Primi effetti della risoluzione n° 92/E/13 dell’Agenzia delle Entrate: le attività di “compra oro” applicano il regime Iva dell’inversione contabile indipendentemente dalla natura del bene destinato alla fusione (C.T.R. della Toscana, n° 857/30/14)
I giudici della Commissione Tributaria Regionale della Toscana con la recente sentenza n° 857/30/14 (depositata in cancelleria il 28.04.2014), hanno risolto – ai sensi della nuova risoluzione n° 92/E/13 dell’A.d.E. – la nota questione riguardante il regime Iva più corretto da applicare (per le attività dei compra oro[1], in relazione alla fusione di rottami), stabilendo che per tale categoria di contribuenti (in virtù dei beni destinati alla mera fusione) vige il meccanismo del c.d. reverse charge[2].
In buona sostanza, a nulla rileva la natura e la tipologia del bene (“sia esso da considerare usato o rottame”), difatti l’elemento decisivo è rappresentato dalla oggettiva ed incontestabile destinazione dell’oggetto, ovvero sia fuso e/o rottamato presso imprese specializzate.
I fatti del processo
La controversia in parola traeva origine da una verifica fiscale svolta dalla Guardia di Finanza presso la sede del “compro oro”, in forza della quale i verificatori rilevavano che il contribuente acquistava gioielli (usati e rottami) da privati e, successivamente, li rivendeva ad operatori professionisti nel settore dell’oro[3].
In particolare, secondo la ricostruzione dei fatti operata dai finanzieri, il contribuente attribuiva “indebitamente”, ad una parte della suddetta merce, la natura di “rottami d’oro usati”, applicando il regime Iva dell’inversione contabile e non quello sul margine (D.L. 23 febbraio 1995, n° 41, convertito in Legge 22 marzo 1995, n° 85[4]).
Proprio sul punto, la normativa in questione (art. 17, comma 5, D.P.R. n° 633/72) prevede che “per le cessioni di materiale di oro e per quelle di prodotti semilavorati […] al pagamento dell’imposta è tenuto il cessionario, se soggetto passivo di imposta nel territorio dello Stato”.
A maggior chiarimento, nella Risoluzione n° 375/E del 28 novembre 2002 era stato stabilito che “anche l'imposta sugli acquisti di rottami di gioielli d'oro, destinati ad essere sottoposti al procedimenti industriale di fusione e successiva affinazione chimica per il recupero del materiale prezioso ivi contenuto, può essere assolta mediante la particolare procedura prevista dall'art. 17, comma 5, trattandosi di semilavorato privo di uno specifico uso o destinazione, essendo necessario un ulteriore stadio di lavorazione o trasformazione che ne consenta l'utilizzo da parte del consumatore finale.
In generale, trova pacifica applicazione il regime del reverse charge, laddove il cessionario (acquirente) dei “presunti” rottami non li destini al consumo finale, nonché operi esclusivamente nel settore del recupero dei materiali preziosi e non nella commercializzazione dei gioielli.
Per effetto del citato Processo Verbale di Constatazione, l’Agenzia delle Entrate emetteva quattro avvisi di accertamento (per gli anni di imposta 2006 - 2009), finalizzati – appunto – al recupero dell’Iva nei confronti del contribuente (esercente l’attività di c.d. compra oro) pari ad €. 67.437,00, oltre interessi maturati e sanzioni irrogate.
In breve, l’Ufficio – riprendendo pedissequamente i rilievi della GdF – addebitava al soggetto interessato un’errata applicazione del regime Iva nella fusione dei rottami di oro (inversione contabile, anziché il meccanismo del “margine”).
Secondo la tesi dell’Ufficio (confermata dai giudici di primo grado con la sentenza n° 161/4/12 della C.T.P. di Lucca), il contribuente aveva effettuato “la cessione meramente documentale di rottami d’oro, materiale d’oro, e/o gioielli d’oro avariati, in luogo di effettive cessioni di oggetti di oreficerie e di gioiellerie d’oro usati […] attribuendo, tuttavia, alla stessa merce nei documenti fiscali la natura di rottami d’oro usati.
Per tale ragione, l’Amministrazione finanziaria rimarcava l’errata applicazione dell’inversione contabile (c.d. reverse charge) prevista dal citato art. 17, atteso che i beni venduti per la fusione non erano rottami, bensì gioielli usati (in tale ipotesi, secondo la tesi dell’Agenzia delle Entrate, doveva essere applicata l’Iva sul margine).
