente.  
Quanto alle royalties sulle sponsorizzazioni, la soluzione viene da se’: come non esiste un diritto di accaparramento del nome utilizzato in funzione meramente descrittiva, non può nemmeno esistere un’aspettativa di qualsivoglia “diritti” sugli sponsors. Pertanto in nessun modo la parente potrebbe pretendere una partecipazione alle entrate da finanziatori privati.
 
avv.Enrico Gorini