L’ordinamento vigente individua nella criminalità minorile l’insieme dei fatti costituenti reato commessi da soggetti in età compresa tra 14 e 18 anni.
Il minore imputabile è soltanto il soggetto infradiciottenne ma che abbia già raggiunto i 14 anni di età. Al di sotto di essa, infatti, la legge introduce una presunzione della incapacità di intendere e volere di natura assoluta, perché non è ammessa la prova contraria (art. 97 c.p.).
Le motivazioni tipiche che spingono il minore al reato vanno individuate nel disagio e nella sempre maggiore difficoltà per tutto il mondo giovanile di trovare ed avere solidi valori di riferimento e validi progetti di vita all’interno della società.
In questo lavoro verrà analizzato un fenomeno particolare di criminalità minorile che è in rapida espansione nel nostro paese: il coinvolgimento dei minori in attività proprie della criminalità organizzata, prendendo come riferimento le principali organizzazioni criminali operanti attualmente sul territorio italiano.
Negli ultimi tempi, si è notato come alla tipica occasionalità che ha sempre caratterizzato la delinquenza minorile si è aggiunta una forma di vero e proprio sfruttamento e inserimento di minori in organizzazioni criminali anche di stampo mafioso.
Inoltre, l’irrefrenabile degrado socio-economico spinge minori già a rischio a cedere facilmente alle lusinghe e alle facili prospettive di guadagni, potere e rispetto che possono trovare tramite l’affiliazione ad una organizzazione criminale. Pertanto, le stesse approfittano di tali condizioni per utilizzare i minorenni soprattutto, ma ormai non soltanto, in incarichi secondari e comunque indispensabili per le attività del gruppo malavitoso.
E’ evidente a questo punto come si stia instaurando un rapporto simbiotico tra la devianza minorile e la criminalità organizzata, soprattutto in realtà territorialmente difficili dell’Italia meridionale, dove la prima è l’abituale bacino di reclutamento della seconda e quest’ultima diventa il polo attrattivo delle tendenze devianti, in modo che la subcultura criminale assurge al rango di unico e fortissimo modello comportamentale per tali soggetti.
1. L’inserimento dei minori nella criminalità organizzata
Il coinvolgimento dei minori in attività proprie della criminalità organizzata è un fenomeno che ha assunto da anni proporzioni e caratteristiche notevolmente gravi e diffuse.
Fornire una visione d’insieme della situazione risulterebbe impossibile, ma, comunque, si possono riportare come esempio dei dati che emergono da uno studio effettuato dall’Ufficio centrale per la Giustizia Minorile[1]. La ricerca è consistita nell’analizzare le informazioni provenienti direttamente dagli IPM (Istituti penali per minori) dell’intero territorio nazionale italiano, relative ai minori reclusi nel corso dell’anno 1996 e che risultino far parte di associazioni criminali. Dalla ricerca è emerso la quasi assoluta presenza di soggetti maschi e di nazionalità italiana, i quali commettono i delitti principalmente nella fascia di età compresa tra 15 e 17 anni, anche se non mancano casi in cui la soglia del primo delitto si abbassa fino a 11-12 anni.
I reati commessi sono principalmente lo spaccio di stupefacenti, le rapine, l’uso illegale di armi, il furto e, infine, non mancano i reati contro la persona quali omicidi e tentati omicidi anche se in proporzione sono più rari. Dai dati emerge, inoltre, che tutti i minori analizzati parlano del proprio ambiente familiare come multiproblematico, degradato, privo di mezzi di educazione, con basso livello di scolarizzazione e pregresse esperienze carcerarie (spesso perché risultano appartenere a famiglie già conosciute come “mafiose”). Inoltre, è evidente la forte influenza negativa della figura adulta che nella preponderanza dei casi risulta complice del minore (a fronte di pochi casi in cui il correo era infradiciottenne), e ciò in particolare quando vengono commessi gravi reati quali omicidi, sequestri di persona e violenza sessuale.[2]
La maggior presenza di minori coinvolti in associazioni criminali si registra nella “mafia” e nella “’ndrangheta”, con minori casi per la “camorra” e, in base a questa ricerca, nessun caso per la “Sacra Corona Unita”. Ma va tenuto conto che questi dati, sia per il periodo di osservazione (1996), che per la limitatezza dell’analisi, non possono essere presi come punto di riferimento della situazione attuale.
A riprova del fatto che il fenomeno vada via via ingigantendosi si può esaminare un altro studio operato dal Ministero di Grazia e Giustizia[3], relativo alla devianza minorile mafiosa nel periodo gennaio 1990 - ottobre 2002, il quale ci mostra come rispetto al 1996 i casi di minori iscritti dalle Procure della Repubblica per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. sono in aumento (e questo anche perché i traffici della criminalità organizzata si stanno globalizzando e diffondendo sempre più su scala internazionale; circostanza che spinge le organizzazioni a richiedere sempre nuova manovalanza al loro interno[4]).
Tralasciando i numeri del fenomeno che sono molto fluidi, ci si deve chiedere quali sono le ragioni e le modalità che portano il minore ad entrare a far parte di una organizzazione criminale di stampo mafioso.