Il ricorrente – nelle more del primo giudizio – sosteneva l’assoluta legittimità del proprio operato (applicazione dell’inversione contabile): a tal fine, aveva prodotto documentazione idonea (atti di acquisto del gioiello dal privato, registro beni usati[5], documenti di trasporto firmati dal destinatario, fatture emesse per la cessione dei beni alla società di fonderia, esame chimico sui rottami inviati alla fusione), diretta a comprovare – oltre ogni ragionevole dubbio – che i gioielli ceduti alle imprese specializzate nella fusione fossero veri e propri “rottami” e non gioielli “usati”; tuttavia la C.T.P. di Lucca respingeva il ricorso. Avverso tale pronuncia, il contribuente proponeva appello.
La decisione dei giudici
In breve, la Commissione Tributaria Regionale della Toscana ha ribaltato la decisione dei giudici di prime cure ed ha annullato la sentenza impugnata, applicando gli effetti della nuova Risoluzione n° 92/E del 12.12.2013, nella quale l’Amministrazione finanziaria ha stabilito che l’applicazione dell’inversione contabile alle cessioni nel settore dei “compra oro” riguarda non solamente i rottami in senso stretto, ma qualsiasi bene di oro usato, a prescindere dalle condizioni in cui si trova (sia esso integro ovvero rotto o difettoso, riparabile o meno), in considerazione della destinazione di tali materiali.
A ben vedere, ciò che rileva – ai fini del meccanismo Iva corretto da applicare in siffatto ambito - è la destinazione “finale” dei gioielli, ossia se inviati unicamente per la loro “fusione” oppure per un nuovo “riutilizzo” (in seguito, ad esempio, ad un intervento di riparazione).
In altri termini, se il cessionario dei gioielli (rottami o usati) svolge un’attività di fusione e/o trasformazione industriale del metallo, è automatica l’applicazione dell’inversione contabile, atteso che quello che rileva non è la natura del bene trasmesso alla fusione, bensì la propria destinazione.
Difatti, l’appellante - già nel ricorso introduttivo - aveva dimostrato che i gioielli ceduti fossero stati “rottamati” da una società proprio di fusione/trasformazione, la quale non operava (all’epoca dei fatti contestati) nella commercializzazione dei gioielli.
Non solo, a dimostrazione dell’attività di fusione del cessionario, il contribuente aveva allegato – per ogni singola attività di fusione svolta, come del resto evidenziato dagli stessi giudici regionali - “la tipologia dell’acquisto, la grammatura, il prezzo pagato, la fattura, il destinatario e la destinazione del bene (fusione e/o trasformazione)”, quindi era stato assolto l’onere probatorio posto a carico del contribuente.
In definitiva, secondo i giudici, era stata raggiunta la dimostrazione circa la natura di rottami dei beni, pertanto l’applicazione dell’inversione contabile era corretta (vedi art. 17, c. 5, D.P.R. n° 633/72), difatti “poiché tale documentazione non è stata contestata dall’Ufficio, non si può validamente sostenere che la destinazione finale dei beni (usati o rottami) sia stata diversa dalla fusione e/o trasformazione, per cui si applica l’inversione contabile”.
In conclusione, l’appellante – in forza della produzione documentale mai contestata dall’Ufficio, art. 115 c.p.c. – è riuscito a comprovare “la tipologia, la grammatura” e la fusione del rottame, di conseguenza trova indubbia applicazione la menzionata risoluzione, la quale – per una sua corretta operatività – pone “risalto solo alla destinazione del bene”.
Di Federico Marrucci
Avvocato Tributarista in Lucca e Pisa (c/o Studio Legale e Tributario Etruria)  [1] Come noto, la disciplina Iva nel settore del commercio dell'oro è stata riscritta dalla legge n° 7 del 7 gennaio 2010, la quale ha introdotto – nel nostro ordinamento – un regime specifico per le transazioni in oro.
In buona sostanza, il commercio oro, ai sensi dell'art. 1, comma 1 della legge richiamata è rappresentato da due categorie: 1) l'oro da investimento, di cui alla lettera a), ossia oro in forma di lingotti o placchette di peso accettato dal mercato dell'oro, superiore ad 1 grammo, monete d'oro, secondo una serie di parametri indicati alla lettera citata e b) l'oro industriale (oro in forma di semilavorati, sia in qualunque altra forma e purezza).
