I. Il caso
Tizia, dal 2008 al 2013 ha intrattenuto una relazione sentimentale, senza convivenza more uxorio, con  Caio.
Durante la suddetta relazione, Tizia ha pagato, per conto del compagno, la somma totale di € 5.000,00= per la riparazione dell’autovettura di proprietà di Caio; il tutto interamente documentato da passaggi di denaro tracciati e fatture e/o ricevute intestate a Tizia.
In relazione alla suddetta problematica, Tizia chiede quali sono le azioni esperibili in sede civile per il recupero delle somme pagate per conto di Caio.
 
II. Inquadramento del problema.
L’espressione “famiglia di fatto” è oggi utilizzata comunemente al fine di individuare quella particolare formazione sociale che ricalca la struttura essenziale della famiglia fondata sul matrimonio, pur essendo priva di qualsiasi formalizzazione del rapporto di coppia. La giurisprudenza, dal canto suo, ha recepito la dizione «famiglia di fatto», definendo il fenomeno alla stregua di una «convivenza caratterizzata da inequivocità, serenità e stabilità, da non confondere con i meri rapporti sessuali, che possono anche dar luogo alla nascita di figli naturali» (C 98/3503)
Elementi costitutivi della famiglia di fatto sono usualmente ritenuti i due seguenti: il primo, di carattere soggettivo, consiste nell’affectio, vale a dire nella partecipazione di ognuno dei partners alla vita dell’altro; mentre il secondo, di carattere oggettivo, è costituito dalla stabile convivenza, quindi da un impegno serio e duraturo, basato su una tendenziale fedeltà, in assenza di qualsivoglia formalizzazione. In via generale, è famiglia di fatto quella che presenta nella sostanza lo stesso contenuto della convivenza che ha alla base il matrimonio “tra i soggetti che vivono come coniugi more uxorio, secondo il corrente modo di esprimersi, si stabiliscono vincoli di fedeltà, coabitazione, assistenza, e di reciproca contribuzione agli oneri patrimoniali”.
La comunione di vita che contraddistingue la famiglia di fatto determina inevitabilmente dei riflessi sul piano dei rapporti patrimoniali tra i conviventi more uxorio, che vengono in rilievo in particolar modo nel momento della cessazione del ménage, palesando le esigenze di tutela della parte debole della coppia che si ritrova spesso in una posizione sfavorevole a seguito dell’interruzione del rapporto. E’ in tale fase terminale della convivenza, infatti, che sorgono i problemi in ordine alla ripetibilità di quelle dazioni precedentemente intercorse tra i membri della coppia, volte al soddisfacimento delle necessità materiali della vita comune. Tali prestazioni vengono ricondotte all’adempimento di obbligazioni naturali ex art. 2034 cod. civ. sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza (Trib. Roma sentenza del 13.05.1995, Cass. Civ. sent. n. 285/1989). Il richiamo alla categoria delle obbligazioni naturali non è però scevro dal necessario riferimento a criteri di proporzionalità, analoghi a quelli valevoli per i coniugi ai sensi dell’art. 143 cod.civ. (cfr Cass. Civ. sent. n. 3713/2003, secondo cui è necessario “che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens”). 
 