In genere le vie di accesso all’organizzazione sono due: la nascita in una famiglia mafiosa oppure l’aggregazione determinata dalle condizioni di vita e dagli stimoli negativi dei referenti malavitosi dei quartieri in cui si abita, i quali, per soggetti in condizione di grave disagio familiare, sottosviluppo socio-economico e degrado culturale finiscono per essere modelli di successo.
Nel primo caso l’ingresso nel clan è quasi automatico, nel secondo, invece, l’organizzazione studia attentamente il comportamento dei minori in modo da individuare quelli più svegli, spietati, furbi e abili al fine di utilizzarli come bassa manovalanza per le attività del clan. Si assiste così ad una escalation che porta il ragazzo a compiere “scippi”, rapine classiche, e poi, se davvero affidabili, alla esecuzione di omicidi su commissione dell’organizzazione criminale. Quando si entra in carcere – per tali minori è quasi un passaggio obbligato - si ottiene un attestato di professionalità del crimine di cui fregiarsi all’esterno con i coetanei e soprattutto con gli adulti che devono avere sempre più fiducia in tali minori.[5]
Del resto le storie degli adolescenti imputati del reato di associazione mafiosa (art. 416 bis c.p.) – che non provengono da una famiglia già qualificabile “mafiosa” - sono accomunate da alcune caratteristiche generali.
Innanzitutto giungono da contesti socio-ecomonici in cui c’è un altissimo grado di povertà. Questo fattore è spesso causa dello sviluppo di fenomeni di devianza in quanto la povertà rende difficile il processo di socializzazione e tutto ciò porta al disadattamento. La povertà poi porta all’emarginazione dal contesto sociale; pertanto, in una famiglia in cui mancano i mezzi di sussistenza necessari per soddisfare anche i bisogni primari, si vengono a determinare problemi di sopravvivenza, che generano conflitti all’interno del nucleo familiare stesso. Inoltre, molto spesso tali famiglie sono caratterizzate da alcuni fattori chiave:
a) uno o entrambi i genitori sono fisicamente assenti perché convivono con altra persona oppure sono carcerati; b) il livello culturale dei genitori è carente; c) la qualità morale delle famiglie è inadeguata; d) le abitazioni sono sovraffollate e precarie; e) c’è un altissimo tasso di disoccupazione[6].
Proprio il ruolo delle famiglie, e in particolare delle figure femminili, diventa fondamentale nelle scelte devianti del minore. Spesso in tali contesti la figura paterna è assolutamente assente e allora sono le donne che assumono la guida – direttamente od indirettamente - delle organizzazioni criminali. A seconda dei contesti territoriali, si è riscontrato che se in Sicilia, Calabria o Campania le donne hanno un ruolo gregario rispetto agli uomini, essendo loro demandato specialmente il compito di custodire ed elaborare i codici culturali dell’organizzazione, in realtà criminali quali la “Sacra corona unita” pugliese il ruolo femminile è quello tipico della donna nella società attuale, tale che l’emancipazione riguarda anche il piano criminale[7].
Il minore, in un ambiente talmente degradato, finisce per mettere a disposizione dell’organizzazione quelle competenze e professionalità che la famiglia e la scuola non sono state in grado di valorizzare. Inoltre si sente di appartenere finalmente a qualcosa che gli dà protezione e gli garantisce un ruolo nella società.
2. I ragazzi delle mafie: i casi difficili nei distretti di Catania e Napoli
Catania è una città di grandi dimensioni - chiamata anche la “Milano del Sud” – vocata al terziario, centro di intermediazione commerciale, culturale e politica, allo stesso tempo caratterizzata da profondi fenomeni di deindustrializzazione e disoccupazione, bassi livelli culturali e dove è forte il senso dell’illegalità.
In molte zone della città si assiste alla presenza di veri e propri quartieri-ghetto, relegati in zone separate dal resto del centro urbano (Librino, Trappeto Nord, San Cristoforo, ecc.), e concepiti unicamente come quartieri dormitorio totalmente privi di qualsiasi struttura aggregativa per i giovani e decenti servizi di pubblica utilità.
Tali quartieri – che comunque sono presenti in tante città italiane - anche dal punto di vista urbanistico hanno caratteristiche comuni: grandi casermoni tutti uguali tra loro, strade senza alberi, mancanza di spazi verdi e parchi giochi, cinema o biblioteche.
In tali contesti vi sono tutte le premesse per l’insorgenza e lo sviluppo di gravissimi fenomeni di criminalità minorile. La mafia tradizionale in questi luoghi ha gioco facile nell’imporre le sue regole e i suoi modelli, anche perché l’ambiente familiare dei minori è la strada nella quale i ragazzi giocano e abitano e dove emergeranno solamente le personalità più dure e violente.
Nel carcere minorile catanese “Bicocca” la mafiosità è parte integrante della maggior parte dell’utenza minorile ristretta: i valori della violenza, della sopraffazione, dell’intimidazione sono il messaggio dominante ricevuto dai minori durante la fase di crescita, e, pertanto, tendono ad identificare i loro idoli nel boss mafioso o nell’uomo d’onore del quartiere di provenienza.
