Il nuovo art. 72 quater L.F. sembra abbia escluso la possibilità di ricondurre ad equità i contratti di leasing (traslativo) che non siano giunti a buon fine fino al riscatto del bene.    

Infatti, l'art. 72 quater L.F. prescrive che: "In caso di scioglimento del contratto, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a versare alla curatela l'eventuale differenza fra la maggiore somma ricavata dalla vendita o da altra collocazione del bene stesso avvenute a valori di mercato rispetto al credito residuo in linea capitale; per le somme già riscosse si applica l'articolo 67, terzo comma, lettera a)."     

Tale norma così come appare dal suo testo letterale, sembra aver mandato in soffitta il vecchio criterio fissato dall'art. 1526 c.c. che dava la possibilità all'utilizzatore (fallito o meno) di poter richiedere, all'esito della restituzione del bene alla società di leasing, la restituzione dei canoni versati, spesso rilevanti e coprenti a volte quasi l'intero corrispettivo inizialmente fissato o comunque una parte rilevante dello stesso, detratto l'equo compenso da determinarsi giudizialmente.

Ebbene, il presupposto fondamentale da cui occorre muovere per verificare la sostanziale vigenza o meno della norma dell'art. 1526 c.c. (in caso di fallimento) è quello che ha ispirato la giurisprudenza formatasi nel corso degli anni che ha sempre perseguito la finalità di riequilibrare le prestazioni delle parti contraenti.

Il punto nodale di tutte le controversie tra società di leasing e utilizzatori (o Curatele in caso di fallimento) era infatti quello che non poteva ritenersi ammissibile che la società di leasing ritornasse in possesso di un bene che aveva indubbio valore al termine del contratto ben superiore al mero prezzo di opzione (e nel caso degli immobili spesso il valore aumenta rispetto a quello di acquisto) e trattenesse anche le somme pagate con guadagno ampiamente superiore a quello inizialmente convenuto.

Da qui la necessità di riequilibrio delle prestazioni riconducendo il contratto ad equità.

La Suprema Corte a Sezioni Unite già nel lontano 1993 (sentenza n. 65 del 7/1/93), verificando la legittimità della clausola, com’è quella contenuta nel contratto che ci occupa conferente alla società di leasing la possibilità di ritenere le rate pagate, oltre alla risoluzione del contratto comportante la restituzione del bene, avevano parlato nei casi di leasing. c.d. traslativo, di necessità di un “meccanismo riequilibratore delle prestazioni”.

La dottrina[1] e la stessa giurisprudenza della Suprema Corte (v., in particolare, le sentenze nn. 5569 e 5572 del 1989) hanno evidenziato all’uopo che il Giudice ha vari strumenti giuridici per evitare squilibri nelle posizioni delle parti (ad es., la riduzione giudiziale, a norma dell'art. 1384 C.C., della penale prevista per l'ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimento dell'utilizzatore, ecc.). Anche la giurisprudenza di merito sopravvenuta (Tribunale Monza, 07/12/2004; T. Milano 11/10/2001), richiamando la giurisprudenza della Suprema Corte, ha considerato la necessità dell’intervento giudiziale quale “riequilibratore delle prestazioni” diretto in particolare alla riduzione dell’indennità secondo le circostanze dello svolgimento del rapporto.

Per far ciò, la giurisprudenza (Cass. n. 65 del 7/1/93) ha “riconosciuto alla norma imperativa dell'art. 1526 il valore di principio generale di tutela di interessi omogenei a quelli disciplinati dal leasing "traslativo" nonché di strumento di controllo dell'autonomia negoziale delle parti”. Tale impostazione, di ritenere quindi l’art. 1526 c.c. norma imperativa, è stata poi seguita dalla giurisprudenza di merito (Tribunale Milano, 22/11/2007 in Banca borsa tit. cred. 2009, 2, 222; Tribunale Milano, sez. II, 26/10/2007, n. 11697 in Giustizia a Milano 2007, 12, 83; T. Torino, sez. III, 11/12/02 in Giur. merito 2003, 1427; Corte appello Milano, 23/09/1986 in Nuova giur. civ. commentata 1987, I,181; Tribunale Torino, 15/12/1983 in Riv. it. leasing 1985, 189).