III. Il rimedio dell’ingiustificato arricchimento ex art. 2041 cod. civ.
La tesi dell’ammissibilità dell’azione di arricchimento ingiustificato a tutela del convivente che abbia contribuito al ménage della famiglia di fatto, in assenza di un’adeguata contribuzione da parte del partner, può servire a far recuperare a Tizia le somme di cui sarebbe creditrice nei confronti di Caio. Riprova di ciò sta nel fatto che non sono certo mancati i casi in cui la giurisprudenza di legittimità ha dato luogo all’azione ex art. 2041 cod. civ. pur in presenza di un arricchimento determinato dalla libera e volontaria ingerenza dell’impoverito nella sfera patrimoniale dell’arricchito.
Invero, i timori sull’imposizione di uno scambio non desiderato sono destinati a venir meno allorquando l’attività dell’impoverito si sia venuta a inserire in un contesto obiettivamente caratterizzato dall’onerosità; quando, cioè, per l’arricchito fosse chiaro che la prestazione ricevuta non poteva intendersi come compiuta gratuitamente. Rilievo determinante è svolto quindi dalla presenza di un “affidamento” dell’impoverito nell’onerosità del rapporto, conosciuto, o quanto meno conoscibile, dalla controparte proprio per effetto delle peculiari relazioni sussistenti inter partes.
Ne discende che la reciprocità delle obbligazioni naturali tra conviventi, in quanto scaturente da una situazione certamente nota a entrambi, fonda in colui che ha dato spontanea esecuzione ai doveri morali e sociali su di lui gravanti proprio quell’«affidamento» nell’onerosità dell’operazione che è il presupposto del rimedio ex art. 2041 cod. civ. per le prestazioni di facere.
L’arricchimento provocato a Caio dall’esecuzione dell’obbligazione naturale non potrà quindi ritenersi giustificato se non a fronte di un adempimento reciproco del corrispettivo dovere morale e sociale di contribuzione. In definitiva, deve dirsi che la contribuzione prestata da uno solo dei conviventi a vantaggio dell’altro determina in capo all’accipiens un arricchimento ingiustificato allorquando quest’ultimo sia (in tutto o in parte) inadempiente all’obbligazione naturale sullo stesso gravante: in tale ipotesi sarà garantito il diritto della parte adempiente di ottenere una somma corrispondente all’eccedenza della prestazioni eseguite rispetto a quelle ricevute, così riportando i partners a una posizione di sostanziale parità, appianando possibili divari tra le prestazioni eseguite in adempimento delle reciproche obbligazioni naturali sugli stessi incombenti. La soluzione proposta sembra avere rinvenuto accoglienza favorevole anche dalla più recente giurisprudenza di legittimità. In un caso risolto nel 2009 (Cass. Civ. sent. n. 11330/2009) la Cassazione ha stabilito che, poiché “l’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa” non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa soltanto “qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale”. Ne consegue, pertanto, che è “possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza”.
In motivazione è altresì dato leggere che l’art. 2041 cod.civ., costituisce una norma di chiusura della disciplina delle obbligazioni, che costituisce uno strumento di tutela, esperibile in tutti i casi in cui tra due soggetti si verifica uno spostamento patrimoniale (c.d. utiliter versum), tale che uno subisca danno e l’altro si arricchisca, “senza una giusta causa” e, cioè, senza che sussista una ragione che, secondo l’ordinamento, giustifichi il profitto o il vantaggio dell’arricchito. Si rileva inoltre esattamente che l’azione ex art. 2041 cod. civ. ha carattere generale (perché è esperibile in una serie indeterminata di casi, in quanto espressione del principio per cui non è ammissibile l’altrui pregiudizio patrimoniale senza una ragione giustificativa) e natura sussidiaria (perché è esercitabile solo quando al depauperato non spetti nessun’altra azione, basata su un contratto, su un fatto illecito o su altro atto o fatto produttivo dell’obbligazione restitutoria o risarcitoria: cfr. art. 2042 cod.civ.). L’arricchimento risulterà pertanto senza una giusta causa quando è correlato ad un impoverimento non remunerato, né conseguente ad un atto liberalità e neppure all’adempimento di un’obbligazione naturale; e ciò in quanto l’ordinamento esige che ogni arricchimento dipenda dalla realizzazione di un interesse meritevole di tutela. Con riguardo al caso dell’obbligazione naturale, evidentemente rilevante in relazione al caso della convivenza more uxorio oggetto del giudizio, la Suprema Corte evidenzia che il riferimento ad esigenze di tipo solidaristico non è di per sé sufficiente a prefigurare una “giusta causa” dello spostamento patrimoniale, giacché ai fini dell’art. 2034 cod.civ., comma primo, occorre allegare e dimostrare non solo l’esistenza di un dovere morale o sociale in rapporto alla valutazione corrente nella società, ma anche che tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità e adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso. Ne deriva che, con particolare riguardo alla convivenza more uxorio, si precisa, a questo punto, che è possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato in relazione alle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza
 
IV. Criticità.
Nonostante  l’ampia disamina sopra descritta, le possibilità di vittoria di una possibile controversia legale sul punto, risultano comunque limitate, atteso che la giurisprudenza maggioritaria, anche se datata, continua a considerare le obbligazioni contratte dai conviventi more uxorio come naturali, con il conseguente vincolo dell’irripetibilità ex art. 2043 cod. civ.
Ciò sottopone Tizia ad un elevato rischio di soccombenza in giudizio, laddove la difesa avversaria, come appare probabile, si arroccherà nell’identificare le prestazioni economiche di Tizia a favore dell’ex convivente, come obbligazioni naturali, e quindi legate ad irripetibilità.Avv. Dario De Noia