Del resto, dalle interviste effettuate dagli operatori ai minori detenuti per reati di associazione mafiosa, la mafia appare, o meglio, è l’aria che si respira. Come l’aria, la mafia è invisibile eppure è intorno a noi ovunque, una condizione stessa dell’esistenza[8].
La conseguenza di ciò è che gli stimoli a un potenziale cambiamento di questi minori non trovano un’adeguata risposta perché annullati dalla controspinta mafiosa di rimanere un modello – seppur negativo – di esempio per altri giovani[9].
Riprendendo i dati emersi da un’indagine svolta presso l’IPM di Catania nel periodo 1990-2002[10], si nota come i minori transitati nella struttura per il reato di associazione mafiosa (art. 416 bis c.p.) sono stati 28. L’età di commissione del fatto è prevalentemente 17 anni, con una presa in carico del Servizio contestuale in undici casi, dopo un anno in dieci casi, e solo in un caso dopo ben 4 anni. I reati connessi sono quelli di estorsione, spaccio di stupefacenti, e in ben cinque casi l’omicidio. Per quasi tutti i minori la misura della custodia in carcere (art. 23 d.P.R. n. 488/88) rappresenta il primo passo, anche se poi, al di fuori dei casi di omicidio, riescono ad ottenere la modifica in misure meno afflittive in quanto viene constatata la marginalità del ruolo del minore nella commissione dei fatti. In otto casi avviene l’uscita per decorrenza dei termini massimi di custodia.
Infine, il periodo di presa in carico da parte dei Servizi si aggira su un periodo medio di 14 mesi, tra gli estremi di 4 anni e 20 giorni. Il Servizio opera soprattutto per raggiungere obiettivi interni alla struttura (come la scolarizzazione secondaria) poiché è impossibile coinvolgere risorse esterne.
La realtà della città di Napoli è ancora peggiore di quella catanese.
Va preliminarmente tenuto presente che il tratto distintivo della “camorra”, rispetto ad altre organizzazioni criminali organizzate, sta proprio nel cospicuo numero di persone coinvolte a vario titolo nelle attività criminose, delle quali molte sono giovani anche minorenni. La camorra inoltre, anche rispetto alla mafia, si caratterizza per una notevole pervasività del fenomeno, che copre tutti i settori d’attività e di reddito e tutto il territorio.
La caratterizzazione di Napoli come area metropolitana ingigantisce il fenomeno della diffusione della criminalità. Sul territorio vi sono vasti insediamenti industriali con conseguente esplosione della cinta urbana, nuovi e caotici agglomerati abitativi, forti spostamenti di popolazione che interessano tutti gli strati sociali, l’espandersi della terziarizzazione per l’aumento della richiesta di servizi e l’importanza che assume il settore commerciale.
Le conseguenze sociologicamente più rilevanti di tale situazione sono l’aumento della complessità sociale, l’ingovernabilità dell’area metropolitana, la formazione di zone omogenee ad alto tasso di permeabilità criminale. Del resto, è evidente come la criminalità organizzata tende ad addensarsi stabilmente in alcuni quartieri e, inoltre, il tasso di criminalità in essi è indipendente dai cambiamenti della popolazione[11].
Le diverse forme che le subculture devianti possono assumere, nel caso napoletano, sono riconducibili a due configurazioni. La prima definibile “criminale”, caratterizzata dal fatto che intere zone territoriali sono dominate da gruppi criminali molto influenti che, oltre a controllare l’organizzazione, hanno collegamenti stabili con altri gruppi convenzionali di potere (partiti politici, associazioni, imprenditori, ecc.). La seconda configurazione è quella “conflittuale”, nella quale il potere criminale è suddiviso tra gruppi diversi costantemente in lotta tra loro.
In entrambi i casi i minori acquisiscono modelli di riferimento devianti, nel primo caso improntati soprattutto su codici comportamentali ispirati alla fedeltà e alla destrezza, mentre nel secondo alla violenza e alla temerarietà.
L’area del disagio a Napoli è molto diffusa, non solo nell’infanzia e nell’adolescenza, cosicché ci si chiede se vi sia ancora una normalità. Il disagio è quella forma di malessere diffuso, apparentemente privo di ragioni precise, che si manifesta già nella scuola dell’infanzia: vi sono difficoltà di apprendimento e socializzazione, isolamento, aggressività, violenza su cose e persone.
Nel contesto napoletano, anche se resta sempre difficile, dal punto di vista strettamente processuale, provare l’appartenenza di un minore ad una associazione per delinquere di stampo camorristico, si può affermare con certezza che migliaia di minori svolgono ruoli precisi – anche stabilmente – nelle organizzazioni.
Rispetto agli anni novanta, anzi, si assiste ad una specializzazione ed al perfezionamento dei compiti svolti dai ragazzi.
