DIRITTO DI CITTADINANZA
 
 
In termini giuridici la cittadinanza è la condizione della persona fisica (detta cittadino) alla quale l'ordinamento giuridico di uno stato riconosce la pienezza dei diritti civili e politici. La cittadinanza, quindi, può essere vista come uno status del cittadino ma anche come un rapporto giuridico tra cittadino e stato. Le persone che non hanno la cittadinanza di uno stato sono stranieri se hanno quella di un altro stato, apolidi se, invece, non hanno alcuna cittadinanza.
Un rapporto analogo a quello tra persona fisica e stato può sussistere anche tra persona giuridica e stato; in tal caso, però, non si parla di cittadinanza ma di nazionalità. Riferito alle persone fisiche, questo stesso termine, anche se talvolta è usato impropriamente come sinonimo di cittadinanza, indica invece l'appartenenza ad una nazione, condizione questa che in alcuni ordinamenti può avere rilevanza giuridica a prescindere dalla cittadinanza.
L'insieme dei cittadini di uno stato costituisce il suo popolo. È detto invece popolazione l'insieme delle persone che risiedono sul territorio di uno stato (i suoi abitanti), a prescindere dal fatto che siano suoi cittadini. La popolazione, dunque, differisce dal popolo in quanto, da un lato, comprende anche gli stranieri e gli apolidi che risiedono sul territorio dello stato mentre, dall'altro, non comprende i cittadini residenti all'estero. La divergenza tra popolo e popolazione è accentuata negli stati interessati da un forte flusso migratorio, in entrata o in uscita.
In senso sociologico, la cittadinanza assume una valenza più ampia, e si riferisce al senso di identità e di appartenenza degli individui ad una determinata comunità politica.
 
Cittadino e suddito 
Il concetto di cittadino differisce da quello di suddito che si riferisce a colui che è soggetto alla sovranità di uno stato; la condizione del suddito implica, di per sé, situazioni giuridiche puramente passive (doveri e soggezioni), mentre quella del cittadino implica la titolarità di diritti e altre situazioni giuridiche attive (seppur accompagnati da doveri e altre situazioni giuridiche passive).
Nel momento in cui lo stato riconosce al suddito diritti civili e politici, questo diventa un cittadino. Anche in uno stato che riconosce tali diritti possono tuttavia esserci semplici sudditi, soggetti alla sovranità dello stato ma privi dei diritti di cittadinanza: questo avveniva, ad esempio, per le popolazione indigene dei possedimenti di tipo coloniale, anche se, in qualche caso, venivano loro attribuiti alcuni diritti seppur limitati rispetto a quelli riconosciuti ai cittadini veri e propri (la cosiddetta piccola cittadinanza).
Attualmente il termine suddito è ancora largamente utilizzato nel diritto internazionale dove la cittadinanza non ha lo stesso rilievo dei diritti interni. Viene inoltre usato polemicamente per sottolineare situazioni, per lo più di fatto, nelle quali il cittadino non dispone di adeguati diritti nei confronti dello stato. Infine va osservato che nelle monarchie, anche costituzionali e parlamentari, è tradizione riferirsi ai cittadini come sudditi senza per questo implicare l'assenza di diritti civili e politici.
 
 Storia e impiego del termine 
In antichità il termine cittadinanza indicava un tratto giuridicamente rilevante del soggetto: lo status civitatis. Nel 1950, il sociologo inglese Thomas Marshall usava il termine in un'analisi sulla disuguaglianza di classe e sosteneva che divenire eguali significa divenire cittadini.
Nel corso della storia il termine cittadinanza ha trovato diversi impieghi:
indicatore del modo in cui sono ripartiti i poteri e le risorse nell'ambito di un ordinamento politico-sociale;
rapporto tra individuo e ordine politico, inteso come partecipazione attiva del soggetto alla sfera pubblica;
intersezione tra individuo e collettività.
Nel suo significato attuale, la cittadinanza è il collettore di una molteplicità di diritti e doveri riferibili ad un individuo in quanto parte di un determinato assetto politico.
 