Lo scopo di tale ricostruzione è sempre stato quello di evitare in definitiva un ingiustificato arricchimento di una parte a danno dell’altra, tanto perché l’art. 1526 c.c. è sempre stato inteso come norma che “viene ad assumere il ruolo di clausola generale per tutti i contratti di scambio allo scopo di evitare l'indebito arricchimento di una delle parti” (v. Corte appello Torino, 29/05/1987 in Foro padano 1988, I,417; Tribunale Verona, 15/04/1987 in Foro padano 1989, I,71; Corte appello Milano, 23/09/1986 in Giust. civ. 1987, I,664).

Tale impostazione, quella cioè di ritenere l’art. 1526 c.c. come norma imperativa, impone quindi di ritenere, ex art. 1419 c.c., nulle o comunque sostituibili ex art. 1339 c.c. da norme imperative, le  disposizioni contrattuali derogatrici o comunque contrastanti con la predetta norma imperativa.

E’ da ritenersi, quindi, nulla la clausola contrattuale (normalmente contenuta nei contratti di Leasing) che consente alla società di leasing di poter trattenere le rate pagate in caso di risoluzione contrattuale che, in ogni caso è avvenuta con la sentenza di fallimento.

Non può, dunque, anche nella sopravvenienza dell'art. 72 quater L.F. ritenersi che l’Ordinamento possa consentire che una parte - la società di leasing - possa legittimamente trattenere rilevanti somme già versate dal fallito e poi anche giovarsi del valore del bene che, specie in materia di leasing immobiliare, non ha certo perso il suo valore nel corso degli anni.

Tale finalità di riequilibrio delle prestazioni non può trovare ostacolo, a parere del sottoscritto, nella mera inapplicabilità dell’art. 72 quater della nuova legge fallimentare per carenza del formale presupposto della risoluzione del contratto e nella ritenuta inapplicabilità dell’art. 1526 c.c. che sarebbe stato superato dalla nuova disciplina della materia legislativamente introdotta dall’art. 59 del D. Lgs. 9/1/06 n. 5 col citato art. 72 quater L.F. che, perchè l’Ordinamento non può aver abdicato dal proprio potere riequilibratore delle prestazioni e che la norma imperativa dell’art. 1526 c.c. abbia perso la sua forza cogente, dando quindi la possibilità ad un contraente forte (società di leasing che ha imposto le clausole contrattuali) di poter ottenere un vantaggio economico qualificabile senza alcun dubbio come arricchimento ingiustificato. 

A questo punto, però occorre fare un breve passo indietro, per comprendere come si possa pervenire a tale soluzione           

Il leasing viene tradizionalmente definito come contratto atipico nel quale un parte (locatore) concede all’altra (locatario) il godimento di un bene per un periodo di tempo contrattualmente determinato dietro pagamento di un canone; alla scadenza il locatario può decidere se restituire la cosa, la cui proprietà rimane sempre in capo al locatore, ovvero acquistarla per un prezzo predeterminato. Dall’esame di tale prezzo di opzione può dedursi se esso rappresenta il mero valore del bene al termine del contratto, ovvero se rappresenti una parte meramente finanziaria della intera operazione.

Non essendo tale particolare forma di contratto, nato principalmente per finalità fiscali od agevolative consentendo alla parte che voleva dotarsi di beni necessari alla propria attività lavorativa di spalmare il costo nel tempo concordato e detrarsi gli interessi pagati, espressamente regolata dal codice civile, dottrina e giurisprudenza hanno dovuto trovarne una collocazione giuridico sistematica. Si è quindi parlato di vendita con riserva di proprietà, di contratto di locazione, di mutuo partendo nella causa del contratto per pervenire, sulla base della volontà dei contraenti, all’applicazione della normativa di riferimento, di contratto misto, di vendita d’uso.

La legge che per prima ha trattato del leasing è stata la n. 183 del 2/5/1976 (Disciplina dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno), il cui art. 17, comma 2, così disponeva: “Per operazioni di locazione finanziaria si intendono le operazioni di locazione di beni mobili e immobili, acquistati o fatti costruire dal locatore, su scelta e indicazione del conduttore, che ne assume tutti i rischi, e con facoltà per quest'ultimo di divenire proprietario dei beni locati al termine della locazione, dietro versamento di un prezzo prestabilito”. Altri riferimenti al leasing si rinvengono nella normativa in materia di trasparenza bancaria (D.M. Tesoro 24/4/92 che all’art. 1 disponeva l’applicazione della legge n. 154 del 17/2/92 al leasing finanziario non meglio definito). Una parzialedefinizione la si rileva nel Comunicato della Banca d'Italia dell’8/1/2003 (in Gazz. Uff., 8 gennaio, n. 5- Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull'usura) che parla di “finanziamenti realizzati con contratti di locazione di beni materiali (mobili e immobili) o immateriali (ad es. software), acquisiti o fatti costruire dal locatore su scelta e indicazione del conduttore che ne assume tutti i rischi e con facoltà di quest'ultimo di divenire proprietario dei beni locati al termine della locazione, dietro versamento di un prezzo prestabilito”, che sembra inquadrare la fattispecie nell’ambito della locazione.