Nell’area napoletana i minori che fanno parte della criminalità organizzata vengono distinti in tre gruppi: il primo costituito da gruppi di camorristi più o meno autorevoli, che appartengono alla famiglia per vincolo di sangue; il secondo costituito dai ragazzi che sono inseriti nel clan familiare in quanto ne condividono gli obiettivi, e sono, quindi, legati per vincolo di appartenenza; il terzo formato da tutti quei ragazzi che, pur non appartenendo a nessun clan camorristico, tuttavia operano in un’area d’illegalità nel rispetto di quelle regole che il clan di zona ha stabilito per salvaguardare i propri traffici illeciti e, pertanto, sono comunque vicini al clan seppur soltanto per interesse.[12]
I ragazzi del primo gruppo arrivano all’istituto di pena in pochi casi a seguito di sentenza passata in giudicato, perché la famiglia è molto attenta a coinvolgerli direttamente nella minore età, a meno che non si tratti di faide familiari nelle quali ormai vengono apertamente coinvolti anche i minorenni; su questi ragazzi sembra impossibile concepire efficaci interventi educativi. I ragazzi del secondo gruppo entrano nell’istituto penale sia in custodia cautelare che in espiazione definitiva di pena e vi restano qualche tempo comportandosi come piccoli leaders, servendosi dei ragazzi più deboli per azioni di protesta e sommossa; le famiglie di questi minori sono poco collaborative con i servizi perché vivono il loro intervento come un’intrusione arbitraria. Sembra che un intervento positivo ed efficace sia in realtà possibile soltanto sui ragazzi del terzo gruppo, ai quali - entrati o accostatisi alla criminalità organizzata perché privi di qualunque valore di riferimento – va innanzitutto trasmessa la convinzione e certezza che anche la nostra società potrà riconoscere loro un ruolo positivo e vincente[13].
[1] Ministero Grazia e Giustizia, Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile, Divisione I – Affari Generali Servizi II – Legislazione, Studi, Documentazione.
[2] A. Bana, R. Bianchetti, Il coinvolgimento dei minori nelle organizzazioni criminali, in Cass. Pen., 2003, n. 5, pp. 1677-1684.
[3] Progetto di Ricerca “Minori e Criminalità Organizzata”, svolta dall’equipe della Scuola di Formazione del Personale del Dipartimento della Giustizia minorile di Messina con il coinvolgimento della Scuola di Formazione di Roma per l’Area territoriale di Puglia e Campania.
[4] Armao, Il sistema mafia. Dall’economia-mondo al dominio locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.
[5] Ripamonti, La difficile realtà minorile nel distretto di Catania: una lettura del territorio, in Minori e Giustizia, Franco Angeli, Milano, 2007, n. 1, pp. 142 ss.; G.C. Caselli, F. Imbergamo, “Minori e Mafia”, in M. Cavallo, (a cura di), Le Nuove Criminalità. Ragazzi vittime e protagonisti, F. Angeli, Milano, 1995, p. 50.
[6] Ripamonti, La difficile realtà minorile nel distretto di Catania: una lettura del territorio, cit., p. 140;
I. Mastropasqua, M. Schermi, Gli adolescenti e le mafie un discorso da riprendere, in Minori e Giustizia, Franco Angeli, Milano, 2007, n. 1, pp. 126-137.
[7] Cfr. Trib. Min. Lecce, sent. 18/05/96, in Foro It., 1998, II, pp. 74 ss., che riconosce “la responsabilità di partecipazione ad associazione mafiosa di due donne minorenni che hanno assicurato sostegno materiale alle attività dell’organizzazione criminale non limitato alla mera convivenza o favoreggiamento familista”; vedi R. Giusti, Succede a Bari, in Minori e Giustizia, F. Angeli, Milano, 2007, n. 1, pp. 245 ss., come esempio del ruolo femminile nelle organizzazioni criminali baresi.
[8] I. Mastropasqua, M. Schermi, Gli adolescenti e le mafie un discorso da riprendere, cit., p. 130.
[9] M.V. Randazzo, “Criminalità e minori in Sicilia: una lettura del territorio!”, in M. Cavallo, (a cura di), Lavoratori Eccellenti: Piccoli schiavi di un’economia perversa, F. Angeli, Milano, 2000, p. 149.
[10] A. Bana, R. Bianchetti, Il coinvolgimento dei minori nelle organizzazioni criminali, cit., pp. 1681 ss..
[11] F. Giacca, I minori e la criminalità organizzata a Napoli, riflessioni sulla dimensione dell’azione criminale e la costruzione del processo di significazione della devianza, in Rassegna dell’Arma, Studi, 2005, n. 4.
[12] F. Giacca, I minori e la criminalità organizzata a Napoli, cit.
[13] F. Giacca, I minori e la criminalità organizzata a Napoli, cit.
3. La messa alla prova e la criminalità organizzata
Nei confronti di un soggetto minorenne, la cui personalità è esposta alle influenze esterne in misura sicuramente superiore rispetto ad un adulto, si rende necessario ridurre il più possibile le conseguenze negative derivanti dal processo penale, che potrebbero avere risultati dannosi per il minore. Proprio al principio della minima offensività del processo sono ispirati alcuni istituti del codice di procedura penale dei minorenni (d.P.R. n. 448/1988), quali la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (art. 27 c.p.p.m.) e la sospensione del processo e messa alla prova (art. 28 c.p.p.m.).
