Qualora si rompa la relazione sentimentale, l'ex compagno ha diritto al rimborso delle spese sostenute nonchè ad un indennizzo per il tempo impiegato per la costruzione della casa destinata alla vita in comune.
Questo principio è stato affermato dalla Cassazione, con sentenza del 7 giugno 2018, n. 14732, secondo cui i contributi in lavoro o in natura prestati dal partner per la realizzazione della vita in comune, anche laddove la casa sia formalmente intestata all'altro, non sono comunque da considerarsi versati ad esclusivo vantaggio dell'altro, bensì in vista del progetto di convivenza.
Pertanto, gli esborsi e le energie lavorative impiegate per tale progetto, una volta che questo sia sfumato, legittimano una domanda di arricchimento senza causa con conseguente diritto al rimborso, non sussistendo l'ipotesi nè di donazione nè di conferimento spontaneo.

TESTO DELLA SENTENZA
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III CIVILE - ORDINANZA 7 giugno 2018, n.14732 - Presidente Chiarini – Relatore RubinoLe ragioni della decisione

Preliminarmente, va detto che sussiste la legittimazione processuale in capo all’attuale ricorrente, sig. C.O. , che non era parte dell’originario giudizio e propone il ricorso quale moglie, ed erede legittima, del defunto M.S. (trattandosi di verifica attinente alla regolare costituzione delle parti essa deve essere effettuata d’ufficio).
In tema di impugnazione per cassazione, al fine di evitare una pronuncia di inammissibilità del ricorso, il soggetto che non è stato parte del giudizio di merito deve allegare la propria 'legitimatio ad causam', e fornire la dimostrazione di essere subentrato nella medesima posizione del proprio dante causa, avendo l’impugnante, che si affermi successore (a titolo universale o particolare) della parte originaria, l’onere di fornire la prova documentale della propria legittimazione, a meno che il resistente non l’abbia esplicitamente o implicitamente riconosciuta.
La documentazione prodotta dalla C. è idonea a documentare la sua legittimazione: la ricorrente ha prodotto infatti sia il certificato di morte del M. , che il certificato di matrimonio, che la dichiarazione di accettazione dell’eredità con beneficio di inventario, dalla quale risulta che il M. è morto intestato.
Il ricorso è pertanto ammissibile.
Nondimeno, esso è infondato.
Va premesso che la controversia in esame sottopone all’attenzione della Corte alcune questioni, sempre più ricorrenti nella pratica ma non del tutto risolte sul piano normativo né frequentemente esaminate in sede di legittimità, connesse alla cessazione di una relazione affettiva, alla individuazione dei principi da applicare per la regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra gli ex partners e alla divisione del patrimonio comune.
Per la miglior comprensione della fattispecie e delle domande delle parti, nonché delle questioni che in relazione ad esse residuano in questa sede, va puntualizzato che nel caso di specie, la relazione sentimentale si è protratta per un lungo periodo di tempo, nell’arco del quale, per circa dieci anni i due partners hanno vissuto separatamente (il loro legame viene definito dalla sentenza in termini di fidanzamento) contribuendo con il denaro e il lavoro di entrambi alla costruzione di una casa comune. A questo primo periodo ha fatto seguito un secondo periodo di convivenza nella casa stessa, durato quattro anni, al termine del quale la relazione si è conclusa.
Nel caso in esame, con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2042 c.c., laddove la sentenza impugnata considera proponibile l’azione di indebito arricchimento prevista dall’art. 2041 c.c. nonostante fosse esperibile - e non esaminata perché proposta tardivamente - l’azione prevista dall’art. 936 c.c.
Sostiene che la Corte d’appello non abbia correttamente interpretato e applicato alla fattispecie la norma citata perché ha condannato M.S. a indennizzare, ai sensi dell’art. 2041 c.c., D.M. per il valore dei materiali e il prezzo della manodopera impiegati nella costruzione della casa senza considerare che tale domanda, trattandosi pacificamente di casa di abitazione costruita su terreno di proprietà del M. , doveva essere formulata dall’attrice ai sensi dell’art. 936 c.c., con conseguente improponibilità dell’azione sussidiaria regolata dall’art. 2041 c.c..