Pertanto la prima classificazione rappresenta un'elencazione ben determinata a c.d. numero chiuso, quindi tutto ciò che non rientra in tale categoria, viene annoverato automaticamente nella seconda.
Dall'estrema analiticità e precisione circa la definizione dell'oro da investimento (lettera a), viene rimarcata la natura sostanzialmente residuale della definizione dell'oro industriale – lettera b.
In altri termini, laddove venga a mancare uno dei requisiti tassativamente richiesti per integrare la definizione di oro da investimento, allora il bene sarà considerato oro “ad uso prevalentemente industriale” di cui alla lettera b);[2] L'art. 17, comma 5, D.P.R. n° 633/72 prevede che per le cessioni d'oro diverso da quello di investimento (c.d. oro industriale), compreso i rottami, si applica un regime d'imponibilità speciale, ossia quello dell'inversione contabile.
E' fatto notorio quindi, che laddove trova ragion d'essere tale meccanismo (ai fini Iva) l'imposta viene assolta dal cessionario (se soggetto passivo d'imposta nel territorio dello Stato italiano), il quale deve integrare la fattura con la relativa aliquota Iva.
In termini pratici, il cedente (ovvero sia il venditore) emette fattura senza addebitare l'imposta ed indica sulla stessa che si tratta di una operazione art. 17, comma 5 D.P.R. n° 633/72, come avvenuto nel caso in questione;[3] Anche su questo punto, l’Amministrazione finanziaria – in via preliminare – aveva qualificato come “illegittima” l’attività di compro oro effettuata dal contribuente, atteso che quest’ultimo non aveva provveduto a chiedere alla Banca d’Italia la specifica autorizzazione per commerciare nel settore dell’oro (ed in generale dei gioielli). La C.T.R. della Toscana ha accolto la tesi difensiva dell’appellante: “giusta la circolare della Banca d’Italia 28/05/2010, i negozi di compra oro non devono comunicare l’inizio delle attività, non possono fondere oggetti preziosi usati o avariati per conto proprio,  ma possono rivenderli a privati e/o fonderie”;[4] Tale norma sancisce l’applicazione dell’Iva sul margine sui beni usati (denominati c.d. d'occasione), che dovranno essere rivenduti tali e quali all’epoca dell’acquisto ovvero dopo aver subito una riparazione. Per chiarire i termini della previsione normativa, la successiva Circolare n° 177/E del 22.06.1995 ha stabilito che la riparazione non deve modificare la tipologia del bene, anche se lo stesso viene utilizzato ad altro scopo;[5] In altre parole, dal “Registro dei beni usati, Antichità e prezzi” si rileva come il contribuente, per ogni acquisto di materiale oro, avesse specificato la tipologia del bene acquistato dal privato, evidenziando peraltro la caratteristica di “rottame” (o di oggetto suscettibile di una successiva rivendita), nonché il relativo peso in grammi: detto registro è tenuto ai sensi del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (R.D. 18 giugno 1931, n° 733  e D.P.R. n° 441/97 ai fini fiscali) sotto la sorveglianza della Questura, al fine di garantire la veridicità e l'attendibilità di detto registro. Per le sue caratteristiche, lo stesso soddisfa le esigenze dell'art. 39 del D.P.R. n° 633/72 (registro di carico e scarico) e del D.P.R. 441/97, in tema di presunzione di acquisto e di cessione, in tema di I.V.A., nonché gli obblighi richiesti dalle norme di pubblica sicurezza che regolano il commercio di oggetti preziosi usati.  
Su quest’ultimo aspetto, la Circolare n° 193/E del 23 luglio 1998 in tema di “presunzioni di cessione e di acquisto” stabilisce, al punto 3, che per superare la presunzione di acquisto dei beni senza pagamento dell'imposta (come quello effettuato da un privato), occorre fornire titolo di provenienza dei beni stessi attraverso lo scontrino, la fattura o con l'annotazione nel libro giornale o in altro libro tenuto a norma del codice civile o in apposito registro con l'indicazione delle generalità del cedente, nonché della natura, qualità e quantità dei beni e della data di ricezione;