Nel rito minorile, il giudice, sentite le parti, può sospendere il processo con ordinanza “quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne”, all’esito di una prova (artt. 28 e 29 c.p.p.m.). Il soggetto viene affidato ai servizi sociali minorili, in collaborazione con i servizi locali, per l’osservazione, il trattamento ed il sostegno. Il giudice può impartite prescrizioni per riparare le conseguenze del reato e promuovere la riconciliazione con la persona offesa (art. 28 comma 2 c.p.p.m.).
La sospensione ha una durata non superiore a tre anni se si procede per reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni; in tutti gli altri casi la durata della sospensione non può superare l’anno. Da ciò si ricava che l’istituto della “messa alla prova” è applicabile, senza restrizioni, a tutti i tipi di reati.
Se la prova avrà esito positivo il giudice dichiarerà estinto il reato con sentenza (art. 29 c.p.p.m.); se la prova sarà stata negativa, il processo dovrà proseguire. Tuttavia, anche prima che sia decorso il periodo massimo stabilito, il beneficio potrà essere revocato, in caso di “ripetute e gravi trasgressioni alle prescrizioni imposte” (art. 28, comma 5, c.p.p.m.)[1].
Secondo la formulazione originaria dell’art. 28, comma 4, c.p.p.m. la sospensione non poteva essere disposta in caso di richiesta di giudizio abbreviato o immediato. Questo intero comma è, però, stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 125 del 05 aprile 1995, la quale ha riconosciuto la particolare importanza e significatività dell’istituto sotto l’aspetto rieducativo[2].
Nonostante, come poc’anzi detto, la messa alla prova sia utilizzabile per qualsiasi reato, si è sempre dibattuto tra gli operatori del settore, se tale strumento debba essere davvero per tutti: una tesi largamente diffusa in dottrina tende comunque a sostenere che si tratti di “un’esperienza per tutti, su misura di ciascuno”[3].
Ciò, però, in contrasto a quanto ritenuto dalla giurisprudenza maggioritaria la quale asserisce che per i minori coinvolti in ambienti legati alla criminalità mafiosa ed organizzata non ci possa essere altra soluzione possibile che il “carcere”. La messa alla prova trova difatti un utilizzo molto prudente in tali casi e spesso si intreccia al tema dell’applicabilità o meno dell’istituto nei confronti del minore “collaboratore di giustizia”[4].
La “messa alla prova” può essere sicuramente uno strumento in grado di favorire la responsabilizzazione personale e sociale dei ragazzi chiamati ad esserne protagonisti.
E’ bene sottolineare che per funzionare adeguatamente anche nei confronti di soggetti particolari, quali sono i minori processati per reati attinenti alla criminalità organizzata, è necessario pensare ad una “messa alla prova” non solo proporzionata fattivamente al caso concreto, ma sopratutto non stereotipata (cosa a cui invece si assiste troppo spesso), e pensata in una logica di integrazione e collaborazione fra servizi, fondata sulla fiducia reciproca, commisurata all’entità e gravità del reato, in modo tale che il minore possa percepirla come un’esperienza partecipata, non imposta e da co-protagonista[5].
In ogni caso, come la dottrina ha evidenziato fin dalla comparsa dell’istituto, è necessario sottolineare alcuni snodi fondamentali dello stesso[6]:
a) la necessaria capacità del servizio sociale e della magistratura di mettersi in comunicazione e in discussione e di saper, quindi, parlare linguaggi comprensibili per il minore;
b) un’elevata qualità relazionale insita nella stessa struttura della misura: con la messa alla prova è possibile stilare e rispettare patti attraverso spazi di dialogo e confronto sempre rinegoziabili;
c) la possibilità di un utilizzo aperto, creativo, singolare della “messa alla prova”, che resta una misura cardine di un intervento sanzionatorio diverso dal carcere e, tuttavia, appare dopo quindici anni di applicazione, sempre più alla ricerca di “correttivi legislativi capaci di aumentare la tassatività dei contenuti dei progetti e di ridurne la differenziazione e disomogeneità”[7].
Come esempio di questa capacità della “messa alla prova” di essere strumento per tutti ma su misura di ciascuno, si può riportate un caso trattato dalla Corte d’Appello di Caltanissetta[8], riguardante un ragazzo nato e cresciuto in un ambiente ad alta densità criminale e processato per il delitto di compartecipazione in associazione criminale avente connotazione mafiosa.
Il ragazzo in esame è stato condannato all’esito del giudizio di primo grado alla pena detentiva, poi in sede di riesame la misura della custodia in carcere è stata commutata nel collocamento in comunità, infine la sezione della Corte d’Appello ha disposto la “messa alla prova”.
