Una importante società di TLC introduce, a partire da un accordo collettivo (non firmato con tutti i sindacati rappresentativi dei dipendenti), un nuovo sistema per monitorare l’inizio e la fine del turno di lavoro: in pratica, questo monitoraggio è collegato all’accensione e allo spegnimento del terminale di lavoro (il sistema riguarda il personale addetto al call center coi clienti).

Sennonchè, in questo modo non viene conteggiato nella retribuzione tutto quel tempo in cui il personale passa il badge in entrata e in uscita, va e torna dalla pausa pranzo, accende il terminale, inserisce le credenziali di accesso, attende che il terminale diventi operativo, chiude la sessione di lavoro, attende lo spegnimento del terminale a fine turno. Nel corso degli anni, tutto questo tempo non conteggiato fa maturare un discreto importo economico.

Alcune lavoratrici si rivolgono al Tribunale del lavoro, per vedersi riconosciute il pagamento di queste differenze retributive e dichiarare la nullità della clausola contrattuale che ha inserito il nuovo sistema di rilevamento presenza.

Il Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, con sentenza n. 2653/2021 del 24/11/2021, dà loro ragione.
Il giudice meneghino ricorda che:
  • com’è noto, il d.lgs. n. 66/2003, in attuazione della direttiva 93/104/CE in materia di orario di lavoro e successivamente della direttiva 2003/88/CE, ha stabilito, all’ l’art. 1, comma 2, lettera A, che per “orario di lavoro” debba intendersi “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”
  • va sul punto precisato che l’art. 15 della direttiva 93/104/CE specifica che tale normativa può essere derogata dal legislatore nazionale e dalla contrattazione collettiva solo in senso più favorevole al lavoratore: ne consegue che il d.lgs. n. 66/2013 è da considerarsi inderogabile in peius
  • l’art. 1, comma 2, lett. A del d.lgs. n. 66/2003, ai fini della misurazione dell’orario di lavoro, attribuisce dunque un ampio rilievo non solo all’attività lavorativa in senso stretto, vale a dire al tempo nel quale il lavoratore è impegnato nello svolgimento effettivo delle proprie mansioni, ma anche “a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro” (Cassazione civile, Sez. Lav., 29.05.2017, n. 13466), nonché a tutte quelle operazioni strettamente funzionali all’espletamento delle mansioni stesse, quando queste attività strumentali siano dettate dalle scelte organizzative del datore di lavoro. A tal proposito, come ha da tempo rammentato la Suprema Corte, “è necessario che il lavoratore sia “a disposizione” del datore di lavoro, cioè soggetto al suo potere direttivo e disciplinare”.