- 11 -   IL MOBBING   Il termine “mobbing” deriva da una espressione di origine anglosassone “to mob” che significa assalire, aggredire in gruppo e sta ad indicare comportamenti che si pongono in contrasto non solo con l’ordinato vivere sociale ma anche con il regolare svolgimento di un rapporto di lavoro subordinato.   La Giurisprudenza che si è occupata del mobbing sia nell’ambito del rapporto di lavoro pubblico che in quello privato ha affermato che tale fattispecie consiste in una serie di comportamenti e provvedimenti posti in essere da uno o più soggetti (non necessariamente in posizione di supremazia gerarchica) finalizzati ad emarginare ed a vessare il dipendente. Tali comportamenti devono avere una durata di più mesi (normalmente almeno sei, secondo la più recente medicina del lavoro): il requisito minimo necessario (ma non sufficiente) per la configurabilità del fenomeno in esame è che esso trovi origine in condotte e/o atti illeciti reiterati.   Queste forme di vessazione determinano nel destinatario una forma di terrore psicologico che viene esercitato sul posto di lavoro attraverso attacchi ripetuti da parte di colleghi (c.d. mobbing “orizzontale”) o dei datori di lavoro (mobbing c.d. “verticale”).   Le forme che può assumere sono molteplici: dalla semplice emarginazione all’assegnazione di compiti dequalificanti, dalle continue critiche alla sistematica persecuzione; nei casi più gravi può arrivare anche al sabotaggio del lavoro e ad azioni illegali: l’obiettivo è di eliminare una persona che è, o è divenuta, in qualche modo scomoda, distruggendola psicologicamente e socialmente in modo da provocarne il licenziamento o da indurla alle dimissioni.   Va sottolineato come nel nostro ordinamento giuridico il fenomeno del “mobbing”, pur non essendo oggetto di specifica regolamentazione legislativa, venga normalmente ricondotto alla violazione della norma generale di cui all’art. 2087 del codice civile a mente del quale “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.   Le domande formulate sono normalmente risarcitorie, finalizzate ad ottenere la risarcibilità del danno patrimoniale, di quel danno, cioè, che incide sulla capacità di lavoro e di guadagno del dipendente e che consiste nel danno emergente e nel lucro cessante che siano conseguenza immediata e diretta della condotta lesiva (art.1223 c.c.).   Più raramente tali comportanti sono stati oggetto di specifica valutazione anche da parte dei giudici penali mediante l’applicazione delle norme di cui all’art.590 c.p. (lesioni personali colpose); art.610 c.p.(violenza privata); art.594 c.p. (ingiurie); art.595 c.p.(diffamazione); artt.609-bis c.p. e sg. (in materia di lavoro particolare importanza acquistano le c.d. “molestie sessuali”).     Particolare attenzione merita la sentenza emessa dal Tribunale di Torino in data 11.12.1999 che ha analizzato anche gli stati patologici sintomatici: sindrome ansioso-depressiva reattiva, labilità emotiva, nervosismo, insonnia, disappetenza, ansia, perdita di autostima, crisi di pianto con conseguente frequente ricorso all’uso farmacologico di ansiolitici, antidepressivi, e disintossicanti.   L’esistenza del fenomeno nella P.A. è stata presa in considerazione anche in sede di rinnovi contrattuali: ad esempio il C.C.N.L. comparto “ministeri” 2002-2005 all’art. 6 prevede l’istituzione di un comitato paritetico sul mobbing; l’art. 13, sotto la rubrica “codice disciplinare” prevede la possibilità di irrogare la sanzione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a un massimo di dieci giorni …….per “ sistematici e reiterati comportamenti aggressivi, ostili e denigratori che assumano forme di violenza morale o di persecuzione psicologica nei confronti di altro dipendente “.   Va, peraltro, segnalato come nella P.A. alcuni comparti risultano particolarmente interessati dal fenomeno: nella sanità, per esempio, ha trovato terreno particolarmente fertile nei delicati rapporti esistenti tra personale medico e paramedico, fra struttura apicale sanitaria e dirigenza generale alla quale ultima sono stati attribuiti, dalle più recenti leggi di riforma, poteri decisionali caratterizzati dalla più ampia discrezionalità tali da poter sfociare in forme di vero e proprio arbitrio, non facilmente sindacabili nemmeno dall’Autorità Giudiziaria.   Anche in seno alle autonomie locali si sono registrati comportamenti mobbizzanti ad esempio nei confronti dei segretari comunali, dopo le recenti leggi di riforma della categoria, che ne hanno ampliato le ipotesi di rimuovibilità.   