Il motivo è infondato, perché la situazione in esame non è riconducibile alle fattispecie tutelate dall’art. 936 c.c.: l’art. 936 disciplina la particolare eventualità in cui un terzo che non vi sia in alcun modo legittimato né autorizzato, realizzi un’opera su un fondo altrui e detta una disciplina differente per le due diverse ipotesi, quella in cui il proprietario voglia trattenere le opere eseguite sul suo fondo senza autorizzazione (dettando dei criteri di indennizzo per il terzo) e quella in cui invece vuole che siano asportate. Nel caso in esame non è mai stato messo in discussione che la D. non si è intromessa nella costruzione facendo realizzare arbitrariamente opere non autorizzate, piuttosto la stessa ha contribuito con il proprio lavoro, le proprie scelte ed anche economicamente, con ripetuti contributi patrimoniali, alla realizzazione delle opere autorizzate dal proprietario (e scelte, in origine, di comune accordo, perché la costruzione doveva costituire l’abitazione della coppia), per cui correttamente la fattispecie è stata inquadrata nell’ambito dell’azione generale di arricchimento senza causa e la domanda è stata accolta una volta esclusa l’esistenza di una obbligazione naturale (che avrebbe reso irripetibile la dazione in denaro).
Peraltro, come osservato dalla controricorrente, la mancanza del presupposto della residualità, nel caso di specie, dell’azione di ingiustificato arricchimento, non sembra sia questione già in precedenza introdotta dalla parte ricorrente, non risultando affrontata dalla sentenza d’appello (né denunciata in termini di omessa pronuncia). Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente denuncia la falsa applicazione dell’art. 2041 c.c., laddove la sentenza impugnata non ha considerato che la volontarietà della prestazione esclude l’ingiustificato arricchimento (in relazione alle domande volte all’indennizzo del lavoro svolto ed al recupero del denaro investito nella costruzione della casa).
Sostiene che la Corte d’appello abbia errato nell’interpretare l’art. 2041 c.c. laddove ha ritenuto che il fidanzamento in assenza di convivenza more uxorio non sia giusta causa di arricchimento nonostante la pacifica volontarietà del trasferimento di utilità economiche. Osserva che, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, la semplice volontà dell’impoverito di effettuare la dazione integri giusta causa dello spostamento patrimoniale, e quindi impedimento al riconoscimento del diritto all’indennizzo; e che tale principio sia stato applicato soprattutto a fattispecie di arricchimento determinate da affectionis vel benevolentiae causa in quanto indubbiamente connotate dalla volontà della parte che si assume danneggiata.
Il motivo è infondato.
Si tratta di questioni non infrequenti, anche se non idoneamente disciplinate, che concernono le conseguenze economiche dello scioglimento della famiglia di fatto, o comunque dei principi applicabili allorché cessino rapporti sentimentali stabili, in relazione alla sorte delle spese sostenute in vista della futura convivenza.
I principi da applicare sono stati compiutamente espressi da Cass. n. 11330 del 2009, che da un lato ricostruisce sistematicamente tutte le ipotesi in cui non si possa legittimamente richiamare la mancanza di causa del conferimento, a fondamento dell’azione di arricchimento, dall’altro fa applicazione degli indicati principi proprio in relazione ad un disciolto rapporto di convivenza more uxorio: 'l’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’ obbligazione naturale. È, pertanto, possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente 'more uxorio' nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza - il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto - e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza'.
Riprendendo i principi sopra citati, deve puntualizzarsi che all’interno dell’azione di indebito arricchimento, la volontarietà del conferimento è idonea ad escludere il diritto alla ripetizione di quanto spontaneamente pagato in quanto (o come anche si usa dire, nella misura in cui) essa è spontaneamente indirizzata ad avvantaggiare il soggetto in cui favore viene effettuato il conferimento, ovvero in quanto essa sia una volontaria attribuzione patrimoniale a fondo perduto in favore di una determinata persona, che il conferente intende sostenere o aiutare economicamente in una sua attività o iniziativa, o esigenza.