Resta comunque il fatto che nessuna disposizione di legge ha tipizzato il contratto di leasing che, quindi, non può che essere atipico, dato che un contratto nominato o tipico è solo quello nel quale il Legislatore abbia dettato una disciplina organica e complessiva: tale disciplina, tuttavia, anche col sopravvenire della modifica agli artt. 72 e ss. L.F. manca totalmente.

Non si tratta infatti di mera locazione, perché il locatore non assume spese né ordinarie né straordinarie né garantisce la cosa contro i vizi che possano renderne impossibile il godimento, né poi è giustificabile nella locazione lo schema secondo cui la scelta di acquisire la proprietà è demandata unicamente all’utilizzatore, al termine del contratto, che può decidere se pagare il prezzo di opzione diventando quindi proprietario, o meno. Per tale identica ragione non può parlarsi di mutuo (dove la cosa è ab initio di proprietà dell’utilizzatore) e nemmeno di vendita d’uso, perché se l’utilizzatore non vuole avvalersi dell’opzione non vi è alcuna vendita.

Resta, quindi, solo l’analogia con la vendita con riserva di proprietà, dato che sia il leasing che la vendita con riserva di proprietà sono caratterizzati da una funzione di finanziamento, dal fatto che i canoni incorporano parte del prezzo, dal fatto che il locatore mantiene la proprietà del bene non solo a fini di garanzia (che avrebbe potuto anche essere di tipo reale specie nel leasing immobiliare od in quello dei beni mobili registrati). A tale impostazione consegue l’applicazione della norma di riequilibrio delle prestazioni, contenuta appunto nel capo relativo alle vendite con riserva di proprietà, costituita dall’art. 1526 c.c., ritenuta norma imperativa.

A tale risultato, tuttavia, non si è pervenuti immediatamente.

Infatti, nel 1983 (sent. N. 6390) e successivamente nel 1986 (sent. N. 3023) la Suprema Corte, finalmente investita del problema, afferma che: “Il leasing finanziario si propone, dunque, in termini reali, come una forma tecnica di finanziamento delle imprese, la quale si mostra, da un lato, particolarmente vantaggiosa per l'installazione e la utilizzazione di macchinari di notevole valore, in quanto consente una congrua rateizzazione degli oneri relativi, parallela ai ratei di ammortamento, e consente, altresì, di superare le difficoltà del ricorso ai tradizionali canali del credito; e, dall'altro, si mostra capace di realizzare modi di impiego del capitale e non a lungo termine e con garanzie adeguate ed obiettive. Alla scadenza del contratto, l'utilizzazione potrà, di regola, scegliere (come nella specie) tra l'acquisto del bene, per un importo predeterminato, la proroga della locazione, per un canone notevolmente ridotto, e la restituzione del bene utilizzato. In questo quadro, appare esatta la definizione resa da questa Corte con sentenza n. 6390-83, nel senso che il leasing finanziario integra un contratto atipico avente ad oggetto il trasferimento della disponibilità di un bene per un periodo di tempo determinato, dietro il corrispettivo di un canone periodico fissato in relazione al recupero del prezzo del bene ed al conseguimento di un utile adeguato, e tendente ad esaurire le proprie finalità produttive e finanziarie nell'ambito di quel periodo di tempo, la cui scadenza è caratterizzata dal quasi totale venir meno della utilità economica della cosa utilizzata. Il leasing finanziario si atteggia, quindi, a figura contrattuale innominata, caratterizzata da una sua autonoma identità causale, cioè qualificata da uno schema funzionale dotato di individualità e di finalizzazione proprie”. Tale impostazione, tuttavia, portò ad escludere l’applicabilità della normativa della vendita con riserva della proprietà (e quindi anche dell’art. 1526 c.c.) ritenendosi solo applicabile la disciplina generale prevista dagli artt. 1322 e ss. c.c., con la affermazione della massima autonomia delle parti nella realizzazione del risultato voluto purché siano realizzati “interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”, secondo la testuale diposizione dell’art. 1322 c.c. La stessa sentenza applicava al leasing l’art. 1458 c.c. disponente, per i contratti di durata, la inoperatività degli effetti della risoluzione per le prestazioni già eseguite che, dunque, potevano legittimamente restare nel patrimonio del concedente.