Il caso è emblematico perché la “messa alla prova” in questo caso diventa un vero punto di svolta per il ragazzo. Il suo nucleo familiare, infatti, è decisamente strutturato sulla appartenenza alla criminalità organizzata, nella quale, pertanto, il ragazzo è stato immerso sin dalla prima infanzia, trovando in essa legittimazione ed autoaffermazione. Eppure, la Corte territoriale, pur non sottovalutando la peculiarità e gravità del delitto, accentuata anche dal vincolo associativo e dalle singolarità culturali del contesto ambientale, ritiene di dover privilegiare un’opzione finalizzata ad assicurare al minore quantomeno la possibilità di affrancarsi dai condizionamenti del nucleo familiare, offrendogli una possibilità attuale di riscatto, che in seguito non sarebbe più praticabile. Tutto ciò nella consapevolezza che “comunque, prevedibilmente, non lo sarebbe qualora il processo venisse definito immediatamente nel merito con l’eventuale conferma della condanna già inflitta, riservando alla fase esecutiva un eventuale tentativo di recupero rieducativo”[9].
Si tratta, quindi, di una “messa alla prova” peculiare perché interpretata come un momento di crescita personale a prescindere dai precedenti e ne sono dimostrazioni le diverse variazioni al progetto iniziale, applicate in corso della prova.
Ad ogni modo, quest’esperienza dimostra come sia possibile capovolgere quel cliché che vuole il ragazzo mafioso necessariamente in carcere, senza che vi siano altre soluzioni praticabili.
Inoltre, rivaluta la comunità educativa come alternativa funzionale al nucleo familiare assente o inadeguato, laddove la dottrina maggioritaria sottolinea la necessità imprescindibile della famiglia tra i costruttori della messa alla prova, così venendo di fatto ad escluderla per alcuni soggetti quali i ragazzi stranieri e appunto i “ragazzi delle mafie”[10].
Infine, la Corte nissena con questo provvedimento si allontana da quelle “messe alla prova” quasi da manuale che ormai ci si è abituati a vedere nella prassi. Con tale decisione, si riconosce innanzitutto esplicitamente che nulla osta all’applicazione di tale istituto anche nei riguardi di un soggetto minorenne che abbia compiuto reati di particolare gravità e non sia diventato collaboratore di giustizia.
Ma soprattutto, dopo esser state riconsiderate le condizioni personali, ambientali, sociali del ragazzo imputato, in ottemperanza al dettato dell’art. 9 c.p.p.m.., la “messa alla prova” è stata disposta successivamente ad un periodo di carcerazione, laddove in altri casi si preferisce disporle in precedenza al dibattimento ed attivandole senza ingresso nel circuito penale[11].
La vicenda descritta è paradigmatica e fa emergere anche la positività del lavoro degli operatori sociali coinvolti, senza i quali non sarebbe stata scritta l’ordinanza anzidetta.
Si vede il tentativo di cercare strade inesplorate, non solo nella consapevolezza dei rischi, ma anche nell’assoluta fiducia del sistema minorile quale comunità sociale allargata, nell’ottica di “rete” tessuta per e con il giovane imputato[12].
4. Il recupero dei minori coinvolti nella criminalità organizzata: la necessità di progetti di prevenzione e le difficoltà strutturali
Dall’analisi fino ad ora svolta emerge una considerazione: non è pensabile, realisticamente, il recupero dei minori coinvolti a vario titolo in attività di criminalità organizzata senza la collaborazione di istituzioni diverse, quali le amministrazioni locali, la scuola, l’istituto penitenziario, le famiglie ecc..
Nelle aree ad alto rischio (come gli esempi in precedenza riportati delle città di Catania e Napoli), è innanzitutto necessario riaffermare con forza la legalità a tutti i livelli con il recupero del pieno governo del territorio, la diminuzione della dispersione scolastica e del lavoro minorile, la rottura del rapporto simbiotico tra devianza minorile e criminalità organizzata.
Inoltre, è necessario pensare all’attuazione di seri progetti di prevenzione in quanto è obiettivamente molto difficile convertire ad un lavoro o un’attività regolare un ragazzo che dallo spaccio di sostanze stupefacenti, ad esempio, ricava notevoli somme di denaro ed un prestigio sempre maggiore nella organizzazione criminale[13].
I progetti devono partire dalla prevenzione primaria, diretta all’intera popolazione giovanile, mediante programmi diretti all’educazione alla legalità e alla partecipazione in opportuni luoghi di aggregazione quali ludoteche, palestre e centri di aggregazione.
Poi c’è la prevenzione secondaria diretta ai ragazzi “a rischio devianza”, con interventi sul territorio per il sostegno di questi soggetti e delle loro famiglie. Si dovrebbero creare strutture idonee ed organizzate per la presa in carico di queste famiglie e i loro problemi, pensando in particolare alla bonifica delle aree periferiche e all’offerta di opportune attività anche di apprendistato lavorativo.
Infine, con la prevenzione terziaria si tende a ridurre i rischi della recidiva per quei ragazzi già entrati nel sistema penale minorile e che appaiono più duri e sprezzanti. In tal caso sono necessarie politiche amministrative e giudiziarie adeguate e progetti in grado, in particolare, di permettere la costruzione di una diversa identità tramite la valorizzazione delle “parti buone” di questi ragazzi che non sono delinquenti per definizione[14].