La privatizzazione di interi settori dell’Amministrazione (vedasi da ultimo la “Cassa depositi e prestiti”) nonché l’emanazioni di leggi che tendono ad estendere i moduli privatistici della scelta fiduciaria dei dipendenti nella P.A. con frequente ricorso ad assunzioni esterne effettuate senza alcun previo concorso, contribuiscono di certo al diffondersi del fenomeno.   Del pari possono condurre in questa direzione le nomine dei primari di reparto operate dai Dirigenti del Servizio sanitario nazionale di cui all’art. 26 del D.lgs.165/2001, nonché nel settore della pubblica Istruzione, ove il sempre più ampio margine di discrezionalità dei dirigenti nell’affidamento e nella valutazione dei servizi pre-ruolo può anche configurare ipotesi di comportamenti mobbistici.   Un contributo in questa direzione ha dato anche la legge n. 145 del 2002 che ha ampliato tali possibilità (c.d. “spoil-sistem), inserendo anche un elemento di valutazione politica nelle nomine di vertice.     In considerazione del dirompente diffondersi del fenomeno l’INAIL, ai sensi dell’art.10 comma 4 del D.lgs. 38/2000, lo ha inserito negli studi sulle nuove patologie professionali.   Particolare attenzione merita a questo punto  la sentenza n. 359 del 2003 con la quale la Corte Costituzionale, seppure con riguardo al particolare problema della competenza legislativa, si è occupata proprio del fenomeno del “mobbing”.   La legge n. 16 dell’11 luglio 2002 della Regione Lazio recante “disposizioni per prevenire e contrastare il mobbing nei luoghi di lavoro” ha regolamentato la materia sul presupposto che le Regioni fossero competenti a legiferare in subiecta materia anche a seguito dell’attribuzione dei più ampi poteri legislativi riconosciuti alle regioni dalla recente riforma del titolo V° della Costituzione e profittando del vuoto normativo a livello nazionale.   La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 359 del 2003, ha sottolineato come una regolamentazione legislativa della materia debba prevedere innanzi tutto la prevenzione e la repressione dei comportamenti dei soggetti che pongono in essere tali comportamenti, in secondo luogo le misure di sostegno psicologico e, se del caso, l’individuazione delle procedure per accedere alle terapie di tipo medico di cui la vittima può avere bisogno; nonché il regime degli atti e dei comportamenti posti in essere dalla vittima come reazione a quanto patito.   La Corte ha, poi, sottolineato come, pur in mancanza di una specifica disciplina normativa del mobbing, i giudici di merito hanno posto in essere  provvedimenti di vario tipo, reintegratori e risarcitori, per apprestare adeguate forme di tutela, prevalentemente fondati sull’art. 2087 del cod. civ.   Il Giudice delle leggi ha, comunque, affermato, che la disciplina del mobbing, resta di competenza esclusiva dello Stato o, al più, concorrente.   Non va dimenticato, poi, che, nel settore pubblico, una condanna della P.A. per danno da mobbing (di qualsiasi genere) può comportare, tra le altre conseguenze, un danno per l’Erario di cui l’autore può essere chiamato a rispondere innanzi alla Corte dei Conti in sede di giudizio di responsabilità amministrativa.   Tribunale Torino 16.11.1999  Da alcuni anni gli psicologi, gli psichiatri, i medici del lavoro, i sociologi e più in generale coloro che si occupano di studiare il sistema gerarchico esistente in fabbrica o negli uffici ed i suoi riflessi sulla vita del lavoratore, ne hanno individuato alcune gravi e reiterate distorsioni, capaci di incidere pesantemente sulla salute individuale.   Si tratta di un fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing.   Il termine, proviene dalla lingua inglese e dal verbo to mob [attaccare, assalire] e mediato dall’etologia, si riferisce al comportamento di alcune specie animali, solite circondare minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo.   Spesso nelle aziende accade qualcosa di simile, allorché il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio.   Il fenomeno ha ormai assunto, a seguito delle denunce di numerosi esperti di settore (medici, sociologi ecc.) e delle stesse vittime, proporzioni senza dubbio rilevanti, così da coinvolgere, secondo la stima di un autorevole settimanale francese, in ogni paese europeo, percentuali non indifferenti di lavoratori (v. oltre, Tavola I).   In base a tale stima, oltre il 4% dell’intera forza lavoro occupata in Italia è attualmente oggetto di pratiche di mobbing.   Inoltre, secondo il Centro di disadattamento della prestigiosa Clinica del lavoro «Luigi Devoto» di Milano, che al tema del mobbing a fine febbraio 1999 ha dedicato un seminario nazionale, ogni dipendente ha il 25% di possibilità di trovarsi, nel corso della propria esperienza professionale, in tali condizioni, mentre il 10% dei casi di suicidio presenta come concausa una situazione di terrorismo psicologico sul posto di lavoro.             