 Acquisto e perdita della cittadinanza 
Ogni ordinamento stabilisce le regole per l'acquisto e la perdita della cittadinanza. In molti stati i princìpi al riguardo sono stabiliti a livello costituzionale, in altri invece, tra i quali l'Italia, la disciplina è interamente demandata alla legge ordinaria.
La cittadinanza si può acquisire:
  • secondo lo ius sanguinis (diritto di sangue), per il fatto della nascita da un genitore in possesso della cittadinanza (per alcuni ordinamenti deve trattarsi del padre, salvo sia sconosciuto) Il diritto alla cittadinanza per ius sanguinis non si prescrive, ma per poterlo esercitare occorrono che si verifichi una delle seguenti condizioni:
  • ogni genitore deve essere stato cittadino italiano alla nascita del figlio;
  • l'antenato italiano nato prima del 17 marzo 1861 (proclamazione del Regno d'Italia) deve essere morto dopo tale data ed essere morto in possesso della cittadinanza italiana;
  • l'antenato donna trasmette il diritto alla cittadinanza ai discendenti nati primo il 1º gennaio 1948 (entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana) solo in ipotesi residua secondo l'articolo 1 comma 2, Legge 13 giugno 1912, n. 555, se il padre era ignoto, se il padre era apolide, se i figli non seguivano la cittadinanza del padre straniero secondo la legge dello Stato al quale questo apparteneva, ossia se il paese imponeva o concedeva la cittadinanza estera solo per ius soli e non per ius sanguinis.
  • secondo lo ius soli (diritto del suolo), per il fatto di essere nato sul territorio dello stato;
  • per matrimonio con un cittadino italiano, dopo due anni di residenza legale in Italia o dopo tre anni di matrimonio se residenti all'estero (termini ridotti della metà in presenza di figli nati o adottati dai coniugi), a condizione di assenza di precedenti penali. Le cittadine straniere che hanno contratto matrimonio con un cittadino italiano prima del 27 aprile 1983 acquisivano automaticamente la cittadinanza italiana.
  • per naturalizzazione, a seguito di un provvedimento della pubblica autorità, subordinatamente alla sussistenza di determinate condizioni (come, per esempio, potrebbero essere la residenza per un lungo periodo di tempo sul territorio nazionale, l'assenza di precedenti penali, la rinuncia alla cittadinanza d'origine ecc.) o per meriti particolari. In molti ordinamenti, a sottolinearne la solennità, il provvedimento di concessione della cittadinanza è adottato, almeno formalmente, dal capo dello stato.
La scelta fondamentale che si trovano a fare gli ordinamenti è quella tra ius sanguinis e ius soli, avendo gli altri due istituti una funzione puramente integrativa. Lo ius sanguinis (o modello tedesco) presuppone una concezione "oggettiva" della cittadinanza, basata sul sangue, sull'etnia, sulla lingua (Johann Gottlieb Fichte). Lo ius soli (o modello francese) presuppone, invece, una concezione "soggettiva" della cittadinanza, come "plebiscito quotidiano" (Ernest Renan). Attualmente la maggior parte degli stati europei adotta lo ius sanguinis, con la rilevante eccezione della Francia, dove vige lo ius soli fin dal 1515.
L'adozione dell'una piuttosto che dell'altra opzione ha rilevanti conseguenze negli stati interessati da forti movimenti migratori. Infatti, lo ius soli determina l'allargamento della cittadinanza ai figli degli immigrati nati sul territorio dello stato: ciò spiega perché sia stato adottato da paesi (Stati Uniti, Argentina, Brasile, Canada ecc.) con una forte immigrazione e, al contempo, un territorio in grado di ospitare una popolazione maggiore di quella residente. Al contrario, lo ius sanguinis tutela i diritti dei discendenti degli emigrati, ed è dunque spesso adottato dai paesi interessati da una forte emigrazione, anche storica (diaspora: Armenia, Irlanda, Italia, Israele), o da ridelimitazioni dei confini (Bulgaria, Croazia, Finlandia, Germania, Grecia, Italia, Polonia, Serbia, Turchia, Ucraina, Ungheria).
Può accadere che una persona acquisti la cittadinanza dello stato di origine dei genitori, dove vige lo ius sanguinis, e nel contempo quello dello stato sul cui territorio è nata, dove invece vige lo ius soli. Queste situazioni di doppia cittadinanza possono causare inconvenienti (si pensi al caso di chi è obbligato a prestare servizio militare in entrambi gli stati di cui è cittadino), sicché gli stati tendono ad adottare norme per prevenirla, anche sulla base di trattati internazionali.
La perdita della cittadinanza può essere prevista a seguito di rinuncia, di acquisto della cittadinanza di altro stato o di privazione per atto della pubblica autorità in conseguenza di gravissime violazioni.
La cittadinanza si può acquistare o perdere anche a seguito di trattati internazionali che trasferiscono una parte del territorio e la popolazione ivi residente da uno stato all'altro.
 