Nel nostro caso, il conferimento di denaro e del proprio tempo libero, impegnato in ore di lavoro per la costruzione della casa che doveva essere la dimora comune, è stato senz’altro volontario da parte della D. (ed effettuato peraltro quando essa ancora non era convivente col M. , ma proprio in vista della instaurazione della futura convivenza).Esso però non è stato effettuato dalla donna in favore esclusivo del partner, per aiutarlo a costruire la sua casa, bensì è stato effettuato dalla donna in favore ed in vista della costruzione di un futuro comune, cioè per costruire un immobile che poi avrebbero goduto insieme, all’interno del loro rapporto, per consentire ad entrambi di coabitare in una casa che avevano progettato e costruito anche materialmente insieme, nell’ambito e per la realizzazione di un progetto comune. In ragione della proprietà esclusiva del terreno e dell’operatività del principio dell’accessione, quel conferimento è andato di fatto ad integrare un bene che è entrato, per le regole che disciplinano i modi di acquisto della proprietà, nella proprietà esclusiva dell’ex partner. Ciò non fa venir meno il fatto che la volontarietà del conferimento fosse indirizzata non al vantaggio esclusivo del partner, ma alla formazione e poi alla fruizione comune di un bene e non costituisse né una donazione né una attribuzione spontanea in favore del solo soggetto che se ne è giovato. Nel momento in cui lo stesso progetto dell’esistenza di un patrimonio e di beni comuni è venuto meno, perché si è sciolto il rapporto sentimentale tra i due ed è stato accantonato il progetto stesso di vita in comune, al convivente che non si è preventivamente tutelato in alcun modo non potrà essere riconosciuta la comproprietà del bene che ha collaborato a costruire con il suo apporto economico e lavorativo, ma avrà diritto a recuperare il denaro che ha versato e ad essere indennizzato per le energie lavorative impiegate volontariamente, per quella determinata finalità, in applicazione e nei limiti del principio dell’indebito arricchimento.
Pertanto, i contributi, in lavoro o in natura, volontariamente prestati dal partner di una relazione personale per la realizzazione della casa comunque non sono prestati a vantaggio esclusivo dell’altro partner e pertanto non sono sottratti alla operatività del principio della ripetizione di indebito.
Neppure è idoneo, al fine di escludere l’applicabilità della disciplina dell’art. 2041 c.c., il richiamo al principio delle obbligazioni naturali.
Premesso quanto sopra in relazione alla applicabilità della disciplina sull’ingiustificato arricchimento qualora le prestazioni siano state spontaneamente erogate non in favore esclusivo del partner ma in vista della realizzazione di un progetto comune, occorre poi verificare se all’applicabilità delle norme sull’ingiustificato arricchimento osti la disciplina delle obbligazioni naturali, o se nel caso di specie le somme (e le prestazioni lavorative) erogate non fossero ripetibili perché effettuate in adempimento di una obbligazione naturale.
La sentenza impugnata, come sopra sinteticamente indicato, esamina il problema e lo risolve escludendo che i conferimenti connessi alla realizzazione della casa fossero riconducibili nell’alveo delle obbligazioni naturali sulla base di due ordini di considerazioni: perché i due all’epoca erano solo fidanzati ma non ancora conviventi e quindi non formavano ancora una famiglia di fatto - pertanto non sussisteva alcuna obbligazione naturale in capo alla D. che giustificasse la non ripetibilità di quei conferimenti; perché si trattava di esborsi consistenti, che si collocavano oltre la soglia di proporzionalità ed adeguatezza rispetto ai mezzi di ciascuno dei partners. La motivazione giunge alla corretta conclusione di escludere che tali spontanee prestazioni siano irripetibili perché riconducibili nell’alveo delle obbligazioni naturali: si tratta di prestazioni esulanti dall’adempimento di obbligazioni inerenti al rapporto di convivenza.