Sui fatti di causa. ? L’istruttoria esperita in corso di causa ha consentito di accertare che la ricorrente è stata investita, nel corso del suo breve rapporto di lavoro con la società convenuta, durato complessivamente 8 mesi (da maggio a dicembre 1996), da un’autentica catastrofe emotiva e, in pari tempo, che è stata colpita da sindrome ansioso depressiva reattiva, con frequenti crisi di pianto,vertigini, senso di soffocamento, tendenza all’isolamento, sindrome protrattasi per numerosi mesi, a partire da giugno 1996, e risoltasi solo nell’agosto 1998, dopo un primo miglioramento registratosi in concomitanza con la cessazione della collaborazione.   Di ciò fanno fede, in modo assolutamente convergente, le deposizioni degli stretti congiunti della lavoratrice e di una collega di lavoro del tempo nonché le dichiarazioni e certificazioni in atti del medico di base e di due neurologi che all’epoca l’hanno visitata; dalle quali emerge anche che la lavoratrice non ha mai sofferto in antecedenza di tali disturbi e stati patologici e che fino al periodo sopra citato la sua vita, anche in ambito familiare e segnatamente nei rapporti con il marito ed i due giovani figli, è stata serena e si è svolta in modo del tutto normale e regolare.   L'istruttoria ha nel contempo consentito di acclarare che durante intercorso rapporto lavorativo con la società convenuta la ricorrente è stata oggetto di gravi atti di persecuzione da parte del suo diretto superiore, il capo turno sig. Dumas.   Oltre a molestarla sul piano sessuale, il superiore l'ha infatti stabilmente collocata ad una macchina, la 140, chiusa tra altre macchine ed i cassoni di lavorazione, così da impedirle possibili contatti, durante l'orario di lavoro, con i colleghi e le colleghe o da renderli assai difficili ed infrequenti.   Il superiore, noto nell'ambiente lavorativo per il contegno abitualmente irritante e arrogante e per il linguaggio incivile ed offensivo di cui è solito fare uso e, in quanto tale, segnalato dalla RSU alla direzione aziendale per le necessarie iniziative del caso, ha inoltre tenuto nei confronti della ricorrente, ripetutamente, specie in occasione delle doglianze relative alla mancata rotazione sulla macchina 140 o anche di semplici richieste di intervento per guasti meccanici alla stessa, un comportamento offensivo e violento, sul piano verbale.   Orbene, sulla base di tale accertamento può ritenersi fornita la prova del nesso di causalità tra la patologia insorta improvvisamente nella lavoratrice e l'ambiente di lavoro. Del che deve indubbiamente essere chiamato a rispondere il datore di lavoro, ai sensi dell'art. 2087 c.c., essendo questi tenuto a garantire l'integrità fisio-psichica dei propri dipendenti e, quindi, ad impedire e scoraggiare con efficacia contegni aggressivi e vessatori da parte di preposti e responsabili, nei confronti dei rispettivi sottoposti.   Per completezza di motivazione va dato atto, a questo punto, di quanto sostenuto dalla difesa della società convenuta nel corso della discussione finale della vertenza, al fine di ottenere una pronuncia di rigetto della domanda azionata in giudizio. E cioè che l'evento lamentato dalla lavoratrice in ricorso, ove realmente provato in causa e correlabile alle condizioni di lavoro, non potrebbe comunque essere giuridicamente addebitato al datore, per i seguenti tre ordini di motivi:   risulta nella specie rispettata la normativa sullo spazio fisico a disposizione del prestatore, quale consacrata dall'art. 6 della legge 19 marzo 1956, n. 303, e successive modificazioni, onde non si versa in ipotesi di contegno contra legem;   all'epoca in cui i fatti di causa si sono svolti, inoltre, nulla è stato segnalato e portato a conoscenza del datore e, pertanto, non sussistono gli estremi di colpa e prevedibilità, necessari ad integrare l'illecito civile,   la vicenda evidenzia infine una particolare «labilità emotiva» della lavoratrice, certificata dalla stessa Relazione della dott.ssa Orsi 28 febbraio 1997, e cioè uno stato soggettivo, capace da solo di generare l'evento lamentato dalla ricorrente e di spiegare quanto accadutole sul piano personale.   L'assunto sub a), afferente il rispetto della normativa, è del tutto privo di fondamento. Dalle deposizioni dei testi escussi emerge infatti che la zona prospiciente la macchina 140 era costantemente occupata da materiale e cassoni di lavorazione; conseguentemente lo spazio vitale a disposizione della lavoratrice era assolutamente carente, in violazione del requisito di «sufficienza» prescritto dalla lett. a), par. 2, Allegato VII al D. L.vo 19 settembre 1994, n. 626.   