Le tappe storiche della legislazione sulla cittadinanza italiana 
 Lo Statuto Albertino del 1848 
 
Lo Statuto Albertino emanato per il Regno di Sardegna del 1848 fu la prima norma fondamentale allo Stato Italiano formatosi nel 1861. Non una vera e propria Costituzione, ma principalmente un'elencazione di principi fondamentali su cui si fondava l'ordinamento monarchico. L'art. 24 dice:
 « Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi. »
 Questa lodata eguaglianza davanti alla legge era riferita, però, soltanto agli uomini, giacché le donne erano subordinate all'autorità del pater familias, fatto molto rilevante per la cittadinanza, giacché la soggezione della donna e anche dei suoi figli al marito faceva sì che qualsiasi episodio riguardante la cittadinanza del marito si riversasse su tutta la famiglia. Così accadeva anche per la perdita o il riacquisto della cittadinanza, per esempio per la naturalizzazione in un altro paese.
 
 La legge n° 555 del 13 giugno 1912 
Nonostante lo Statuto Albertino non facesse nessun riferimento né all'uguaglianza, né alla differenza tra i sessi, l'idea della soggezione della moglie al marito, idea con antecedenti millenari, era presente nella norma fondamentale (nell'idea del legislatore) e sono moltissimi gli esempi nel diritto positivo, come l'art. 144 del Codice Civile del 1939 e, precisamente, la Legge del 13 giugno del 1912, n° 555, "Sulla cittadinanza italiana". La Legge 555 esprimeva il primato del marito nel matrimonio e la soggezione della moglie e dei figli alle vicissitudini che all'uomo potevano accadere in relazione alla cittadinanza. Stabiliva:
1.Lo ius sanguinis era, come nell'attuale regime, il principio reggente, essendo lo ius soli una ipotesi residua.
2.I figli seguivano la cittadinanza del padre e solo in forma residua della madre.* la madre trasmetteva il diritto alla cittadinanza ai discendenti nati primo il 1º gennaio 1948 (entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana) solo in ipotesi residua, articolo 1 comma 2, Legge 13 giugno 1912, n. 555, nelle seguenti condizioni: se il padre era ignoto, se il padre era apolide, se i figli non seguivano la cittadinanza del padre straniero secondo la legge dello Stato al quale questo apparteneva, ossia se il paese estero del padre imponeva, o concedeva, la cittadinanza estera solo per jure soli e non per jure sanguinis. In questo ultimo caso, il Ministero dell'Interno ritiene che se il figlio riceve la cittadinanza "jus soli" del paese dove è nato, no segue la cittadinanza materna, come nel caso che riceva la del padre "jure sanguinis".
3.La donna perdeva l'originaria cittadinanza italiana in caso di matrimonio con uno straniero la cui legge nazionale le trasmettesse la cittadinanza del marito, come effetto diretto e immediato del matrimonio. (questa è una situazione tutta di rivedere già che l'articolo 10, perdita della cittadinanza in maniera automatica per iure matrimoni, della Legge 13 giugno 1912, n. 555, è contrapposto all'articolo 8 comma 2, di carattere universale, che non acconsente l'automaticità della perdita della cittadinanza per naturalizzazione estera.
 
