Grande clamore ha suscitato la recente notizia dell’applicazione del canone RAI ai soggetti in possesso di un apparecchio potenzialmente in grado di connettersi al servizio televisivo. Nel mirino di Viale Mazzini sono così finiti coloro che, nell’esercizio della propria attività professionale, fanno uso di personal computers, tablets e persino dispositivi cellulari di ultima generazione, colpiti da avvisi di pagamento maggiorati rispetto al canone ordinario.

Una levata di scudi che ha coinvolto trasversalmente associazioni di categoria, partiti politici e privati cittadini, esasperati da un balzello che, ponendosi già tra quelli maggiormente invisi, assurge addirittura a peso intollerabile per chi svolge attività di lavoro e d’impresa. Una contraddizione in termini, nondimeno, ove si consideri che le riforme legislative attuate in questi anni mirano allo snellimento dei rapporti tra imprese e pubblica amministrazione, proprio tramite il potenziamento degli strumenti di comunicazione informatizzata.

Con una capziosa interpretazione del dato normativo e della sottesa volontà del legislatore, la legittimazione formale alla discutibile iniziativa è stata rinvenuta in alcuni provvedimenti risalenti a tempi in cui l’attuale tecnologia, nell’ambito delle comunicazioni, era ben oltre ogni immaginazione.

L'art. 27 del R.D.L. n. 246 del 1938 limita peraltro l’obbligo di pagamento, per gli utenti diversi dai privati, ai casi di “audizioni date in locali pubblici o aperti al pubblico”, mentre l'art. 2 del D.Lgs. luogotenenziale n. 458 del 1944 stabilisce che “qualora le radioaudizioni siano effettuate in esercizi pubblici o in locali aperti al pubblico o comunque al di fuori dell'ambito familiare, o gli apparecchi radioriceventi siano impiegati a scopo di lucro diretto o indiretto, l'utente dovrà stipulare uno speciale contratto di abbonamento con la società concessionaria”. Non rileva quindi il semplice possesso dell'apparecchio, ma l'effettiva trasmissione effettuata al pubblico.

Obbligata ad un chiarimento “riparatore”, la RAI si è affrettata a precisare come la lettera inviata si riferisca esclusivamente al canone speciale dovuto da imprese, società ed enti nel caso in cui i computers siano utilizzati come televisori (c.d. digital signage) fermo restando che il canone speciale non va corrisposto nel caso in cui tali soggetti abbiano già provveduto al pagamento per il possesso di uno o più apparecchi televisivi.

I solleciti di pagamento già inviati, per la loro generica formulazione, sono tuttavia suscettibili di integrare gli estremi della pratica commerciale scorretta, in quanto inducono i destinatari alla convinzione dell’obbligo di pagamento solo in virtù del mero possesso  del dispositivo collegato ad Internet.

Si definisce pratica commerciale qualsiasi “azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale (compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto), posta in essere da un professionista in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un bene o servizio ai consumatori"; essa è “scorretta, ovvero illecita e vietata” ove, tra l’altro risulti idonea a falsare il comportamento del consumatore”.

Si profila dunque la concreta possibilità di richieste di rimborsi e risarcimento del danno per quanto illegittimamente corrisposto al gestore radiotelevisivo pubblico, da parte degli utenti che abbiano già versato le somme intimate.

Avv. Egle Asciutti