Tutti i “ragazzi delle mafie”[15] appaiono come chiusi in un altro mondo, con regole precise imposte dall’organizzazione di appartenenza, nel quale si può essere solidali solo con i propri simili. Pertanto, la prima e più evidente strategia di intervento, segnalata da numerosi operatori del settore, è quella volta, tramite l’allontanamento del minore dal contesto di provenienza, a rompere il legame di appartenenza con l’organizzazione criminale. Per fare ciò bisogna porre in essere uno strappo definitivo, perché per il ragazzo di mafia non è possibile intraprendere percorsi critici dall’interno. Occorre, poi, che gli interventi siano privi di logiche compromissorie che tenderebbero solo a rafforzare nel minore la propria connaturata diffidenza[16].
Un altro snodo fondamentale nelle possibili strategie di prevenzione e recupero di questi ragazzi è rappresentato dal lavoro. Esso costituisce un’opportunità significativa per poter costruire e radicare la loro nuova identità e il ruolo sociale. Inoltre, è considerato come una delle misure più efficaci per il reinserimento delle fasce deboli nel tessuto sociale. Tramite il lavoro il ragazzo acquista un riconoscimento, sia in termini di denaro che di prodotto finito, e si pone degli obiettivi sia per il quotidiano che per il futuro. E’ importante, però, che il lavoro arrivi prima che il “boss” di quartiere abbia già offerto a sua volta un’opportunità deviante[17].
Per tali minori – una volta che abbiano fatto ingresso nel circuito penale per reati connessi ad attività della criminalità organizzata - si pone seriamente l’interrogativo se siano o meno attuabili strategie di intervento diverse dal carcere.
Per i casi più difficili, allo stato attuale, non è ipotizzabile eliminare il carcere e forse non è nemmeno del tutto utile. Difatti la punizione richiede ed implica l’educazione, la quale si esercita anche attraverso il controllo e il contenimento del minore nell’istituto penale, favorendo in lui la strutturazione dei confini del proprio Io, l’instaurarsi del principio di realtà e l’abbandono dei deliri di onnipotenza che spesso connotano l’adolescenza[18].
C’è da sottolineare, inoltre, come la maggioranza degli operatori della giustizia minorile segnalino l’impotenza nel raffrontarsi ai minori che provengono da un contesto tanto impenetrabile, potente e spietato quale un’organizzazione criminale organizzata[19], sia per le difficoltà di concepire un intervento educativo efficace in carcere[20], che per le innegabili carenze progettuali ed economiche che rendono nella preponderanza dei casi del tutto impossibile l’impostazione di un intervento esterno non detentivo.
L’unica strada alternativa praticabile, ai sensi dell’ordinamento vigente, anche dopo un breve periodo di carcerazione, sembra la “messa alla prova” la quale spesso, però, non può funzionare soprattutto per le gravi carenze del sistema giudiziario italiano.
A tal proposito, per migliorarne l’applicabilità, si dovrebbe:
- aumentare gli educatori professionali;
- favorire la specializzazione degli operatori dei servizi minorili in modo che possano costituire i punti di riferimento del progetto e che possano essere utili ai ragazzi anche dopo l’espiazione della pena;
- costituire un sistema policentrico della giustizia collegato al Tribunale per i Minorenni e all’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni per realizzare sul territorio una rete di risorse in grado di aggregare i vari progetti e favorire il lavoro in equipe;
- favorire, anche tramite i mediatori culturali, la collaborazione con centri culturali e associazioni di volontariato[21].
[1] Tonini, Manuale di Procedura Penale, Giuffrè, Milano, V ed., 2003, pp. 672 ss..
[2] Tonini, Manuale breve – Diritto Processuale Penale, Giuffrè, Milano, 2006, p. 606.
[3] C. Scivoletto, Qualche riflessione per cominciare…, in Minori e Giustizia, 2005, suppl. n. 4, pp. 133-143; C. Scivoletto, Sistema Penale e Minori, Carocci, 2001.
[4] Cfr. Trib. Min. Palermo, 2/10/1993, in Foro It., 1995, II, p. 513, che affronta il caso di un minore appartenente allo schieramento “corleonese”, il quale è diventato “collaboratore di giustizia” dopo aver maturato una profonda e radicale trasformazione della propria scala dei valori morali, anche a seguito del totale abbandono da parte dei suoi familiari, che non hanno compreso né approvato la sua coraggiosa scelta di uscire dall’organizzazione; cfr. anche, Trib. Min. Catania, 29/03/1995, Foro It., 1997, II, p. 270; Trib. Min. Caltanissetta, 24/03/1998, Dir. Fam., 2000, p. 135.
[5] C. Scivoletto, Messa alla prova e Criminalità Organizzata, in Minori e Giustizia, F. Angeli, Milano, 2007, n. 1, p. 239.
[6] C. Scivoletto, Messa alla prova e Criminalità Organizzata, cit., p. 240.
[7] D. Petrini, Ripensare le sanzioni per il reato minorile, in Minori e Giustizia, F. Angeli, Milano, 2005, suppl. n. 4, p. 164.