Del pari infondato è il rilievo sul b), concernente la mancata segnalazione dei fatti di causa al datore.   …                   Del tutto destituito di fondamento è infine quanto evidenziato sub c), in riferimento alla particolare labilità emotiva della lavoratrice e all'idoneità di tale dato, da solo, a spiegare quanto accadutole.   Stando alle deposizioni, concordi in punto, dei prossimi congiunti[24], di una collega di lavoro dell'epoca[25] e del medico di base[26], la ricorrente non ha mai manifestato, prima dei fatti di causa e anche nel corso dei pregressi rapporti di lavoro, alcuna debolezza o cedevolezza sul piano emotivo e comportamentale. E, d'altra parte, secondo quanto ha chiarito la stessa dott.ssa Orsi, solo «condizioni lavorative particolarmente disagevoli» possono determinare in soggetti con dati della personalità simili a quelli della ricorrente sindrome di tipo depressivo, riscontrabile, alla lunga, anche in individui con tratti differenti del carattere.   Nel caso in esame non è conseguentemente prospettabile,in riferimento alla previsione di cui ai commi 2° e 3°, dell'art. 41 c.p. e argomentando da essa, un'ipotesi di esclusione del nesso di causalità, per la preesistenza di causa efficiente autonoma, capace da sola di generare l'evento lesivo.   A ciò aggiungasi che se, come vittima dell'altrui sopruso, la lavoratrice ha reagito con profondo turbamento, così profondo da determinare l'insorgenza di una sindrome depressiva reattiva, ciò è cosa che non modifica né la realtà della prevaricazione né la sua posizione di persona offesa da essa.   La costituzione, nel suo art. 32, e la legge, nell'art. 2087 cc, tutelano infatti tutti indistintamente i cittadini, siano essi forti e capaci di resistere alle prevaricazioni siano viceversa più deboli e quindi destinati anzitempo a soccombere.   Sul ristoro del danno patito. Accertata in base a quanto precede la sussistenza di condotte antigiuridiche produttive ai danni, imputabili a fatto e colpa della società datrice di lavoro, si tratta a questo punto di determinare il quantum debeatur.   In proposito va osservato che non si versa in ipotesi di invalidità permanente, essendosi la patologia insorta nella lavoratrice risolta nell'agosto 1998, dopo un primo significativo miglioramento già registratosi in concomitanza con la cessazione della collaborazione lavorativa.   In rapporto a tale dato e tenuto conto del danno biologico medio tempore procurato alla ricorrente e della durata di esso, alla medesima viene equitativamente liquidato l'importo netto di L. 10.000.000.   A ciò vanno aggiunti gli interessi legali dal gennaio 1997 al saldo.   Le spese di lite, liquidate in dispositivo, vengono poste a carico della parte soccombente.   Considerato quanto accertato in causa, la cancelleria dovrà trasmettere copia della presente sentenza al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, per le valutazioni e le eventuali iniziative del caso.         Corte Costituzionale 19.12.2003 n. 359 1. Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna la legge della Regione Lazio 11 luglio 2002, n.16 (Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro), perché avrebbe leso la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile nonché di ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali in contrasto con l'art. 117, secondo comma, lettere l) e g), della Costituzione. Inoltre il ricorrente sostiene che la disciplina del mobbing rientra nella tutela della salute e nella tutela e sicurezza del lavoro, materie entrambe oggetto di legislazione concorrente, e che con la legge impugnata la Regione Lazio ha fissato essa stessa i principi fondamentali senza attendere che fosse lo Stato a stabilirli. Censure specifiche il ricorrente muove agli articoli 2, 4, 6 e 7 della legge suindicata, sempre per contrasto con i citati parametri costituzionali. 2. Si deve, in primo luogo, ritenere che l'impugnazione concerna l'intera legge, non soltanto perché nelle conclusioni se ne chiede la dichiarazione di illegittimità senza limitare tale richiesta alle singole disposizioni di cui sopra, ma anche e soprattutto perché nella parte espositiva e motiva del ricorso espressamente si precisa che gli specifici vizi denunciati non possono non estendersi all'intero corpo normativo. Ciò, tuttavia, non rende inammissibile l'impugnazione, perché l'applicazione del principio secondo cui la denuncia di illegittimità costituzionale non può appuntarsi contro un provvedimento legislativo nel suo complesso - più volte affermato da questa Corte (v., per tutte, le sentenze n. 213 e n. 94 del 2003, n. 261 del 1995 e n. 85 del 1990) - presuppone che la mancata specificazione delle norme censurate e l'eventuale correlativa carenza dell'indicazione delle ragioni