Il processo di privatizzazione del pubblico impiego, avviato con il d.lgs 29/93 e completato con l’entrata in vigore del d.lgs 165/01, ha comportato la privatizzazione del rapporto anche dal punto di vista dei doveri richiesti da parte della P.A. al prestatore di lavoro. Ciò significa che la previsione dei doveri di servizio e degli obblighi comportamentali richiesti ai dipendenti pubblici e le sanzioni, previste in caso di violazione degli stessi, è stata affidata alla contrattazione nazionale di comparto.   Ne deriva che quasi tutto il diritto disciplinare delle P.A. non è più dettato dalla legge, ma dai Codici di comportamento delle Amministrazioni Pubbliche. Tali Codici sono adottati con decreto del Ministro della funzione pubblica, sentite le Confederazioni sindacali maggiormente rappresentative e recepiti nei contratti collettivi di categoria.   Dopo la riforma del 1993 si può, pertanto, affermare che il potere disciplinare è stato, in un certo, senso privatizzato ed ha assunto una configurazione sostanzialmente convenzionale e pattizia.   Innanzi tutto è stato stabilito che la tipologia delle infrazioni e delle sanzioni è definita dai contratti collettivi (art. 27 co. 2 d.lgs 80/98). La disposizione fondamentale in materia è l’art 54. d.lgs 165/01, la quale prevede:   “Il Dipartimento della funzione Pubblica, sentite le organizzazioni sindacali rappresentative ai sensi dell’art. 43, definisce un codice di comportamento delle pubbliche amministrazioni, anche in relazione alle necessarie misure organizzative da adottare al fine di assicurare la qualità dei servizi che le stesse amministrazioni rendono ai cittadini”.   L’art. 54 costituisce il presupposto legislativo del codice di comportamento, che si presenta più snello di quello precedente, in quanto vengono evidenziati i principi ai quali il dipendente deve attenersi.   La stessa norma prevede anche la possibilità per le pubbliche amministrazioni di darsi un proprio codice di comportamento, ad integrazione di quello adottato dal dipartimento della Funzione pubblica, per le particolari esigenze organizzative dell’Ente o alla luce dei particolari servizi erogati ai cittadini.   Il codice è pubblicato in Gazzetta Ufficiale e consegnato al dipendente all’atto dell’assunzione.   Nel quadro di queste innovazioni un ruolo di primo piano sono chiamati a svolgere i dirigenti delle singole strutture amministrative che hanno il compito di vigilare sull’applicazione del codice di comportamento.   Il nuovo codice di comportamento è stato emanato dal Presidente del Consiglio dei Ministri-Dipartimento della funzione Pubblica, con decreto del 28/11/00. Esso indica i principi e criteri per il comportamento quotidiano dei dipendenti pubblici, in modo da assicurare il rispetto degli obblighi di diligenza, lealtà e di imparzialità stabiliti dalla costituzione.   I principi generali del codice di comportamento sono: 1) il pubblico dipendente conforma la sua condotta al dovere costituzionale di servire esclusivamente la nazione con disciplina ed onore e di rispettare i principi di buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione.   2) Il dipendente mantiene una posizione di indipendenza, al fine di evitare di prendere decisioni o svolger attività inerenti alle sue mansioni, in situazioni anche solo apparenti di conflitto di interessi. Egli non svolge alcuna attività che contrasti con il coretto adempimento dei compiti d’ufficio e si impegna ad evitare situazioni e comportamenti che possano nuocere agli interessi o all’immagine della pubblica amministrazione.   3) Nel rispetto dell’orario di lavoro dedica la giusta quantità di tempo e di energie allo svolgimento delle proprie competenze, si impegna ad adempierle nel modo più semplice ed efficiente nell’interesse dei cittadini ed assume le responsabilità connesse ai propri compiti.   4) Usa e custodisce con cura i beni di cui dispone, per ragioni d’ufficio e non utilizza a fini privati le informazioni di cui dispone per ragioni d’ufficio.   