[8] Corte App. Caltanissetta, sez. minorenni, Ordinanza 30/09/2005, pres. Est. S. De Nicola, riportata in C. Scivoletto, Messa alla prova e Criminalità Organizzata, cit., p. 242 ss..
[9] Corte App. Caltanissetta, sez. minorenni, Ordinanza 30/09/2005, cit., p. 239.
[10] I. Patrone, Il diritto diseguale. Ragazzi italiani ed extracomunitari davanti al giudice minorile, in M. Cavallo (a cura di), Le nuove criminalità. Ragazzi vittime e protagonisti, F. Angeli, Milano, 1995, pp. 101-107.
[11] Corte App. Caltanissetta, sez. min., ord. 30/09/2005, cit., p. 242; per l’inapplicabilità della “messa alla prova” in appello vedi Corte App. Caltanissetta, sez. min., 6/04/91, in Giust. Pen., 1991, III, p. 442; in senso contrario Corte App. Milano, 20/05/99, in Foro ambrosiano, 1999, p. 489.
[12] Corte App. Caltanissetta, sez. min., ord. 30/09/2005, cit., p. 242.
[13] Ripamonti, La difficile realtà minorile nel distretto di Catania: una lettura del territorio, cit., p. 147.
[14] M. Cavallo, Ragazzi senza. Disagio, devianza, delinquenza, Mondadori, Milano, 2002, pp. 122 ss..
[15] Cfr. F. Occhiogrosso (a cura di), Ragazzi della mafia, F. Angeli, Milano, 1993.
[16] I. Mastropasqua, M. Schermi, Gli adolescenti e le mafie un discorso da riprendere, cit., pp. 132-133.
[17] Ripamonti, La difficile realtà minorile nel distretto di Catania: una lettura del territorio, cit., pp. 147-148.
[18] L. Milani, Trattamento o educazione: educare in carcere?, in Minori e Giustizia, F. Angeli, Milano, 2007, n. 1, p. 83.
[19] I. Mastropasqua, M. Schermi, Gli adolescenti e le mafie un discorso da riprendere, cit., p. 136.
[20] Vedi L. Milani, Trattamento o educazione: educare in carcere?, cit., p. 86: l’A. sottolinea l’ambiguità del processo educativo in carcere, derivante da una serie di antinomie che rendono problematico il percorso di promozione della persona.
[21] L. Milani, Trattamento o educazione: educare in carcere?, cit., p. 88.
Conclusioni
In conclusione, si deve rilevare come il quadro generale del fenomeno dei minori coinvolti nelle attività della criminalità organizzata sia particolarmente grave sia per il numero di soggetti coinvolti (bisogna tener presente che gli studi prendono in considerazione solo i dati dei minori detenuti e, pertanto, si tratta di un fenomeno notevolmente sottostimato), che per l’età in cui avviene l’affiliazione all’organizzazione che tende ad essere molto precoce (si attesta in genere sui 12-14 anni).
Inoltre, a differenza di quanto si ritiene generalmente, il fenomeno non si esaurisce in alcune regioni dell’Italia meridionale, ma è diffuso su tutto il territorio nazionale, anche se gli studi di settore si sono, fino a questo momento, concentrati sugli affiliati alle organizzazioni più numerose quali mafia e camorra.
A tal proposito, si deve ulteriormente considerare il notevole aumento di organizzazioni criminali straniere che operano stabilmente sul nostro territorio, le quali utilizzano i minori in parecchi traffici illeciti, al pari di quelle nostrane [1].
Si è visto che un aspetto notevolmente problematico da affrontare è quello della ricerca di soluzioni adeguate per fronteggiare la situazione ed, in particolare, per recuperare i minori che fanno ingresso nel circuito penale per reati particolarmente gravi e rafforzati dal vincolo associativo.
A tal fine è bene sottolineare che sarebbe auspicabile un cambiamento generale soprattutto del settore dell’esecuzione penale per i minorenni (che è disciplinato ancora dalle stesse norme che valgono per gli adulti), allo scopo di trovare valide ed efficaci soluzioni che favoriscano la rapida fuoriuscita dal circuito penale, anche nell’ottica dei principi generali che disciplinano tutta la giustizia minorile.
Pertanto, si dovrebbero introdurre risposte orientate a depotenziare gli effetti rigidamente sanzionatori e a promuovere strategie di sviluppo del minore, anche rafforzando il ruolo di mediazione che il legislatore assegna a diversi attori sociali[2].
Infine, è assolutamente necessario che di fronte ad un fenomeno di tale gravità, vi sia la consapevolezza da parte di tutte le istituzioni preposte che è probabilmente giunto il momento di riesaminare l’intero settore della giustizia minorile, favorendo comunque nell’immediato un aumento delle risorse umane ed economiche disponibili, senza le quali non è concepibile alcun tipo di intervento concreto.
[1] A. Bana, R. Bianchetti, Il coinvolgimento dei minori nelle organizzazioni criminali, cit., pp. 1683-1684.
[2] F. Giacca, I minori e la criminalità organizzata a Napoli, cit..