dell'evocazione dei parametri costituzionali determinino una genericità delle censure tale da non consentire l'individuazione della questione oggetto dello scrutinio di costituzionalità. Nel caso in esame, invece, così come si è verificato in altre ipotesi di impugnative in via principale riferite ad interi complessi normativi (v. sentenze n. 438 del 2002, n. 140 del 1976 e n. 154 del 1972), le caratteristiche di genericità e quindi di incertezza non si ravvisano. Il ricorso, infatti, riguarda una legge avente un contenuto specifico ed omogeneo e si fonda essenzialmente sulla denuncia di illegittimità delle norme dell'art. 2, contenente la definizione dei comportamenti costituenti mobbing, intorno alla quale ruotano tutte le altre disposizioni. 3. Una volta individuato l'oggetto della questione di costituzionalità e conseguentemente superati i dubbi che potevano insorgere sulla sua ammissibilità, si deve premettere che alcuni profili generali e preliminari delle difese di entrambe le parti sono da disattendere. Questa Corte ha più volte affermato che la mancanza di un'espressa, specifica disciplina statale contenente i principi fondamentali di una determinata materia di competenza legislativa concorrente non impedisce alle Regioni di esercitare i propri poteri, in quanto in ogni caso tali principi possono e devono essere desunti dalla preesistente legislazione statale (v. ex plurimis sentenze n. 201 e n. 196 del 2003 nonché n. 282 del 2002). Ciò implica che il carattere di provvisorietà rivendicato dalla stessa legge regionale nell'art. 1 non è idoneo a renderla legittima indipendentemente dal vaglio del suo contenuto (v., da ultimo, sentenza n. 307 del 2003). 4.1. Si può ora procedere all'esame nel merito della questione. E' noto che la sociologia ha mutuato il termine mobbing da una branca dell'etologia per designare un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo. Ciò implica l'esistenza di uno o più soggetti attivi cui i suindicati comportamenti siano ascrivibili e di un soggetto passivo che di tali comportamenti sia destinatario e vittima. Per quanto concerne i soggetti attivi vengono in evidenza le condotte - commissive o, in ipotesi, omissive - che possono estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri sia in semplici comportamenti materiali aventi in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico, e tuttavia di acquisire comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall'effetto e talvolta, secondo alcuni, dallo scopo di persecuzione e di emarginazione. Per quanto riguarda il soggetto passivo si pongono principalmente problemi di individuazione e valutazione delle conseguenze dei comportamenti medesimi. Tali conseguenze, secondo le attuali acquisizioni, possono essere di ordine diverso. Infatti, la serie di condotte in cui dal lato attivo si concretizza il mobbing può determinare: l'insorgenza nel destinatario di disturbi di vario tipo e, a volte, di patologie psicotiche, complessivamente indicati come sindrome da stress postraumatico; il compimento, da parte del soggetto passivo medesimo o nei suoi confronti, di atti che portano alla cessazione del rapporto di lavoro (rispettivamente: dimissioni o licenziamento), anche indipendentemente dall'esistenza dei disturbi di tipo psicologico o medico di cui si è detto sopra; l'adozione, da parte della vittima, di altre condotte giuridicamente rilevanti, ed eventualmente illecite, come reazione alla persecuzione ed emarginazione. 4.2. Da quanto detto emerge che la normativa in materia di mobbing può avere un triplice oggetto, in quanto può riguardare la prevenzione e repressione dei comportamenti dei soggetti attivi del fenomeno, le misure di sostegno psicologico e, se del caso, l'individuazione delle procedure per accedere alle terapie di tipo medico di cui la vittima può avere bisogno ed il regime degli atti o comportamenti posti in essere da quest'ultima come reazione a quanto patito. 5.1. Pur nell'attuale assenza nel nostro ordinamento giuridico di una disciplina a livello di normazione primaria avente ad oggetto specifico il mobbing, i giudici sono stati chiamati più volte a pronunciarsi in controversie in cui tale fenomeno entrava a volte come fonte della pretesa al risarcimento del danno biologico - per patologie, soprattutto psichiche, che si affermavano causate da comportamenti vessatori e persecutori subiti nell'ambiente di lavoro da parte del datore di lavoro o di uno o più colleghi - a volte come elemento di valutazione di atti risolutivi del rapporto di lavoro, la cui qualificazione si faceva dipendere dall'accertamento di determinate condotte integranti il fenomeno in questione. La giurisprudenza ha, prevalentemente, ricondotto le concrete fattispecie di mobbing nella previsione dell'articolo 2087 cod. civ. che, sotto la rubrica «tutela delle condizioni di lavoro», contiene il precetto secondo cui «l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure ... necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro», e che è stato inteso come fonte di responsabilità anche contrattuale del datore di lavoro. 