Già in quel periodo, però, la dottrina (Panzani - Fallimento ed altre procedure concorsuali, 1986) evidenziava come occorresse rivalutare la questione nell’ambito dell’art. 1526 c.c. costituente “espressione di un principio generale di equità volto ad evitare un indebito arricchimento del venditore in caso di inadempimento dell’acquirente. Se infatti in caso di risoluzione del contrato di leasing il concedente conservasse, in ogni caso, la proprietà del bene, nonché il diritto ai canoni, quale restituzione del finanziamento erogato, significherebbe attribuire a questi più di quanto otterrebbe in caso di regolare adempimento. Infatti, finirebbe per avere sia i canoni, sia il bene che, seppure deprezzato per l’utilizzazione avvenuta, avrà, se durevole, un valore residuale rilevante. Il giusto compenso per il venditore rimesso dall’art. 1526 c.c. alla valutazione del giudice consente, invece, di tener conto del valore residuo del bene secondo esigenze equitative, evitando l’acquisizione a titolo di risarcimento di utili che eccedono l’ammontare del danno anche in base a criteri di calcolo del corrispettivo contrattuale stabiliti dalle parti” (v. anche Leasing finanziario: profili contabili, fiscali e gestionali ... Di Massimiliano Bonacchi,Mascia Ferrari - Ipsoa 2007).

Si giunge quindi alla sentenza n. 5569/89 con la quale la Suprema Corte, senza rinnegare i principi espressi dalla giurisprudenza pregressa in relazione alla atipicità del contratto di leasing, focalizza la sua attenzione sulla distinzione tra un leasing che preveda l’ipotesi di un bene che alla scadenza del contratto abbia un valore apprezzabile superiore al mero prezzo di opzione concordato da un bene che non abbia più tale valore. Nasce così la dicotomia tra “leasing di godimento” dove è preminente la funzione di finanziamento a scopo di godimento del bene e nella quale i canoni assolvano ad una funzione di mero corrispettivo per il mero godimento del bene e, pertanto, essendo stati versati per tale bene che alla scadenza non ha più un apprezzabile valore, possono essere legittimamente trattenuti dal concedente soggiacendo alla regola dell’art. 1458 c.c. trattandosi di mera attuazione di un piano finanziario che costituisce il corrispettivo del concedente, con il “leasing traslativo”. I caratteri di tale ultima figura sono innanzitutto quelli di un bene che ha una capacità di fornire utilità alla scadenza del contratto ben superiore al prezzo di opzione e, per tale motivo, il canone relativo non è espressione di un mero utilizzo incorporando anche una quota del capitale che poi resterà all’utilizzatore (od al concedente in caso di inadempimento) quale quota di pagamento anticipato. Va quindi valutata l’intenzione perseguita dalle parti sicché ogni qualvolta lo scopo delle parti è quello di “soddisfare l’interesse del futuro utilizzatore ad acquisire la disponibilità della cosa” (così Cass. 27/7/06 n. 17145), non può che parlarsi di finalità traslativa nella quale il concedente non può trattenere integralmente i canoni versati ex art. 1458 c.c. perché essi non comprendono solo la quota destinata al godimento, ma anche il costo del bene che alla scadenza del contratto è stato sostanzialmente già in parte pagato.

La giurisprudenza successiva ha poi massivamente confermato tale orientamento divenuto praticamente incontroverso[2], lasciando al Giudice di merito unicamente il compito di esaminare i dati di fatto per valutare se fosse preminente la volontà di godimento o meno: ogni qual volta la finalità di mero godimento fosse esclusa, pacifica è stata l’applicazione dell’art. 1526 c.c.(v. ad esempio Cass. 28/11/2003 n. 18229; 3/9/2003 n. 12823; 24/6/02 n. 9161; 8/1/10 n. 73) con il dichiarato obbligo di restituire i canoni salvo l’equo compenso.

Tale considerazione è ancor più pregnante nel leasing immobiliare dove appare pacifico che i contraenti sono interessati al trasferimento della proprietà del bene essendo il prezzo di riscatto assolutamente irrisorio in relazione al valore del bene, comprendendo lo stesso solo una residua quota capitale dovuta, già scontata in gran parte nelle rate periodiche. E’, quindi, la tipica figura nella quale è indubbio che lo  scopo  dell’utilizzatore, ben noto al concedente,è quello  di  procurarsi  il  bene  corrispondendo  dei canoni periodici che hanno valore di ratei in conto prezzo.