In più, e questo profilo è ben colto dalla sentenza impugnata, i conferimenti in denaro e in lavoro per la costruzione della casa comune non sarebbero in ogni caso riconducibili alle obbligazioni naturali perché è stato accertato in fatto, dalla corte d’appello, che essi fossero ben superiori al normale tenore di vita della D. , operaia, proprio perché finalizzati non ad una liberalità e non al normale contributo alle spese ordinarie della convivenza, ma a realizzare quella che avrebbe dovuto essere la casa della coppia (i conferimenti effettuati si collocherebbero quindi comunque al di sopra della soglia che il giudice di merito deve individuare nel rispetto dei principi di proporzionalità ed adeguatezza, richiamati da ultimo da Cass. n. 1266 del 2016). Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 115 c.p.c., laddove la sentenza impugnata ritiene indimostrato l’accordo divisorio (in base alla contribuzione effettiva) del conto cointestato, dedotto da una pane, nonostante l’altra non l’avesse mai contestato (il motivo è relativo quindi all’accoglimento della domanda di restituzione del 50% delle somme esistenti sul conto corrente comune). Sostiene che, a fronte della mancata contestazione da parte della D. dell’esistenza di un preventivo accordo di divisione delle somme relative al conto cointestato, al quale le pani avrebbero dato spontanea attuazione, dedotto dal M. , la Corte d’appello avrebbe dovuto rigettare la domanda di (ulteriore) divisione delle somme che erano residuate sul conto nel momento della cessazione della convivenza.
Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione degli ara. 1101 e 1114 c.c., laddove la sentenza impugnata assegna, in sede di divisione, a ciascun comunista metà dei beni in comunione nonostante la parte attrice avesse riconosciuto di aver conferito in comunione beni in misura inferiore alla metà.
Sostiene che, poiché il M. versava mensilmente sul c/c l’importo di 2.400.000 lire, mentre la D. versava 1.600.000, il primo conferiva in comunione denaro nella misura del 60%, mentre la seconda del 40%, e che pertanto nel rispetto di tale proporzione tra i due dovesse essere eventualmente diviso il residuo.
Il terzo ed il quarto motivo possono essere esaminati congiuntamente, in quanto pongono in discussione sotto differenti profili la decisione sul punto in cui ha disposto l’attribuzione alla ex convivente del 50 % delle somme esistenti sul conto cointestato.
Essi sono entrambi inammissibili.
Il terzo motivo è inammissibile in primo luogo perché è volto ad introdurre una questione nuova, in quanto nella sentenza impugnata non si fa alcuna menzione di un precedente accordo volto alla spartizione del denaro e dei titoli sui conti cointestati, a seguito del quale la D. avrebbe rinunciato ad ogni pretesa sul conto cointestato. Inoltre, tende ad una rinnovazione del giudizio in fatto per arrivare ad una diversa ripartizione degli importi depositati sul conto comune.
Anche il quarto motivo è inammissibile.
In caso di conto corrente cointestato tra due conviventi di fatto, si presume che entrambi abbiano contribuito a determinare l’ammontare del deposito in parti uguali, per cui, dal momento dello scioglimento della convivenza ciascuno dei partner ha diritto all’attribuzione del 50% della somme presenti sul conto, se l’altra parte non dimostri una diversa misura dei conferimenti (in applicazione ai rapporti tra ex conviventi del principio consolidato sulla presunzione di parità in caso di cointestazione del rapporto di conto corrente, enunciato da ultimo da Cass. n. 77 del 2018, e prima da Cass. n.4066 del 2009, secondo il quale nel conto corrente bancario intestato a due (o più) persone, i rapporti interni tra correntisti non sono regolati dall’art. 1854 c.c., riguardante i rapporti con la banca, bensì dall’art. 1298, comma 2, c.c. in base al quale debito e credito solidale si dividono in quote uguali, solo se non risulti diversamente).
La corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio sopra indicato, relativo alle norme sulla comunione e sui rapporti interni tra obbligati solidali per regolare la sorte degli importi residuati sul conto corrente comune al momento dello scioglimento della convivenza, accertando quale fosse l’importo residuo e disponendo che il 50% di esso, che quantifica, debba essere restituito alla D. . Essa ha applicato la presunzione che gli apporti di entrambe le parti fossero equivalenti, e non contiene alcun accertamento sulla misura dei conferimenti di ciascuno, che evidentemente non era stato inserito nel thema decidendum né era stato oggetto di prova: esso costituisce questione nuova, ed in ogni caso non sarebbe possibile procedere ad un nuovo accertamento in fatto sul punto.
Il ricorso va complessivamente rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo.
Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e il ricorrente risulta soccombente, pertanto egli è gravato dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dell’ art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Pone a carico del ricorrente le spese di giudizio sostenute dalla parte controricorrente, che liquida in complessivi Euro 4.500,00 oltre 200,00 per esborsi, oltre contributo spese generali ed accessori.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.