5.2. Le considerazioni svolte permettono di affermare, riguardo ai parametri costituzionali evocati, che la disciplina del mobbing, valutata nella sua complessità e sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro, rientra nell'ordinamento civile [art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione] e, comunque, non può non mirare a salvaguardare sul luogo di lavoro la dignità ed i diritti fondamentali del lavoratore (artt. 2 e 3, primo comma, della Costituzione). Per quanto concerne l'incidenza che gli atti vessatori possono avere sulla salute fisica (malattie psicosomatiche) e psichica del lavoratore (disturbi dell'umore, patologie gravi), la disciplina che tali conseguenze considera rientra nella tutela e sicurezza del lavoro nonché nella tutela della salute, cui la prima si ricollega, quale che sia l'ampiezza che le si debba attribuire (art. 117, terzo comma, della Costituzione). Di ciò si ha conferma negli atti interni e comunitari che finora si sono occupati del fenomeno, pur in assenza, come si è detto, di una specifica disciplina a livello di normazione di rango primario. In particolare, per quel che riguarda gli atti interni statali, l'inserimento del mobbing nelle suddette materie trova conferma sia nel punto 4.9 del d.P.R. 22 maggio 2003, con il quale è stato approvato il Piano sanitario nazionale 2003-2005, sia nel punto BS11 della delibera, sempre del 22 maggio 2003, contenente l'Accordo tra il Ministro della salute, le Regioni e le Province autonome sul «bando di ricerca finalizzata per l'anno 2003 per i progetti ex art. 12-bis del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502». Quanto, poi, agli atti comunitari è opportuno osservare che la risoluzione del Parlamento europeo n. AS-0283/2001 del 21 settembre 2001, avente ad oggetto "Mobbing sul posto di lavoro", al punto 13 esorta la Commissione ad «esaminare la possibilità di chiarificare o estendere il campo di applicazione della direttiva quadro per la salute e la sicurezza sul lavoro oppure di elaborare una nuova direttiva quadro, come strumento giuridico per combattere il fenomeno delle molestie...». 6. La legge regionale impugnata deve ora essere valutata alla luce delle premesse generali esposte. L'articolo 1 dichiara al comma 1: «la Regione, in attuazione dei principi costituzionali enunciati negli articoli 2, 3, 4, 32, 35, 37 della Costituzione, nel rispetto della normativa statale vigente e nelle more dell'emanazione di una disciplina organica dello Stato in materia, interviene con la presente legge al fine di prevenire e contrastare l'insorgenza e la diffusione del fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro»; al comma 2: «la Regione individua nella crescita e nello sviluppo di una cultura del rispetto dei diritti dei lavoratori da parte di tutte le componenti del mondo del lavoro gli elementi fondamentali per il raggiungimento delle finalità indicate al comma 1 e per un'ottimale utilizzazione delle risorse umane nei luoghi di lavoro». L'articolo 2, che reca la rubrica «definizione del mobbing», stabilisce al comma 1 che «ai fini della presente legge per mobbing s'intendono atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale». Al comma 2 l'articolo 2 precisa: «gli atti ed i comportamenti di cui al comma 1 possono consistere in: a) pressioni o molestie psicologiche; b) calunnie sistematiche; c) maltrattamenti verbali ed offese personali; d) minacce od atteggiamenti miranti ad intimorire ingiustamente od avvilire, anche in forma velata ed indiretta; e) critiche immotivate ed atteggiamenti ostili; f) delegittimazione dell'immagine, anche di fronte a colleghi ed a soggetti estranei all'impresa, ente od amministrazione; g) esclusione od immotivata marginalizzazione dell'attività lavorativa ovvero svuotamento delle mansioni; h) attribuzione di compiti esorbitanti od eccessivi, e comunque idonei a provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche e psicologiche del lavoratore; i) attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo professionale posseduto; l) impedimento sistematico ed immotivato all'accesso a notizie ed informazioni inerenti l'ordinaria attività di lavoro; m) marginalizzazione immotivata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e di aggiornamento professionale; n) esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei confronti del lavoratore, idonee a produrre danni o seri disagi; o) atti vessatori correlati alla sfera privata del lavoratore, consistenti in discriminazioni sessuali, di razza, di lingua e di religione». L'articolo 3 prevede la possibilità di iniziative da parte degli organi paritetici di cui all'articolo 20 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626 (Attuazione della direttiva 89/391/CEE, della direttiva 89/654/CEE, della direttiva 89/655/CEE, della direttiva 89/656/CEE, della direttiva 90/269/CEE, della direttiva 90/270/CEE, della direttiva 90/394/CEE, della direttiva 90/679/CEE, della direttiva 93/88/CEE, della direttiva 95/63/CE, della direttiva 97/42/CE, della direttiva 98/24/CE, della direttiva 99/38/CE e della direttiva 99/92/CE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro), dirette a migliorare la sicurezza e la salute dei lavoratori. L'articolo 4 stabilisce al comma 1 che le aziende sanitarie locali istituiscono o promuovono l'istituzione, anche mediante convenzioni con associazioni senza fini di l           ucro, di appositi centri opportunamente dislocati sul territorio in relazione ai livelli occupazionali esistenti nell'ambito pubblico e privato, che forniscano adeguata assistenza al lavoratore oggetto di discriminazioni. Tali centri, nel caso in cui accertino l'effettiva esistenza di elementi atti a configurare le fattispecie di cui all'articolo 2, assumono, entro sessanta giorni dalla richiesta del lavoratore, iniziative a tutela del medesimo. L'articolo 5 prevede iniziative da parte degli enti locali riguardanti l'informazione sul mobbing e la prevenzione della sua insorgenza, nonché la possibilità di convenire in sede di contrattazione collettiva per il comparto Regioni enti locali misure idonee al conseguimento degli scopi suindicati. L'articolo 6 istituisce un Osservatorio regionale per lo studio ed il monitoraggio del fenomeno mobbing ed al quale i lavoratori che se ne ritengano vittime possono rivolgersi per un'audizione qualora non abbiano ottenuto soddisfazione dal centro di cui all'art. 4. L'articolo 7, infine, determina gli stanziamenti in favore delle ASL per l'istituzione degli Osservatori e per le iniziative degli enti locali. 7.- Alla luce delle premesse esposte, la legge regionale censurata è costituzionalmente illegittima. L'articolo 2 detta, al comma 1, la definizione del mobbing, mentre il comma 2 contiene un'esemplificazione di fattispecie in cui può concretarsi il comportamento vessatorio nei confronti del lavoratore dipendente. Così facendo, il legislatore regionale ha ritenuto anzitutto di poter fornire autonomamente la nozione giuridica di un fenomeno che, già individuato da altre branche delle scienze sociali, non è tuttavia ignorato nel nostro ordinamento statale, pur non essendo ancora emerso come oggetto di una disciplina specifica. Se poi dalla definizione generale si passa all'esame delle esemplificazioni contenute nel comma 2 dell'art. 2, si deve constatare che alcune di esse costituiscono, in linea di astratta previsione, fattispecie penalmente rilevanti [v., per esempio, lettere c) e d)], altre integrano ipotesi tipiche di violazione di obblighi del datore di lavoro [c.d. demansionamento, v. lettere g) ed i)]. Qualora poi si volga l'attenzione dagli autori del mobbing alla loro vittima, si rileva che la legge regionale in esame considera le conseguenze dei comportamenti suindicati sotto il profilo del danno subito dal lavoratore e, quindi, come elemento di fattispecie risarcitorie. La difesa della Regione Lazio ha sostenuto che in realtà la legge ha contenuto più che altro descrittivo e modestamente prescrittivo, limitandosi esclusivamente a stabilire l'approntamento di strutture e procedure per lo studio del fenomeno che ne costituisce oggetto. La tesi non può essere accolta, né ha rilievo la limitazione contenuta nel comma 1 dell'art. 2 secondo cui la definizione del mobbing opera solo ai fini della legge stessa. Questa, infatti, all'art. 4, comma 2, lettera d), prevede una vera e propria diffida, anche se tale termine non ricorre nella prescrizione che il centro anti-mobbing - in ipotesi anche una mera associazione privata - rivolge al datore di lavoro perché esegua gli obblighi relativi alla tutela della personalità del dipendente e della sua salute nascenti dal rapporto. La previsione di tale diffida vale a configurare un elemento dell'eventuale inadempimento del datore di lavoro e rientra, quindi, nella materia "ordinamento civile", oltre ad essere in contrasto anche con la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali [art. 