 La Costituzione Repubblicana del 1948 
La Costituzione Repubblicana entrò in vigore il 1º gennaio del 1948. Con il Patto di Salerno dell'aprile del 1944, stipulato tra il Comitato di Liberazione Nazionale e la Monarchia, si decise di sospendere l'elezione tra monarchia e la repubblica sino alla fine della guerra. La Costituzione del Regno d'Italia, del 1848, era ancora formalmente in vigore, dal momento che le leggi che l'avevano limitata erano state, in certa misura, abrogate a partire dal 25 luglio del 1943 (giorno della caduta del regime fascista). Il 2 giugno del 1946 si celebrarono le elezioni. Tutti gli italiani, uomini e donne che avessero compiuto i 21 anni di età, vennero chiamati al voto ai quali furono consegnate due schede: una per il cosiddetto Referendum Istituzionale la scelta tra monarchia e repubblica, l'altra per l'elezione dei 556 deputati dell'Assemblea Costituente.
L'attuale Costituzione Italiana fu approvata dall'Assemblea Costituente nella sessione del 22 dicembre 1947, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale il 27 dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1º gennaio del 1948. Il testo originale subi delle modifiche parlamentari.
Venne stabilita una Repubblica Democratica, fondata sul lavoro e la sovranità del popolo, e furono riconosciuti i diritti individuali, come quello del corpo sociale, sulla base del compimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (Artt. 1 e 2).
Gli articoli fondamentali per gli argomenti che, più avanti, verranno sviluppati in relazione alla cittadinanza, sono i seguenti:
L'articolo 3, situato tra i "Principi fondamentali", contiene due incisi.
Il primo inciso stabilisce la uguaglianza di tutti i cittadini: "Tutti i cittadini hanno uguale dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinione politica, condizione personale e sociale".
Il secondo inciso, integrativo del primo, e non meno importante, aggiunge: " È dovere della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscano il pieno sviluppo de la persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".
L'art. 29, situato nel Titolo II, "Relazioni Etico-Sociali", che stabilisce: "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio". Il secondo inciso stabilisce l'uguaglianza tra i coniugi: "Il matrimonio è fondato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia della unità familiare".
Altro articolo di fondamentale importanza è il 136, situato nel Titolo VI, "Garanzie Costituzionali", Sezione I, "La Corte Costituzionale", e il suo testo è il seguente: "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto con potere di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno seguente alla pubblicazione della decisione". Inoltre in relazione a questo articolo, sempre in riferimento al tema della cittadinanza, è molto importante il secondo inciso: "La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere e alle Assemblee regionali interessate, al fine, qualora lo ritengano necessario, di verificarne la forma costituzionale"
 
 Le sentenze della Corte Costituzionale e le leggi promulgate di conseguenza 
 La sentenza n° 87 del 1975 
La Costituzione Repubblicana rimase inattuata dal giorno della sua entrata in vigore in materia di cittadinanza per via materna fino all'anno 1983. Nonostante l'eguaglianza determinata dagli art. 3 e 29 della Costituzione, non fu emessa dal Parlamento nessuna legge che modificasse la mancanza di una norma di diritto positivo che permettesse che il figlio di cittadinanza italiana, e padre straniero, fosse cittadino italiano iure sanguinis.
La sentenza del 9 aprile 1975, n° 87, della Corte Costituzionale, dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 10, terzo inciso, della legge del 13 giugno 1912, n° 555 ("Disposizioni sulla cittadinanza italiana"), nella parte che prevedeva la perdita di cittadinanza italiana indipendentemente dalla volontà della donna.
Fra i punti fondamenti della sentenza, si segnala che l'art. 10 si ispira alla concezione molto diffusa nel 1912 di considerare la donna giuridicamente inferiore all'uomo e come persona che non ha piena capacità giuridica (a quel tempo non si riconoscevano alle donne diritti politici attivi o passivi), concezione che non rappresenta, ed anzi contrasta con i principi della Costituzione. Si aggiunge che senza dubbio la norma contestata, stabilendo in esclusiva relazione dalla donna la perdita della cittadinanza italiana, crea una disparità di trattamento ingiustificata ed irrazionale fra i coniugi, soprattutto quando non è richiesta la volontà dell'interessata o addirittura contro la volontà di questa. Inoltre si produce una disparità di trattamento ingiustificata fra le stesse donne italiane che si sposano con uno straniero, facendo dipendere da esse la perdita automatica o la conservazione della cittadinanza dall'esistenza o meno di una norma straniera, cioè da una circostanza estranea dalla sua volontà.
 