5) Il comportamento del dipendente deve essere tale da stabilire un rapporto di fiducia e collaborazione tra cittadini e l’amministrazione. Nei rapporti con i cittadini egli dimostra la massima disponibilità e non ne ostacola l’esercizio dei diritti. Favorisce l’accesso degli stessi alle informazioni a cui abbiano titolo e, nei limiti in cui ciò non sia vietato, fornisce tutte le notizie e informazioni necessarie per valutare le decisioni dell’amministrazione ei comportamenti dei dipendenti.   6) Limita gli adempimenti a favore dei cittadini a quelli indispensabili e applica ogni possibile misura di semplificazione dell’attività amministrativa, agevolando, comunque, lo svolgimento da parte dei cittadini delle attività loro consentite e non contrarie a norme giuridiche in vigore.   7) Nello svolgimento dei propri compiti, rispetta la distribuzione delle funzioni tra Stato ed enti territoriali. Nei limiti delle proprie competenze, favorisce l’esercizio delle funzioni e di compiti da parte dell’autorità territorialmente competente e funzionalmente più vicina ai cittadini.   Per quanto riguarda il procedimento per l’applicazione delle sanzioni disciplinari, l’art. 55 co. 4-6 d.lgs 165/01 stabilisce: … 4. Ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento, individua l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari. Tale ufficio, su segnalazione del capo della struttura in cui il dipendente lavora, contesta l'addebito al dipendente medesimo, istruisce il procedimento disciplinare e applica la sanzione. Quando le sanzioni da applicare siano rimprovero verbale e censura, il capo della struttura in cui il dipendente lavora provvede direttamente.   5. Ogni provvedimento disciplinare, ad eccezione del rimprovero verbale, deve essere adottato previa tempestiva contestazione scritta dell'addebito al dipendente, che viene sentito a sua difesa con l'eventuale assistenza di un procuratore ovvero di un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato. Trascorsi inutilmente quindici giorni dalla convocazione per la difesa del dipendente, la sanzione viene applicata nei successivi quindici giorni.   6. Con il consenso del dipendente la sanzione applicabile può essere ridotta, ma in tal caso non è più suscettibile di impugnazione.   7. Ove i contratti collettivi non prevedano procedure di conciliazione, entro venti giorni dall'applicazione della sanzione, il dipendente, anche per mezzo di un procuratore o dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato, può impugnarla dinanzi al collegio arbitrale di disciplina dell'amministrazione in cui lavora. Il collegio emette la sua decisione entro novanta giorni dall'impugnazione e l'amministrazione vi si conforma. Durante tale periodo la sanzione resta sospesa.   8. Il collegio arbitrale si compone di due rappresentanti dell'amministrazione e di due rappresentanti dei dipendenti ed è presieduto da un esterno all'amministrazione, di provata esperienza e indipendenza. Ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento, stabilisce, sentite le organizzazioni sindacali, le modalità per la periodica designazione di dieci rappresentanti dell'amministrazione e dieci rappresentanti dei dipendenti, che, di comune accordo, indicano cinque presidenti. In mancanza di accordo, l'amministrazione richiede la nomina dei presidenti al presidente del tribunale del luogo in cui siede il collegio. Il collegio opera con criteri oggettivi di rotazione dei membri e di assegnazione dei procedimenti disciplinari che ne garantiscono l'imparzialità.   9. Più amministrazioni omogenee o affini possono istituire un unico collegio arbitrale mediante convenzione che ne regoli le modalità di costituzione e di funzionamento nel rispetto dei principi di cui ai precedenti commi.   10. Fino al riordinamento degli organi collegiali della scuola nei confronti del personale ispettivo tecnico, direttivo, docente ed educativo delle scuole di ogni ordine e grado e delle istituzioni educative statali si applicano le norme di cui agli articoli da 502 a 507 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297.   1) “Ciascuna amministrazione secondo il proprio ordinamento, individua l’ufficio competente per i provvedimenti disciplinari. Su segnalazione del capo della struttura, in cui il dipendente lavora, tale ufficio: - contesta l'addebito, - istruisce il procedimento disciplinare - applica la sanzione. 2) Quando le sanzioni da applicare sono il rimprovero verbale e la censura, il capo della struttura, in cui il dipendente lavora, provvede direttamente. 3) Ogni provvedimento disciplinare, ad eccezione del rimprovero verbale, deve essere adottato previa tempestiva contestazione scritta dell'addebito, 4) Il dipendente “viene sentito, a sua difesa con l’eventuale assistenza di un procuratore ovvero di un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato   I mezzi di tutela, a disposizione del dipendente nei cui confronti sia stata irrogata una sanzione disciplinare sono: - le procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi - il Collegio arbitrale di disciplina - il Collegio di conciliazione previsto dall’art. 66 d.lgs 165/01 - l’arbitrato unico.   In materia di responsabilità disciplinare la Giurisprudenza ha chiarito:   Le norme della l. n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo riguardano i procedimenti strumentali alla emanazione da parte delle amministrazioni di provvedimenti autoritativi - destinati ad incidere sulle situazioni giuridiche dei destinatari e caratterizzati dalla situazione di preminenza dell'organo che li adotta -, e non sono applicabili agli atti di gestione del rapporto di lavoro, adottati nell'esercizio del potere di supremazia gerarchica del datore di lavoro privato e privi dell'efficacia autoritativa del provvedimento amministrativo. Pertanto, all'atto di destituzione dall'impiego adottato all'esito del procedimento disciplinare ed a seguito di sentenza penale di condanna per un reato commesso in servizio, non è applicabile l'obbligo della motivazione stabilito dalla l. n. 241 del 1990, essendo sufficiente che esso indichi l'illecito disciplinare che giustifica la risoluzione del rapporto di lavoro, costituendo inoltre l'atto di conformazione al lodo arbitrale di cui all'art. 59, comma 7, d.lg. n. 29 del 1993 un atto dovuto che non richiede alcuna motivazione (Cassazione civile, sez. lav., 16 maggio 2003, n. 7704).     Gli atti gestionali assunti nel rapporto di pubblico impiego privatizzato (art. 4 comma 2 d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29), quali le sanzioni disciplinari, hanno natura negoziale: ne consegue l'inapplicabilità del regime proprio degli atti amministrativi e l'inerenza della materia a situazioni di diritto soggettivo e non d'interesse legittimo (Cassazione civile, sez. lav., 07 aprile 1999, n. 3373).   L'obbligo della comunicazione all'interessato dell'avvio del procedimento amministrativo, al fine di consentirgli la partecipazione con la presentazione di memorie scritte e documenti, non sussiste nel procedimento disciplinare, in cui tale funzione è svolta dall'atto con il quale il dipendente non solo è reso edotto di un procedimento instaurato nei suoi confronti, ma è messo in condizione di conoscere con precisione quale comportamento gli si contesta, consentendogli la difesa dall'addebito con la presentazione di giustificazioni (Consiglio Stato, sez. IV, 08 luglio 2003, n. 4050).   In tema di licenziamento disciplinare, il codice disciplinare predisposto dal datore di lavoro nel rispetto della legge e del contratto collettivo di lavoro ha natura negoziale, con la conseguenza che l'interpretazione delle relative disposizioni involge un apprezzamento in fatto ed è riservata in via esclusiva al giudice di merito, le cui valutazioni sono censurabili in cassazione solo per violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale imposti dalla legge e per vizi di motivazione. (Nella specie, vertendosi in tema di licenziamento disciplinare di un dipendente dell'Azienda di igiene urbana di Genova, la S.C. ha confermato la sentenza d'appello che aveva interpretato la disposizione contrattuale prevedente l'aumento della sanzione in caso di recidiva nel senso che fosse sufficiente ai fini di tale aumento l'irrogazione di una precedente sanzione per una mancanza della medesima natura, non rilevando la circostanza che il precedente provvedimento fosse stato impugnato, o che il relativo procedimento non fosse stato ancora definito) (Cassazione civile, sez. lav., 08 febbraio 2003, n. 1922).   A norma dell'art. 60 commi 11 - 12 c.c.n.l. 4 agosto 1995 e dell'art. 59 comma 3 d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29, la pubblicità nella sede di lavoro, in luogo accessibile a tutti i dipendenti, del "codice" disciplinare, è correttamente realizzata mediante affissione e conseguente accessibilità del testo del contratto, non occorrendo che di questo sia reso pubblico lo stralcio della sola normativa disciplinare (Consiglio Stato, sez. VI, 04 novembre 1999, n. 1717).   L'obbligo del datore di lavoro di comunicare al lavoratore i motivi del licenziamento (previsto dall'art. 2 l. 15 luglio 1966 n. 604) presuppone che i suddetti motivi non siano stati portati a conoscenza del dipendente in precedenza; qualora vi sia stata una precedente contestazione disciplinare dei fatti che hanno poi determinato il licenziamento, essa di per sé assolve all'onere di indicazione dei motivi del licenziamento, e a fronte di essa il lavoratore può chiedere ulteriore specificazione dei motivi ove non li ritenga sufficientemente precisati, all'interno del procedimento disciplinare che si apre con la contestazione senza che sia configurabile un obbligo del datore di lavoro di rispondere a una diversa richiesta di motivi, esterna a tale procedimento (Cassazione civile, sez. lav., 14 gennaio 2003, n. 454).   Gli art. 3 l. 15 luglio 1966 n. 604, 2119 c.c. e 7 l. 20 maggio 1970 n. 300, che costituiscono norme inderogabili in favore del lavoratore come contraente più debole, prevedono per il lavoratore, nei cui confronti debba essere applicata una sanzione disciplinare (e, tra queste, il licenziamento) il principio della proporzionalità della sanzione all'infrazione commessa e quello della difesa. Ne consegue che sono nulle, per contrasto con norme imperative di legge, le clausole della contrattazione collettiva che prevedano l'applicazione automatica di una sanzione disciplinare conservativa o espulsiva che prescinda dalla valutazione della sua proporzionalità rispetto alla infrazione commessa dal lavoratore, sia sotto il profilo soggettivo, sia sotto quello oggettivo; la previsione da parte della contrattazione collettiva della recidiva in relazione a precedenti mancanze come ipotesi di licenziamento non esclude quindi il potere - dovere del giudice di valutare la gravità dell'addebito ai fini della proporzionalità della sanzione espulsiva. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, con motivazione adeguata circa la sussistenza dell'elemento oggettivo e di quello soggettivo della condotta contestata, aveva escluso la legittimità di un licenziamento intimato dal datore di lavoro ad un dipendente sulla base di una disposizione del contratto collettivo che prevedeva l'automaticità del licenziamento in relazione a pregresse sospensioni irrogate al lavoratore nei precedenti due mesi) (Cassazione civile, sez. lav., 27 settembre 2002, n. 14041). È legittima la sanzione della destituzione dal servizio irrogata, a seguito di procedimento disciplinare, nei confronti di un dipendente che si è ripetutamente rifiutato di sottoporsi ad accertamenti sanitari presso la competente Commissione medico ospedaliera, sempre che il provvedimento risulti consono con le risultanze dell'inchiesta disciplinare ed al riscontrato comportamento ingiustificatamente ostruzionistico reiteratamente posto in essere dal dipendente (Consiglio Stato, sez. IV, 03 maggio 2005, n. 2112).   Il comportamento del dipendente pubblico consistente nell'assenza sistematica dal luogo di lavoro senza autorizzazione del capo ufficio, ripetuta nell'arco di un breve periodo di tempo, costituisce una fattispecie di grave abuso di ufficio e difetto di senso morale, oltre che di scarso rendimento per incapacità di osservare gli obblighi di servizio, tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro e consequenzialmente da giustificare l'adozione da parte della p.a., datrice di lavoro, del provvedimento di licenziamento del dipendente a norma dell'art. 25 comma 6 lett. E/G del vigente contratto collettivo per i dipendenti degli enti locali (Consiglio Stato, sez. V, 30 ottobre 2003, n. 6746).   In tema di illeciti disciplinari e previa contestazione dei relativi addebiti, il grado di precisione della contestazione è funzionale all'esercizio in concreto del diritto di difesa, con la conseguenza che è necessaria la completa coincidenza fra il capo di incolpazione contenuto nella previa contestazione e quello posto a base della sanzione disciplinare. (Nella specie la S.C ha cassato la sentenza di merito che aveva respinto l'impugnativa di licenziamento giustificato in relazione al "modo di comportarsi e di gestire le relazioni umane" da parte del lavoratore, mentre la lettera di contestazioni si era riferita all'autoattribuzione di straordinario non svolto e all'essersi aggirato in locali dell'azienda estranei al posto di lavoro, malgrado ripetute diffide) (Cassazione civile, sez. lav., 19 agosto 2004, n. 16249).   Nell'assetto privatistico-contrattualistico del rapporto d'impiego dipendente da pubbliche amministrazioni, la natura dei termini contrattualmente previsti per lo svolgimento del procedimento disciplinare deve essere definita con riguardo allo scopo che essi perseguono nella prospettiva di un'inderogabile garanzia della sua legittimità con la conseguenza che il carattere della perentorietà non è generalmente rinvenibile in tutti i termini volti a cadenzarne l'andamento (quali quello per la segnalazione d'ufficio, per la contestazione degli addebiti e la relativa comunicazione all'interessato), ma deve essere riconosciuto solo quello stabilito per la sua conclusione. Tuttavia, la non perentorietà del termine di venti giorni tra conoscenza del fatto e contestazione dell'addebito non incide sulla necessaria immediatezza della contestazione rispetto al momento della conoscenza dei fatti da parte del datore di lavoro, sul quale grava l'onere di dimostrare la tempestività della contestazione e, eventualmente, l'esistenza di uno specifico impedimento a giustificazione del ritardo (Cassazione civile, sez. lav., 13 aprile 2005, n. 7601).   L'art. 103 t.u. imp. civ. St., che prevede che la contestazione degli addebiti avvenga "subito", deve essere interpretato nel senso che il legislatore non ha inteso vincolare l'amministrazione all'osservanza di un termine fisso, ma ha indicato una regola di ragionevole prontezza e tempestività nella contestazione, da valutarsi caso per caso in relazione alla gravità dei fatti ed alla complessità degli accertamenti preliminari, nonché allo svolgimento effettivo dell'iter procedurale e preordinata ad un equo contemperamento delle esigenze sia dell'amministrazione pubblica di procedere agli accertamenti preliminari dei fatti disciplinari con ponderata valutazione della gravità e complessità dei fatti medesimi, sia della parte privata, onde non siano rese più gravose le modalità della difesa a causa della eccessiva distanza di tempo dal verificarsi dei fatti oggetto di contestazione. Non si può legittimamente procedere alla contestazione di addebiti dopo lungo tempo dall'accertamento dei fatti, ove il ritardo non si fondi specificamente sulla particolarità della situazione accertata o sulla complessità delle acquisizioni istruttorie (Consiglio Stato, sez. IV, 05 agosto 2003, n. 4535).   Nel pubblico impiego, la sanzione disciplinare comminata dall'Amministrazione al pubblico dipendente deve essere correlata alle imputazioni formulate in sede di contestazioni degli addebiti, e non può fondarsi su fatti e circostanze non puntualmente e formalmente contestati (Consiglio Stato, sez. V, 14 febbraio 2003, n. 801).   Ai sensi dell'art. 59, d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29, è l'amministrazione, che ove ritenga di poter ridurre la sanzione disciplinare applicabile, deve, indipendentemente dalla non prevista richiesta del dipendente in tal senso, chiedere il suo consenso e può ridurla solo ove ottenga siffatto consenso, la cui necessità è giustificata dal fatto che, ove esso sia prestato, il dipendente è privato della possibilità di impugnare il provvedimento sanzionatorio (Consiglio Stato, sez. IV, 15 dicembre 2000, n. 6646).   Nell'assetto privatistico-contrattualistico del rapporto d'impiego dipendente da pubbliche amministrazioni, la natura dei termini contrattualmente previsti per lo svolgimento del procedimento disciplinare deve essere definita con riguardo allo scopo che essi perseguono nella prospettiva di un'inderogabile garanzia della sua legittimità con la conseguenza che il carattere della perentorietà non è generalmente rinvenibile in tutti i termini volti a cadenzarne l'andamento (quali quello per la segnalazione d'ufficio, per la contestazione degli addebiti e la relativa comunicazione all'interessato), ma deve essere riconosciuto solo quello stabilito per la sua conclusione. Tuttavia, la non perentorietà del termine di venti giorni tra conoscenza del fatto e contestazione dell'addebito non incide sulla necessaria immediatezza della contestazione rispetto al momento della conoscenza dei fatti da parte del datore di lavoro, sul quale grava l'onere di dimostrare la tempestività della contestazione e, eventualmente, l'esistenza di uno specifico impedimento a giustificazione del ritardo (Cassazione civile, sez. lav., 13 aprile 2005, n. 7601).   In tema di sanzioni disciplinari nei rapporti di lavoro pubblico privatizzato, i termini per segnalare il fatto illecito all'ufficio per i procedimenti disciplinari (ex art. 24, comma 4, c.c.n.l. comparto ministeri) e per contestare l'addebito (20 giorni, art. 24, comma 2, c.c.n.l. cit.) devono reputarsi ordinatori, e non perentori, sicché la loro inosservanza non comporta un vizio della sanzione finale, atteso che in un assetto disciplinare contrattualizzato gli effetti decadenziali non possono verificarsi in mancanza di una espressa previsione normativa o contrattuale che preveda detti effetti, e perché la natura contrattuale dei termini porta a valutare la loro osservanza come corretto adempimento di obblighi contrattuali, la cui mancanza è rilevante per gli effetti e nei limiti previsti dall'accordo delle parti e dai principi generali in materia di adempimento (Cassazione civile, sez. lav., 23 dicembre 2004, n. 23900).   In materia di procedimento disciplinare nei confronti dei dipendenti pubblici, la legge ha attribuito alla contrattazione collettiva sia la disciplina del procedimento che l'individuazione della tipologia delle condotte costituenti illecito e delle relative sanzioni. Poiché, dunque, - a far data dalla stipulazione del primo contratto collettivo (nella specie, c.c.n.l. 6 luglio 1995 per il personale degli enti locali), ed in virtù degli art. 72 e 74 d.lg. n. 29 del 1993 - non trovano applicazione gli articoli da 100 a 123 d.P.R. n. 3 del 1957 e le norme generali e speciali del pubblico impiego, il termine entro il quale dev'essere concluso il procedimento disciplinare non è quello di novanta giorni previsto dalla l. n. 19 del 1990, bensì quello fissato dal menzionato contratto collettivo nazionale di lavoro in centoventi giorni (fattispecie sottratta, "ratione temporis", all'applicazione della l. n. 97 del 2001) (Cassazione civile, sez. lav., 16 maggio 2003, n. 7704).   Nel termine perentorio di centoventi giorni dalla data della contestazione degli addebiti, previsto dal c.c.n.l. 4 agosto 1995 art. 58 commi 2 e 4, per il personale non docente della pubblica istruzione, il provvedimento disciplinare di destituzione dall'impiego deve essere adottato dall'organo competente e non anche comunicato all'interessato destinatario (Consiglio Stato, sez. VI, 04 novembre 1999, n. 1717).   In materia di licenziamento disciplinare, l'art. 59 d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29, prevede che la contestazione degli addebiti, assolvendo allo scopo di consentire al lavoratore una immediata ed efficace difesa, non deve avvenire con generica immediatezza rispetto all'infrazione commessa, come previsto dalla normativa previdente, ma fissa tempi precisi per l'accertamento delle eventuali responsabilità disciplinari del lavoratore da parte del datore di lavoro; pertanto, è illegittimo il licenziamento del lavoratore qualora il dirigente responsabile - nell'ipotesi che la sanzione da irrogare non rientri nella sua competenza - non comunichi entro dieci giorni all'ufficio competente e al lavoratore i fatti in contestazione (Consiglio Stato, sez. V, 13 ottobre 2004, n. 6640).   L'art. 9 l. n. 19 del 1990, nella parte in cui disciplina il termine entro il quale la p.a. deve avviare il procedimento disciplinare nei confronti del pubblico impiegato condannato in sede penale, va interpretato nel senso che il provvedimento finale sanzionatorio deve essere adottato in ogni caso entro 270 giorni da quello in cui la p.a. ha avuto notizia della condanna a carico del dipendente (Consiglio Stato a. plen., 14 gennaio 2004, n. 1).   In materia di provvedimenti disciplinari nei confronti di dipendenti del pubblico impiego privatizzato, ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento, ha il potere di individuare l'ufficio competente per i procedimenti disciplinari; pertanto l'amministrazione competente ben può omettere di prevedere il requisito della maggiore anzianità o qualifica per i componenti dell'ufficio procedimenti disciplinari, senza che abbia rilievo alcuno la circostanza che nel regime antefatto il funzionario istruttore dovesse essere scelto tra gli impiegati aventi qualifica superiore a quella dell'impiegato sottoposto al procedimento, atteso che nel nuovo sistema l'organo collegiale precostituito assicura maggiori garanzie rispetto al funzionario designato per ogni singolo procedimento disciplinare (Cassazione civile, sez. lav., 03 giugno 2004, n. 10600).   La mancata riproduzione, in seno al nuovo c.p.p., della disposizione di cui all'art. 3, dell'abrogato c.p.p., comporta il venir meno del principio della cosiddetta pregiudiziale penale, con la conseguenza che solo la sentenza penale irrevocabile di assoluzione (e non anche quella di condanna), pronunciata a seguito di dibattimento, ha efficacia di giudicato, ai sensi dell'art. 653 c.p.p., nel procedimento per responsabilità disciplinare. (Nella fattispecie, alla quale non è stato applicato il testo dell'art. 653 cit., come modificato dalla legge n. 97 del 2001, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato legittimo il licenziamento per aver il lavoratore commesso fatti costituenti reato, senza attendere la sentenza definitiva di condanna, ma traendo il proprio convincimento dalla istruttoria espletata dinanzi al giudice di primo grado e prendendo in considerazione l'avvenuto rinvio a giudizio solo per valutare la complessa vicenda emersa nella stessa istruttoria) (Cassazione civile, sez. lav., 08 agosto 2003, n. 12027).   Nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, l'arbitrato previsto in materia di sanzioni disciplinari dall'art. 59 bis, d.lg. 3 febbraio 1993 n. 20, introdotto dall'art. 28, d.lg. 31 marzo 1998 n. 80 (corrispondente all'art. 56, d.lg. 30 marzo 2001 n. 165), operante a far data dalla stipulazione del primo contratto collettivo di settore, ha natura irrituale ed il lodo è impugnabile ai sensi dell'art. 412 quater, c.p.c., innanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro; diversamente, invece, l'arbitrato previsto dall'art. 59, commi 7 e 8, d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29, come sostituito dall'art. 27, d.lg. 23 dicembre 1993 n. 546, aveva natura rituale ed il lodo era impugnabile, ai sensi dell'art. 828 c.p.c., innanzi al tribunale quale giudice d'appello per le controversie di lavoro e, dopo l'istituzione dell'ufficio del giudice unico di primo grado, innanzi alla Corte d'appello (Cassazione civile, sez. lav., 07 gennaio 2003, n. 44).   In caso di scelta iniziale del lavoratore di avvalersi del collegio arbitrale alla stregua del disposto dell'art. 7 comma 6 l. n. 300 del 1970, o dell'art. 5 l. n. 533 del 1973, ovvero dell'art. 59 commi 7 e 8 d.lg. n. 29 del 1993, l'azione rivolta all'accertamento della nullità del licenziamento è esperibile davanti al giudice del lavoro nei limiti ordinari della prescrizione, sempre che il giudizio arbitrale non abbia avuto inizio (ipotesi questa che si verifica nel momento in cui tutti gli arbitri hanno accettato l'incarico), dovendo l'alternativa tra procedura arbitrale e giudizio ordinario valere sino a quando non sia iniziata la procedura arbitrale e non potendo, conseguentemente, il lavoratore richiamarsi, per impugnare il licenziamento, a detta alternatività quando la procedura arbitrale si sia conclusa con il deposito del lodo, che ha riconosciuto la piena legittimità dell'intimato recesso (Cassazione civile, sez. lav., 26 luglio 2002, n. 11106).   Il dipendente di una p.a. che abbia proposto ricorso al collegio arbitrale di disciplina, previsto dall'art. 59 d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29, contro un provvedimento disciplinare, può proporre ricorso giurisdizionale contro il silenzio rigetto (e contro il provvedimento disciplinare) entro l'ordinario termine di impugnazione decorrente dal novantesimo giorno dalla proposizione del ricorso al collegio arbitrale, dovendosi applicare, in mancanza di specifiche norme di coordinamento tra il ricorso al collegio arbitrale e l'impugnazione al giudice amministrativo, le regole sui ricorsi amministrativi previste dal d.P.R. 24 dicembre 1971 n. 1199 (Consiglio Stato, sez. V, 20 gennaio 2004, n. 149).   La sospensione cautelare dal servizio del lavoratore sottoposto a procedimento disciplinare o penale legittima anche la sospensione della prestazione retributiva se ciò sia previsto dalla disciplina collettiva; mentre la conclusione di detto procedimento in senso favorevole al lavoratore implica che il rapporto riprende il suo corso dal momento in cui è stato sospeso, con obbligo per il datore di lavoro di corrispondere al dipendente le retribuzioni arretrate, nell'ipotesi di esito sfavorevole con adozione della sanzione del licenziamento, la sospensione si tramuta ad ogni effetto in definitiva interruzione del rapporto che legittima il recesso del datore di lavoro retroattivamente, con perdita ex tunc del diritto alle retribuzioni, non configurandosi quindi alcun limite alla durata della privazione della retribuzione con decorrenza dal momento della sospensione (Cassazione civile, sez. lav., 22 marzo 1996, n. 2517).   Il trasferimento del lavoratore, che segue l'irrogazione di una sanzione disciplinare, non assume, per effetto di questo solo rapporto cronologico, esso stesso valore sanzionatorio, ben potendo un fatto disciplinarmente rilevante costituire altresì una delle ragioni tecniche, organizzative o produttive, previste dall'art. 2103 c.c., ai fini della legittimità del trasferimento, come nel caso in cui, con congruo apprezzamento delle specifiche circostanze, il pregresso illecito disciplinare si palesi tale da suggerire, per il lavoratore che se ne è reso autore, un immediato mutamento di sede, al fine di evitare contatti presuntivamente pregiudizievoli con i colleghi di lavoro, con incidenza negativa sul rendimento dei singoli e quindi sulla produttività dell'impresa (Cassazione civile , sez. lav., 01 settembre 2003, n. 12735).