La mancata allegazione, in sede contenziosa, del processo verbale di constatazione da parte dell’Agenzia delle Entrate determina la nullità dell’avviso di accertamento per carenza di prova (Cass. 3978/17)
La Suprema Corte, con la sentenza n° 3978/17, ha ribadito un interessante principio in tema di onere della prova e, in particolare, attraverso quali modalità detto adempimento processuale debba essere assolto da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Invero, i giudici di legittimità, attraverso precedenti pronunce, avevano già cristallizzato tale argomentazione giuridica; sul punto si veda la sentenza n° 3456/09, nonché l’ordinanza n° 9346/16 della Suprema Corte.
Ebbene, laddove l’Agenzia delle Entrate, all’interno dell’avviso di accertamento notificato al contribuente, menzioni un precedente processo verbale di constatazione (PVC) consegnato all’interessato (art. 12, comma 7, Legge n° 212/2000), spetta all’Ente impositore “fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa”, poiché “anche nel processo tributario vale la regola generale in tema di distribuzione dell’onere della prova dettata dall’art. 2697 c.c.[1]”.
In altre parole, prosegue la Suprema Corte nella sentenza in commento, “in presenza, quindi, di un avviso di accertamento che richiami espressamente elementi di indagine ricavati da verifiche operate dalla Guardia di Finanza […] l’onere di dimostrare la legittimità della pretesa fiscale ricade in capo all’Amministrazione finanziaria e non può prescindere in giudizio del processo verbale di constatazione”[2].
Pertanto, la chiave di volta del principio espresso è collocata proprio nel “profilo del difetto di prova della pretesa impositiva” (Cass. n° 9346/16).
Nella fattispecie in commento infatti, da un lato l’Agenzia delle Entrate menzionava espressamente (nell’avviso di accertamento notificato al contribuente) le attività svolte durante la fase istruttoria, contenute nel processo verbale di constatazione (PVC) e dall’altro – tuttavia – il medesimo Ente impositore non depositava agli atti il citato processo verbale “conclusivo”, a titolo di unico documento costituente valore probatorio.
Peraltro, come si evince dalla motivazione della precedente ordinanza n° 9346/16 della S.C., l’assolvimento dell’onere della prova gravante sull’Agenzia delle Entrate, quale “parte attrice sostanziale” del contenzioso tributario, non era stato assolto dall’Ente interessato, il quale si era limitato a versare in atti “stralci del PVC”, impendendo al Collegio giudicante – rebus sic stantibus – di constatare l’effettiva sussistenza di elementi probatori idonei a fondare il maggior reddito a carico del contribuente.
Tale scenario determinava un effetto sfavorevole ed insanabile sulla presunta pretesa erariale, giacché grava “sul Fisco l’onere di provare in giudizio i fatti costitutivi” del proprio credito “sia pure sulla base di elementi presuntivi”.
In particolare, analizzando l’applicazione di tale regola dell’onere della prova, la sentenza in commento menziona proprio l’art. 2697 c.c., il quale stabilisce, al comma 1, che “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.
Volgendo quindi uno sguardo concreto – in termini generali – al contenzioso tributario, grava sull’Agenzia delle Entrate assolvere l’onere della prova, ossia quello di comprovare la sussistenza di “fatti”, collocati a monte della propria volontà di recuperare a tassazione una determinata somma sottratta dal contribuente in sede di dichiarazione.
Difatti, laddove questa primaria attività sia stata ritualmente espletata - attraverso il successivo deposito in sede contenziosa del PVC (compreso gli allegati ritenuti più decisivi per rafforzare i i rilievi dell’Ufficio fiscale) - trova legittima operatività il comma 2 dell’art. 2697 c.c.: “chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda”.
Orbene, questo successivo adempimento (consequenziale) sarà evidentemente a carico del contribuente, al fine di replicare compiutamente alla tesi della pars publica, tuttavia se quest’ultima avrà versato agli atti processuali le prove in esame.
Proprio su tale aspetto, sarà in seguito il giudice tributario, in sede di risoluzione della controversia, a valutare le prove (depositate da parte dell’Agenzia delle Entrate), come impone del resto l’art. 116 c.p.c.: “il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento”.
In tal senso, nella storica sentenza della Corte Costituzionale n° 109/07 emerge il principio di civiltà giuridica tributaria, ossia la Commissione Tributaria non può e non deve promuovere una sorta di atto di fede a favore dell’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate, in assenza di deposito del PVC e degli allegati.
Sotto tale profilo nella citata decisione della Consulta viene osservato che è da ripudiare “l’idea che la cosiddetta presunzione di legittimità del provvedimento amministrativo possa intendersi in senso tecnico e quindi come inversione dell'onere della prova, ha riconosciuto statuendo che l'onere della prova grava sull'Amministrazione finanziaria, in qualità di attrice in senso sostanziale, e si trasferisce a carico del contribuente soltanto quando l'Ufficio abbia fornito indizi sufficienti per affermare la sussistenza dell'obbligazione tributaria”.
