MINISTERO LAVORO 23 MARZO 2020 

L’orario di lavoro è definito dall’articolo 1 del decreto legislativo n. 66/2003 come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio delle sue funzioni”.  Alla luce delle tre condizioni illustrate, affinché il tempo messo a disposizione del datore di lavoro dal lavoratore sia considerato orario di lavoro e come tale retribuito, si potrebbe ritenere che il tempo dedicato dal lavoratore ad indossare gli indumenti di lavoro (ad esempio: tute, abiti, divise, camici, dispositivi di protezione individuale) non possa, di per sé, essere fatto rientrare nel concetto di orario di lavoro, in quanto il lavoratore, nel momento del cambio, non prestando alcuna attività lavorativa, non si troverebbe nell’esercizio delle sue funzioni.

Tuttavia, pur in assenza di precise e specifiche disposizioni di legge, la Corte di cassazione – secondo un orientamento ormai consolidato – ha ritenuto che si debba distinguere tra i seguenti casi:

se il lavoratore ha avuto in dotazione gli indumenti di lavoro e dispone della possibilità di portarli al proprio domicilio, recandosi al lavoro con gli indumenti già indossati, il tempo impiegato per la vestizione non può essere considerato orario di lavoro;
se, invece, il datore di lavoro ha fornito al lavoratore determinati indumenti, con il vincolo però di tenerli e di indossarli sul posto di lavoro, il tempo necessario alla vestizione e svestizione rientra nel concetto di orario di lavoro e, come tale, andrà computato e retribuito.

La ratio del discrimine tra le due diverse fattispecie si fonda, a ben vedere, sul concetto di eterodirezione dell’operazione da parte del datore di lavoro, rinvenibile esclusivamente nella seconda ipotesi.

Dopo un lungo iter la Giurisprudenza ha assunto alcune posizioni abbastanza pacifiche in relazione alla retribuibilita' della prestazione durante la vestione e svestizione della divisa ,ma con alcune puntualizzazioni :

Sostiene, infatti, la Suprema Corte che: “Ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo dove indossare la divisa (anche eventualmente presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro), la relativa operazione fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale il tempo necessario per il suo compimento non deve essere retribuito”. “Se, invece, le modalità esecutive di detta operazione sono imposte dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione, l’operazione stessa rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito” (cfr. Cass. civ, sez. lav. 16.5.2013, n. 11828, che richiama Cass. 10.9.2010 n. 19358; 9.9.2006 n. 19273; 21.10.2003 n. 15734; Cass. civ. – sez. lav. 13.04.2015, n. 7396).

Tale principio generale ha trovato poi, sempre in sede giurisprudenziale, ulteriori conferme.

In particolare, nel caso degli infermieri, la Cassazione ha evidenziato che l’atto di indossare la divisa – in quanto antecedente all’inizio della prestazione lavorativa e funzionale alla sua corretta esecuzione – deve essere inquadrato non tra le pause lavorative, bensì tra le attività propedeutiche all’esecuzione della prestazione. L’attività di assistenza presso istituti residenziali richiede, infatti, che la divisa sia necessariamente indossata e tolta, per ragioni di igiene, presso il luogo di lavoro e non altrove (Cass. civ. sez. lav. 26/1/2016, n. 1352).

Ancora, la Cassazione (con la sentenza 13/4/2015, n. 7396 – sez. lav.) ha precisato che tali principi non sono in contrasto con quanto affermato dall’articolo 1, comma 2, del d.lgs. n. 66/2003 (di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’orario di lavoro), come peraltro confermato dalla giurisprudenza comunitaria in materia, quando afferma che, per valutare se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario di lavoro, occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad essere a disposizione del datore di lavoro per poter fornire immediatamente la propria opera (C.G.C.E., sentenza 9 settembre 2003, causa C-151/02 Jaeger, punto 64; sentenza 3 ottobre 2000, causa C-303/98, Simap sui servizi di guardia medica).

Più di recente, la medesima Corte di Giustizia UE – con la sentenza 10 settembre 2015, causa C-266/14 – ha chiarito che l’articolo 2, punto 1, della direttiva 2003/88 (che ha abrogato e sostituito le citate direttive 93/104/CE e 2000/34/CE) deve essere interpretato nel senso che, in circostanze nelle quali i lavoratori non hanno un luogo di lavoro fisso o abituale, costituisce «orario di lavoro», ai sensi di tale disposizione, anche il tempo di spostamento che tali lavoratori impiegano per raggiungere i luoghi in cui si trovano i clienti indicati dal loro datore di lavoro. Secondo la Corte non costituisce orario di lavoro – ai sensi della direttiva 2003/88 – esclusivamente il periodo durante il quale i lavoratori dispongono della “possibilità (…) di gestire il loro tempo in modo libero e di dedicarsi ai loro interessi” (cfr. punto 37 della sentenza citata, che richiama in proposito la sentenza Simap, C-303/98, punto 50). Infatti, a parere della stessa Corte, la direttiva 2003/88 non prevede categorie intermedie tra i periodi di lavoro e di riposo e le relative prescrizioni in materia di durata massima dell’orario di lavoro e di periodi minimi di riposo costituiscono prescrizioni minime necessarie per garantire la tutela della salute e sicurezza, ai sensi del diritto dell’Unione europea.

Anche il caso del tempo impiegato dal lavoratore per indossare la divisa o i dispositivi di protezione individuale sul luogo di lavoro risulta quindi inquadrabile nell’ipotesi delineata dalla Corte di Giustizia, in quanto nel periodo considerato il lavoratore è giuridicamente obbligato ad eseguire le istruzioni del proprio datore di lavoro, senza poter gestire liberamente il proprio tempo.

Da ultimo, sposando la medesima linea interpretativa, la Corte di cassazione – con ordinanza n. 505 dell’11 gennaio 2019 – ha ribadito che nel rapporto di lavoro subordinato il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro soltanto se è assoggettato al potere conformativo del datore di lavoro. Questo può derivare dal regolamento aziendale oppure, implicitamente, dalla natura degli indumenti o dalla funzione che essi devono assolvere; le stesse, infatti, potrebbero determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro.

Conclude, quindi, che il “tempo tuta e doccia” deve essere retribuito ove sia eterodiretto dal datore di lavoro, che ne disciplina tempo e luogo di esecuzione.

Diverso il caso in cui, invece, al dipendente sia data facoltà di scegliere quando e dove cambiarsi.

Tale operazione fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento della prestazione lavorativa e, in quanto tale, non dovrà essere retribuita.

Sulla base di tale ricostruzione, si ritiene che l’attività di vestizione e di svestizione debba essere inclusa nell’orario di lavoro solo in presenza dei requisiti previsti dalla richiamata giurisprudenza, e cioè nel caso in cui il datore di lavoro abbia imposto al lavoratore di indossare determinati indumenti dallo stesso forniti, con il vincolo di tenerli sul posto di lavoro.

Viceversa, non sarebbe riconducibile ad orario di lavoro l’ipotesi in cui i lavoratori non siano obbligati ad indossare la divisa in azienda e non abbiano l’obbligo di dismetterla alla fine dell’orario, lasciandola in sede. In tali ultime ipotesi, infatti, il lavoratore resta libero di scegliere il tempo e il luogo dove indossare la divisa, ben potendo decidere di effettuare tale operazione presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro.