Oggi ci occupiamo di tutti quei casi in cui il danno cagionato ad un soggetto in conseguenza di un fatto illecito, quale ad es. un sinistro stradale o un errore medico, generi un diritto al risarcimento del danno, oltre che del danneggiato, anche dei familiari.
Il fatto illecito o l’inadempimento che cagioni la morte di una persona o ne menomi l’integrità psicofisica non lede necessariamente i soli interessi della vittima principale, potendo ripercuotersi sulla sfera personale e patrimoniale di altri soggetti ad essa legati da un rapporto giuridicamente rilevante, il quale può coincidere con un vincolo parentale, con una relazione affettiva o, più semplicemente, con un rapporto obbligatorio (c.d. vittima secondaria). I soggetti maggiormente esposti alle conseguenze pregiudizievoli della lesione subita dalla vittima diretta, vanno, di norma, identificati con i componenti del suo nucleo familiare ovvero con le persone alla stessa legate da un vincolo affettivo qualificato, i quali, oltre alla riduzione o cessazione delle elargizioni economiche eventualmente ricevute dal congiunto anteriormente al sinistro, possono subire uno sconvolgimento della propria esistenza, generato dal fatto di non poter continuare a vivere il rapporto che intercorreva con la vittima, e sofferenze morali, talora di intensità tale da evolvere in vere e proprie patologie e, quindi, in un danno all’integrità psicofisica (Cass. S.U. 9556/2002; Cass. 20667/2010; Cass. 13179/2011; Cass. 22909/2012; Cass. 758/2016; Tribunale di Monza 22/01/2013 n° 341).
Quindi, il danno riflesso o da rimbalzo consiste in quel nocumento che viene arrecato ad un terzo, ritenuto la vittima secondaria del fatto illecito, rispetto al soggetto danneggiato ma pur sempre destinatario delle conseguenze pregiudizievoli subite da quest’ultimo per effetto della condotta illecita altrui. In sostanza, il danno riflesso, pur trovando la sua origine in un evento che colpisce la vittima principale, si produce nella sfera giuridica delle cosiddette vittime secondarie o di rimbalzo, le quali acquisiscono il diritto al risarcimento del relativo pregiudizio iure proprio. E ciò sia con riferimento ai danni non patrimoniali (biologico, morale, esistenziale), sia a quelli patrimoniali, derivati ad es. dal venir meno dell’apporto dell’attività lavorativa del soggetto leso.
E’ appena il caso di rilevare, a tale riguardo, che la mera titolarità di un rapporto familiare non determina automaticamente il diritto al risarcimento danni, essendo necessario, di volta in volta, verificare in che cosa il legame affettivo sia consistito ed in che misura la lesione, subita dalla vittima primaria, abbia inciso sulla relazione fino a comprometterne lo svolgimento.
Al riguardo la Cassazione a Sezioni Unite nella sentenza 9556/2002 (nonché da Cass. 19/01/2007 n. 1203, da Cass. 14/06/2016 n.12146), ricorda come la convivenza sia un elemento estrinseco, transitorio e del tutto casuale, poco significativo per connotare veramente una lesione del rapporto parentale,  potendo fondarsi  non tanto su vincoli affettivi quanto piuttosto essere determinata da motivi di convenienza e di opportunità mentre, viceversa, possono sussistere rapporti che, indipendentemente dalla coabitazione, sono caratterizzati da vincoli affettivi particolarmente intensi e  di vera vicinanza psicologica.
In buona sostanza, l’indagine cui il Giudice è chiamato a compiere, ai fini dell’accertamento del danno da lesione del rapporto parentale, non potrebbe essere limitata al riscontro della esistenza della convivenza, tra il congiunto non ricompreso nella c.d famiglia nucleare e la vittima, ma necessariamente deve riguardare il concreto atteggiarsi di quel rapporto affettivo che lega i due soggetti, tale da aver determinato nella vittima secondaria un effettivo pregiudizio non patrimoniale.
La risarcibilità di tale tipo di danno, è stata resa possibile attraverso una ricostruzione avanzata della teoria della causalità adeguata che ha condotto ad una interpretazione estensiva dell’art. 1223 CC, risultando configurabile il nesso eziologico tra condotta ed evento anche rispetto a quegli accadimenti che in astratto sono prevedibili, ossia normale conseguenza della condotta illecita. Come nel caso, per l’appunto, dei familiari della vittima (o del convivente more uxorio) che, a seguito dell’evento illecito, subiscono una compromissione dei propri diritti in termini di peggioramento della qualità della propria vita e di sofferenza morale e finanche sotto il profilo della integrità psico-fisica (Cass. n. 11212 del 2019; Cass. n. 7748 del 2020).
Per quel che riguarda la prova del danno subito dai parenti, nel caso dei familiari più stretti (coniuge, genitore, figli, fratelli) il giudice può procedere per presunzioni, essendo palese la ripercussione del danno sugli stessi. Tuttavia, alcuni giudici di merito seguono un diverso orientamento (recente sent. Trib. Roma n. 18155/2023), in base al quale le vittime secondarie soggiacciono al regime probatorio della responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., ed in virtù del quale dunque, l’intero onere probatorio ricade sugli stessi. A prescindere dall’orientamento seguito, occorrerà in ogni caso provare le circostanze che permettano al giudice di quantificare il danno da perdita parentale.
Qualora, nei casi più gravi, la vittima diretta dell’evento lesivo perda la vita, gli eredi, avranno diritto oltre al risarcimento del danno appena visto, c.d. iure proprio, anche al risarcimento del danno iure hereditatis. Mentre il primo riguarda il danno subito dai parenti come vittime indirette del danno, quello iure hereditatis riguarda il danno subito dalla vittima principale e trasmesso agli eredi; dunque il risarcimento che spetterebbe al defunto e che passa in capo agli eredi.
Costituiscono diritti acquisibili iure hereditatis, i diritti risarcitori derivanti dalla dimostrazione dell’esistenza di un danno biologico terminale e/o morale catastrofale (anche detto “da lucida agonia”). Le due tipologie di danno non presentano alcuna disposizione codicistica, ma sono frutto di una complessa elaborazione giurisprudenziale.
Per danno biologico terminale si intende quel danno di natura biologica cagionato alla vittima a seguito della lesione del diritto costituzionale all’integrità psico-fisica; si richiede, infatti, che sia riscontrata una patologia medicalmente accertabile che progressivamente peggiori fino a cagionare la morte del soggetto. A tale requisito si aggiunge il “fattore tempo”; la giurisprudenza, infatti, richiede che la vittima sopravviva temporaneamente alla malattia.
Il danno morale catastrofale è, invece quel danno morale che consistente nella sofferenza patita dalla vittima che lucidamente e coscientemente assiste allo spegnersi della propria vita. L’accertamento di tale danno, dunque, richiede la dimostrazione dell’esistenza di un lasso di tempo, anche minimo e non necessariamente apprezzabile (come, invece, richiesto per il danno biologico terminale), in cui la vittima abbia potuto avvedersi e comprendere di essere in procinto di morire. L’elemento caratterizzante di tale danno – che permette di distinguerlo dal danno terminale – è l’accertamento di un turbamento psichico dotato di particolare intensità, ma la prova da fornire al giudicante è alquanto complessa in quanto deve essere dimostrata la presa di coscienza della vittima: l’agonia dev’essere stata lucida.
A cura dell’Avv. Vanessa Bellucci
Studio Legale FBO
06.56547339 – vanessabellucci@fbostudiolegale.it