 La legge N. 151 del 1975 
Per effetto di tale dichiarazione d'incostituzionalità, nell'ambito della riforma del diritto di famiglia del 1975, fu introdotto l'art. 219 della Legge 151/1975 che consentiva alle donne il “riacquisto” (rectius, riconoscimento) della cittadinanza:
 « Articolo 219 Legge 151/1975 - La donna che, per effetto di matrimonio con straniero o di mutamento di cittadinanza per parte del marito, ha perso la cittadinanza italiana prima dell'entrata in vigore della presente legge, la riacquista con dichiarazione effettuata all'autorità competente per l'art. 36 delle disposizioni di attuazione del codice civile. Resta abrogata tutta norma della legge del 13 giugno 1912, n. 555, che sia incompatibile con le disposizioni della presente legge. »
  Il termine “riacquisto” appare improprio in quanto con le decisione della Corte Costituzionale è stato pronunciato che la cittadinanza non è stata mai perduta dalle donne interessate, ne era stata mai una volontà della donna in tal senso, e pertanto sembra come più adeguato alla dottrina e alla giurisprudenza il termine “riconoscimento”.
 
 La sentenza Nº 30 del 1983 
La sentenza n. 30 fu pronunciata il 28 gennaio 1983, depositata in cancelleria il 9 febbraio 1983, e pubblicata nella "Gazzetta Ufficiale" N. 46 del 16 febbraio 1983. Si era proposta questione d'illegittimità costituzionale dell'art. 1, n. 1, della legge 555 del 1912, "nella parte in cui non prevede che il figlio di moglie cittadina italiana, che abbia conservato la cittadinanza pur dopo del matrimonio con lo straniero, abbia la cittadinanza italiana". La sentenza determinò: “L'art. 1, n. 1, della legge n. 555 del 1912 è in chiaro contrasto con l'art. 3, comma 1, (eguaglianza davanti la legge, senza distinzione di sesso, ecc. ) e con l'art. 29, comma 0002 (eguaglianza morale e giuridica dei coniugi)”. La Corte Costituzionale non soltanto ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge del 13 giugno 1912, n. 555, nella parte nella quale non prevede che sia cittadino per nascita anche il figlio di madre cittadina; ma pure dell'art. 2, comma 2, della stessa legge, in quanto permette l'acquisizione della cittadinanza materna da parte del figlio soltanto a ipotesi di carattere residuale, giacché in avanti potrà acquisire la cittadinanza in qualsiasi circostanza.
 
 
 
 Il Parere n. 105 del anno 1983 del Consiglio di Stato
Il parere reso dal Consiglio di Stato, Sezione V, in sede consultiva, n. 105 del 15 aprile 1983 risolve che per forza della Sentenza n. 30 del 1983 della Corte Costituzionale potevano considerarsi cittadini italiani soltanto gli individui nati da madre cittadina a far data dal 1º gennaio del 1948, sul presupposto che la efficacia della sentenza della Consulta non poteva azionare retroattivamente oltre il momento in cui si produce il contrasto tra la legge anteriore e la nuova Costituzione, e per questo prima della data di entrata in vigore della Costituzione Repubblicana, cioè il 1º gennaio 1948.
 