Non solo: nella medesima sentenza i giudici hanno osservato che la Legge n° 248/05 ha “soppresso il potere officioso attribuito alle Commissioni tributarie” con l’abrogazione del comma 3 dell’art. 7 del D. Lgs. n° 546/92[3], dunque il “Legislatore […] ha voluto rafforzare il carattere dispositivo del processo tributario espungendo da esso il potere officioso”.
In buona sostanza, nel contenzioso tributario governa il divieto assolutoper il giudice” di “supplenza” nell’interesse della parte processuale “inerte”, sulla quale grava indiscutibilmente l’onere di depositare (nel caso che ci interessa) il processo verbale di constatazione, nonché gli allegati.
Di conseguenza, chiarisce ulteriormente la Consulta “a fronte del mancato assolvimento dell'onere probatorio da parte del soggetto onerato, il giudice tributario non è tenuto ad acquisire d'ufficio le prove, in forza dei poteri istruttori a lui attribuiti dall'art. 7[4]” (D. Lgs. n° 546/92).
Alla luce di quanto illustrato, laddove l’Agenzia delle Entrate ometta di versare in atti il PVC, il Collegio tributario non può sanare d’ufficio la condotta indolente dell’Ufficio impositore, in stretta connessione con il menzionato art. 7; in difetto, sarà onere del difensore tributario rilevare detta inosservanza nelle modalità di legge.
A ben vedere, la pietra filosofale dell’intero panorama analizzato (normativo e giurisprudenziale) è caratterizzata non dalla questione circa la motivazione per relationem (argomentata nell’avviso di accertamento), bensì dall’assolvimento dell’onere della prova.
In buona sostanza, fermo restando che l’avviso di accertamento può – in via ulteriore – essere viziato da una carenza di motivazione (art. 42, comma 2, D.P.R. n° 600/73[5]), la questione dirimente
nella prefata vicenda è il mancato deposito – da parte della pars publica – di elementi di prova acquisiti durante la fase istruttoria, conclusa con il processo verbale di constatazione.
Da un punto di vista difensivo, nell’ottica evidentemente di far acclarare l’omesso deposito dei documenti comprovanti la dimostrazione delle contestazioni a carico del contribuente, detta doglianza dovrà essere modellata con intelligenza strategica nel proprio scritto difensivo, al fine di scongiurare che l’Amministrazione finanziaria – con le successive controdeduzioni, art. 23, comma 3, D. Lgs. n° 546/92 – possa depositare tempestivamente le prove.
Ebbene, in virtù di tale norma infatti, il resistente deve indicare “le prove di cui intende valersi”, pertanto è verosimile che l’Ufficio fiscale dinanzi ad una “plateale” obiezione sollevata dal contribuente in punto di carenza di prova (associata al mancato deposito del PVC e/o degli allegati), possa attivarsi rapidamente per colmare la citata lacuna documentale, neutralizzando, in tal modo, la linea difensiva adottata dal contribuente.
di Federico Marrucci e Maurizio Naseddu
Studio Legale Tributario Arcadia

    [1] A conferma di tale principio si rimanda alla sentenza n° 109/07 della Corte Costituzionale: “è in questo contesto che si colloca l'abrogazione - volta, si è detto (Cass. 11 gennaio 2006 n. 366), ad eliminare qualsiasi ostacolo alla piena applicabilità nel processo tributario dell'art. 2697 cod. civ. - dell'art. 7, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992”;[2] cfr. Cass. n° 955/16, Cass. n° 21509/10, Cass. n° 1946/12;                                                             [3] Nel testo originario, il comma 3 prevedeva che “è sempre data alle commissione tributarie facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia”;[4] Nel citato art. 7, in particolare al comma 1, è sempre prevista la facoltà, a favore delle Commissioni Tributarie, di “accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti” alla Pubblica Amministrazione; per la valida operatività di tale precetto viene citato l’art. 213 c.p.c., il quale prevede la disciplina per la “richiesta di informazioni” alla P.A., tuttavia verso Enti pubblici che non sono parte del processo, infatti il prefato articolo esordisce specificando il proprio perimetro operativo “fuori dai casi previsti negli artt. 210 e 211”. In altri termini, l’art. 213 c.p.c. non può essere adoperato dal Collegio tributario per sanare la carente produzione documentale ascritta all’Agenzia delle Entrate;[5] In tal senso, il principio della motivazione degli atti amministrativi è sancito anche nell’art. 7, comma 1, Legge n° 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), nel quale viene menzionato l’art. 3 della Legge n° 241/90; in effetti, ogni provvedimento impositivo deve indicare “i presupposti di fatti e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione”. Il secondo capoverso del citato comma 2 sancisce il principio della motivazione per relationem, ossia “se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama”; in tema di carenza di motivazione si segnala l’orientamento della Corte di Cassazione, nel quale viene censurato come inammissibile la condotta processuale dell’Amministrazione finanziaria diretta ad integrare la motivazione:  “il processo tributario ha natura impugnatoria, sicché l’Amministrazione finanziaria non può modificare” o integrare “in ragione delle contestazioni del contribuente, le motivazioni poste a fondamento dell’atto impositivo” (cfr. anche Cass. n° 28655/18).
Sulla questione si rimanda www.altalex.com/documents/news/2020/04/03/cartella-esattoriale-illegittima-mancata-dichiarazione-contribuente;