Anzi, nel caso di leasing immobiliare è stato efficacemente sostenuto (v. in proposito Cassazione civile, sez. III 19/07/1997 n. 6663) che “il leasing traslativo, pur nella identità letterale delle standardizzate clausole negoziali, è caratterizzato da elementi oggettivi e soggettivi tali da eliminare la libertà di scelta finale per l'imprenditore circa l'acquisto del bene al prezzo di opzione, nel senso di rendere tale soluzione come l'unica economicamente ragionevole per l'utilizzatore sin dalla conclusione del contratto, "per dare corrispettività alla quota di prezzo già corrisposta senza riceverne corrispondenti utilità". Ed ha indicato tali elementi (a) nella natura del bene oggetto del contratto, tale da consentire ab origine la previsione della persistenza della capacità di fornire utilità, e comunque un valore di mercato, apprezzabilmente superiori al marginale prezzo di opzione al termine del rapporto e (b) nella durata del contratto, sensibilmente inferiore alla prevedibile durata della consumazione economica del bene. In presenza di entrambe tali situazioni i canoni rateali non rappresentano più il mero corrispettivo dell'utilizzazione del bene (pur tenendo conto dell'incidenza degli interessi finanziari e degli utili per la società di leasing), ma "per la mancata coincidenza tra entità del canone ed entità di consumazione economica del bene nel periodo"; necessariamente incorporano parte del prezzo del bene stesso”.     

Tale soluzione deve ritenersi ormai pacifica nell’ordinamento ed in tutte le forme di leasing immobiliare. Infatti, anche in quello pubblico previsto dall’art. 160 bis del codice degli appalti (D. Lgs. 12/4/06 n. 163) la giurisprudenza amministrativa (v. T.A.R. Lombardia Brescia, sez. II 05/05/2010 n. 1675 ritiene il leasing immobiliare pacificamente rientrante nella categoria del “leasing traslativo”) è evidenziato che tale contratto “realizza l’obiettivo di incrementare stabilmente il patrimonio dell’amministrazione. Nel caso di leasing "in costruendo" peraltro appare vincolata la scelta finale dell’acquisto del bene al prezzo di opzione, come soluzione ragionevole sin dalla conclusione del contratto: sarebbe illogico ed antieconomico per la pubblica amministrazione sottrarsi al riscatto finale, trattandosi di un prezzo irrisorio rispetto a quanto già versato con periodicità”. Non solo, ma anche nei profili tributari Cass., sez. trib., 26/3/10 n. 7332, ha ritenuto che “la base imponibile di un immobile industriale, acquistato mediante esercizio dell'opzione finale di acquisto prevista da un contratto di leasing traslativo e non censito in catasto, va determinata, ai sensi dell'art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 504 del 1992, in relazione al valore del bene desunto dal contratto di locazione finanziaria”, così respingendo “il ricorso del contribuente che riteneva, invece, che la predetta base imponibile fosse costituita dal solo prezzo di riscatto”.
E' ovvio che l'opertatore nel caso concreto dovrà verificare se il contratto sia cessato o meno alla data di fallimento, perchè solo se il contratto sia cessato è possibile addivenire alla soluzione di ritenere ancora applicabile il criterio dell'art. 1526 c.c.        

In proposito la dottrina (v. la monografia “Fallimento e contratto di leasing finanziario di A. Martini e Daniela Di Pauli pubblicata su
www.odcec.pn.it/ ) ha evidenziato che: “Secondo parte della dottrina[3] e le prime indicazioni ai curatori di alcune sezioni fallimentari[4] – in forza di quanto disposto dal quinto comma dell’art. 72 l.f. - la disciplina delle sorti del contratto di leasing - introdotta con l’art. 72-quater – ha di fatto creato uno “spartiacque”. Detta disciplina risulterebbe infatti applicabile solo in presenza di un contratto di locazione finanziaria pendente alla data di dichiarazione di fallimento mentre, in presenza di risoluzione già avvenuta o già avviata a tale data, le sorti del contratto verrebbero disciplinate – in via analogica - tenendo in considerazione la distinzione effettuata dalla Corte di Cassazione tra leasing di godimento e leasing traslativo, con conseguente ricorso, in presenza di quest’ultima tipologia, a quanto previsto dall’art. 1526 c.c. in materia di vendita con riserva di proprietà[5].”    