 La Legge Nº 123 del 1983 
Sei giorni dopo, il 21 aprile 1983, fu sancito dalla Legge N. 123 che è cittadino per nascita il figlio minore, anche adottivo, di padre o di madre cittadini. Nel caso di doppia cittadinanza il figlio doveva optare per una sola cittadinanza entro un anno dal raggiungimento della maggiore età (art. 5). Come si osserva la legge estendeva la cittadinanza ai figli di cittadina che fossero minori al momento della sua entrata in vigore, anche nel caso che fossero adottivi. La stessa legge abrogava la precedente norma che prescriveva l'acquisizione automatica della cittadinanza italiana "jure matrimonii" per le straniere che contraevano matrimonio con un cittadino italiano. Pertanto dalla data di entrata in vigore (27 aprile) veniva sancita l'uguaglianza dei coniugi stranieri innanzi alla legge italiana, e ribadito il principio cardine dell'acquisizione della cittadinanza mediante espressione di una volontà in tal senso.
 
 L'attuale legislazione sulla cittadinanza italiana 
 Legge N. 91 del 1992 
La Legge n. 91 approvata il giorno 5 febbraio 1992, stabilisce che è cittadino per nascita:
a) Il figlio di padre o di madre cittadini;
b) chi è nato nel territorio della Repubblica se ambo i genitori sono ignoti o apolidi, o se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori, secondo la legge dello Stato di questi (art. 1, comma 1).
Per il comma 2º, è cittadino per nascita il figlio d'ignoti trovato in Italia, se non si prova il possesso di un'altra cittadinanza. È importante l'art. 3, che riproduce, parzialmente, il testo dell'art. 5 de la legge n. 123 del 1983, in quanto considera cittadino il figlio adottivo, anche straniero, di cittadino o cittadina italiani, anche se nato prima della sanzione della legge. Cioè ha stabilito, espressamente, la retroattività per questa situazione.
Ciononostante la legge esclude la retroattività nell'art. 20, disponendo che "... salvo che sia espressamente previsto, lo stato di cittadinanza acquisito anteriormente alla presente legge non si modifica se non per fatti posteriori alla data di entrata in vigore della stessa".
Questa disposizione, ed il Parere n. 105 del 15 aprile 1983, hanno prodotto che i figli di cittadina italiana, e padre straniero, nato prima del 1º gennaio 1948 (data di entrata in vigore della Costituzione Repubblicana) rimangano assoggettati alla antica Legge n. 555 del 13 giugno 1912, nonostante la dichiarazione d'illegittimità costituzionale della Sentenza n. 30 del 1983, della Corte Costituzionale.
Inoltre la Legge 91/1992 ammette in ogni caso il possesso della cittadinanza multipla, già ostacolata dall'art. 5 della Legge 123/1983.
Leggi successive al 1992 hanno modificato l'accesso alla cittadinanza estendendolo ad alcune categorie di cittadini che, per ragioni storiche e collegate agli eventi bellici, ne erano rimaste escluse.
Queste leggi più recenti sono:
1) la legge 14-12-2000 n. 379 "Disposizioni per il riconoscimento della cittadinanza italiana alle persone nate e già residenti nei territori appartenuti all'Impero austro-ungarico e ai loro discendenti". (Pubblicata nella Gazz. Uff. 19 dicembre 2000, n. 295)
2) la legge 8 marzo 2006, n. 124 "Modifiche alla L. 5 febbraio 1992, n. 91, concernenti il riconoscimento della cittadinanza italiana ai connazionali dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia e ai loro discendenti". Pubblicata nella Gazz. Uff. 28 marzo 2006, n. 73.
In tempi più recenti si è discusso su una riforma della legge sulla cittadinanza in senso più favorevole per gli immigrati extracomunitari, che attualmente possono richiederla solo dopo aver trascorso 10 anni nel territorio della Repubblica.
Restano tuttavia irrisolti molti aspetti, quali quelli del riconoscimento dello status di cittadino per i discendenti da donna italiana che prima del 1948 aveva sposato un cittadino straniero ed a causa del matrimonio aveva perduto la cittadinanza italiana. Questi casi hanno creato un doppio regime per il riacquisto del nostro status civitatis: mentre i discendenti per linea paterna non hanno ostacoli al riconoscimento del loro status di cittadini, anche se l'antenato era emigrato nel 1860, i discendenti da donna italiana, anche nella stessa famiglia, vedono ancora oggi invece precluso il riacquisto della cittadinanza italiana, potendo solamente rivolgersi al giudice italiano.
 