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione], qualora il datore di lavoro sia una pubblica amministrazione o un ente pubblico nazionale. Per altro verso, l'art. 4, comma 2, lettera c), della legge in questione dà facoltà al centro anti-mobbing (della cui possibile natura già si è detto) di formulare una diagnosi e di avviare il lavoratore, con il suo consenso, al servizio sanitario specialistico, con ciò incidendo sulla disciplina di profili fondamentali della tutela della salute e della tutela e sicurezza del lavoro. In realtà l'intera legge si fonda sul presupposto - da ritenere in contrasto con l'assetto costituzionale dei rapporti Stato-Regioni - secondo cui queste ultime, in assenza di una specifica disciplina di un determinato fenomeno emergente nella vita sociale, abbiano in via provvisoria poteri illimitati di legiferare. D'altra parte, si è già visto come il mobbing non sia fenomeno esclusivamente italiano, ignoto agli organi comunitari; va evidenziato, infatti, che gli stessi atti comunitari sopra citati portano ad escludere che esso, nei suoi aspetti generali e per quanto riguarda i principi fondamentali, possa essere oggetto di discipline territorialmente differenziate. La citata risoluzione del Parlamento europeo AS-0283/2001, infatti, al punto 10 «esorta gli Stati membri (...) a verificare e ad uniformare la definizione della fattispecie del mobbing». Ciò non esclude che le Regioni possano intervenire, con propri atti normativi, anche con misure di sostegno idonee a studiare il fenomeno in tutti i suoi profili e a prevenirlo o limitarlo nelle sue conseguenze. Deve, viceversa, ritenersi certamente precluso alle Regioni di intervenire, in ambiti di potestà normativa concorrente, dettando norme che vanno ad incidere sul terreno dei principi fondamentali, che è quanto si è verificato nel caso di specie. La legge regionale impugnata, contenendo nell'art. 2 una definizione generale del fenomeno mobbing che costituisce il fondamento di tutte le altre singole disposizioni, è evidentemente viziata da illegittimità costituzionale. Siffatta illegittimità si riverbera, dalla citata norma definitoria, sull'intero testo legislativo.     P.Q.M   LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale della legge della Regione Lazio 11 luglio 2002, n. 16 (Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 dicembre 2003. DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 19 DIC. 2003.                È inammissibile la domanda di risarcimento da mobbing imputato a formali provvedimenti assunti dalla p.a., qualora questi non siano stati impugnati ed annullati (T.A.R. Sicilia Palermo, sez. I, 09 settembre 2008, n. 1123).   Va respinta la domanda risarcitoria del danno da mobbing proposta dal pubblico dipendente con rapporto di lavoro non contrattuale in mancanza di prova dell'intento persecutorio della pubblica amministrazione datrice di lavoro, che non è evincibile dall'illegittimità di provvedimenti amministrativi i quali non siano stati impugnati (Consiglio Stato, sez. V, 27 maggio 2008, n. 2515).   In materia di mobbing che comporti il risarcimento dei danni subiti da un lavoratore pubblico dipendente, il fatto che il datore di lavoro sia un ente pubblico e che la lesione sia avvenuta in conseguenza dell'adozione di provvedimenti amministrativi di natura autoritativo-organizzativa non implica elementi inidonei ad incidere sulla derivata responsabilità per “danno indiretto”, anch'essa di natura contrattuale: difatti l'azione della Procura non va riferita alla violazione delle generali regole di condotta che impongono a chiunque di non ledere la posizione di un qualsiasi soggetto indiscriminatamente considerato, bensì alla violazione, da parte del datore di lavoro, di precise norme che regolano il rapporto di impiego (C.Conti reg. Lombardia, sez. giurisd., 04 aprile 2006, n. 241).   Il pregiudizio indiretto conseguente a una condanna al risarcimento del danno da mobbing, riportata da una pubblica amministrazione, può essere oggetto dell'azione di rivalsa promossa in sede contabile nei confronti del dipendente cui siano riferibili i comportamenti ritenuti illeciti dal giudice civile (Corte Conti, sez. III, 25 ottobre 2005, n. 623).   Nel caso in cui un pubblico dipendente ritenga di essere oggetto di mobbing da parte dell'Amministrazione, va consentito l'accesso ai documenti da essa detenuti (disposizioni di servizio, provvedimenti di organizzazione di corsi professionali cui l'interessato non era mai stato invitato a partecipare, tabulati mensili delle "timbrature"; disposizioni dirigenziali) che, sebbene singolarmente esaminati appaiano legittimi, possono acquisire rilievo quali elementi comprovanti l'intento di emarginazione del lavoratore (T.A.R. Abruzzo L'Aquila, 27 gennaio 2004, n. 29).