 
 Contenuto della cittadinanza 
Come si è detto, il concetto di cittadinanza si ricollega alla titolarità di determinati diritti, detti appunto diritti di cittadinanza, enunciati nelle costituzioni e nelle dichiarazioni dei diritti. Nell'ambito dei diritti di cittadinanza si distinguono:
  • i diritti civili, cui corrispondono obblighi di non fare da parte dello stato e, in generale, dei pubblici poteri e che rappresentano, quindi, una limitazione del loro potere; comprendono la libertà personale, di movimento, di associazione, di riunione, di coscienza e di religione, l'uguaglianza di fronte alla legge, il diritto alla presunzione d'innocenza e altri diritti limitativi delle potestà punitive dello stato, il diritto a non essere privati arbitrariamente della proprietà, il diritto alla cittadinanza e così via;
  • i diritti politici, relativi alla partecipazione dei cittadini al governo dello stato (inteso in senso lato, comprensivo anche, ad esempio, degli enti territoriali), sia direttamente (attraverso istituti quali il referendum, la petizione ecc.) sia indirettamente, eleggendo i propri rappresentanti (elettorato attivo) e candidandosi alle relative elezioni (elettorato passivo);
  • i diritti sociali, cui corrispondono obblighi di fare, di erogare prestazioni, da parte dello stato e dei pubblici poteri; comprendono i diritti alla protezione sociale contro la malattia, la vecchiaia, la disoccupazione ecc., il diritto alla salute, il diritto al lavoro, il diritto all'istruzione e così via. Mentre i diritti civili e politici erano già presenti nelle costituzioni ottocentesche, i diritti sociali fanno il loro ingresso solo nel XX secolo con la realizzazione di quella particolare forma di stato nota come stato sociale.
Va notato che lo stato può riconoscere i suddetti diritti, almeno in parte, anche a non cittadini, sulla scorta di impegni internazionali multilaterali (derivanti, ad esempio, dall'appartenenza all'ONU o all'Unione europea) o bilaterali (a seguito di trattati che prevedono un reciproco trattamento di favore per i cittadini di uno stato da parte dell'altro) o anche di una scelta unilaterale (ad esempio, nell'ambito delle politiche d'integrazione degli immigrati presenti sul territorio nazionale). Tali fattori hanno fatto sì che negli stati odierni i diritti civili siano ormai riconosciuti anche ai non cittadini, e tale riconoscimento è di solito sancito a livello costituzionale, mentre i diritti sociali e soprattutto quelli politici tendono ancora ad essere legati alla cittadinanza.
Accanto ai diritti, la cittadinanza può comportare doveri sebbene, di solito, gli ordinamenti, se tendono a riservare i diritti ai cittadini, estendendoli eventualmente ai non cittadini, tendono invece ad imporre i doveri a tutti coloro che sono presenti sul loro territorio, a prescindere dalla cittadinanza. Un dovere tradizionalmente associato alla cittadinanza, fin dai tempi più antichi, è quello della difesa dello stato (o, come si usa dire, della patria) che, in certi paesi, può tradursi nel servizio militare obbligatorio. Correlativamente tutti gli ordinamenti vietano e puniscono severamente il servizio militare del cittadino in forze armate straniere. Tra gli altri doveri dei cittadini si possono ricordare, in alcuni ordinamenti, il voto (che nella costituzione italiana è invece ambiguamente qualificato come "dovere civico") e, in molti ordinamenti, la svolgimento delle funzioni di giudice laico (ad esempio, di giurato o di giudice popolare nella corte d'assise italiana).
La cittadinanza italiana è la condizione della persona fisica (detta cittadino italiano) alla quale l'ordinamento giuridico dell'Italia riconosce la pienezza dei diritti civili e politici.
È concessa, senza limite di generazioni, ai discendenti degli italiani emigrati, tramite lo ius sanguinis, anche se non sono ammessi salti generazionali. La quantità di potenziali cittadini italiani, secondo questo criterio, raddoppia l'attuale popolazione della penisola italiana. Nel continente sudamericano si è radicata la maggior parte degli emigrati nella seconda metà del XIX e del XX secolo.