La richiamata circolare del Tribunale di Udine afferma infatti che “Nel caso di risoluzione già avvenuta o già avviata, prima del fallimento (art. 72, 5° co. L. fall., che riconosce l’efficacia dell’azione di risoluzione già avviata nei confronti del Curatore), tornerà invece, come in passato applicabile la distinzione tra leasing traslativo e leasing di godimento e la disciplina di cui all’art. 1526, con restituzione dei canoni versati dedotto l’equo compenso”      

Ma quando deve ritenersi cessato il contratto: nella monografia dottrinale citata
(INZITARI B., “Nuove riflessioni in tema di leasing nella disciplina dei rapporti pendenti della novella fallimentare (art. 72 quater legge fallimentare)”) si afferma in particolare che “il contratto di leasing deve essere considerato pendente ai fini dell’applicazione dell’art. 72 L.F. finchè l’utilizzatore non abbia esercitato il diritto di riscatto del bene ovvero non abbia rinunziato a tale opzione”. Sostanzialmente, quindi, secondo l’Autore la dichiarazione di fallimento è di per sé neutra al pari del mero inadempimento dell’utilizzatore perché è solo l’esercizio del diritto di opzione o la sua rinunzia che segna la fine della “pendenza.

Un altro dotto e completo contributo dottrinario (Fichera- Consiglio Superiore della Magistratura - Ufficio del Referente per la formazione decentrata della Corte d’Appello di Catania - Catania, 9/2/07 - “La riforma fallimentare: i rapporti giuridici pendenti”), invece, pone l’accento, nell’ambito dei rapporti pendenti, sul dato testuale dell’art. 72 per il quale è rapporto pendente quello “ancora ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti”           

Ritengo, tuttavia, che anche tale problematica sia superabile, posto il diverso piano sistematico in cui operano l’art. 1526 c.c. e l’art. 72 quater L.F. l’una, peraltro, norma imperativa e l’altra norma speciale.

Tale ultima norma, infatti, a ben vedere, se è vero che ha di fatto abolito la distinzione del contratto di leasing formulata dalla giurisprudenza di legittimità, distinta tra leasing di godimento e leasing traslativo, è anche vero che non ha in alcun modo (né poteva data la sua collocazione sistematica) regolamentato l’intera materia. In tal modo, quindi, essa non si è posta su livello e rango uguale a quello di una norma imperativa (art. 1526 c.c.) che deve ritenersi già aver sostituito di diritto ex art. 1339 e 1419 c.c. la clausola del contratto di leasing concedente alla società di Leasing la possibilità di trattenere le rate pagate.           

E’ da ritenersi, infatti, che la ratio del riequilibrio delle prestazioni non sia stata abbandonata dal Legislatore della novella fallimentare che ha previsto che in caso di scioglimento del contratto il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a versare alla curatela l'eventuale differenza fra la maggiore somma ricavata dalla vendita o da altra allocazione del bene stesso rispetto al credito residuo in linea capitale. Ha anche previsto che per le somme già riscosse si applica l'art. 67, comma 3, lett. a), vale a dire ne è esclusa la revocabilità e che il concedente ha diritto di insinuarsi nello stato passivo per la differenza del credito vantato alla data del fallimento e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene. 

Questo è solo un meccanismo di riequilibrio, non un abbandono del principio od una riformulazione della fattispecie!           

Ritengo, quindi, che l’art. 1526 c.c. sia sempre e comunque applicabile perché incide su un piano differente: l’impossibilità per la società di leasing di trattenere le rate percette, per la violazione dell’art. 1419 c.c. che ancor prima della dichiarazione di fallimento ha già svolto i suoi effetti di sostituzione automatica ex art. 1339 c.c..

Tanto, naturalmente, porta all’effetto pratico di poter richiedere comunque la restituzione delle rate pagate alla società di leasing che ricevendosi in restituzione il bene può trattenere il suo “guadagno” ma non certo tutto quanto gli è stato versato, essendo al “guadagno” appunto commisurato l’equo compenso.

Se invece la Curatela ha interesse, nell’ambito delle possibilità offertegli dall’art. 72 L.F., a subentrare nel contratto ovvero ritiene più conveniente l’ammissione di un credito con le forme disciplinate dall’art. 72 quater L.F., deve essere dato spazio a tanto.

In buona sostanza, la Curatela deve adeguatamente valutare, nell’ambito del caso concreto, quale sia l’interesse della massa e quali siano le sue possibilità realizzative perché la facoltà di richiedere la restituzione delle rate versate con le modalità previste dall’art. 1526 c.c. non è definitivamente tramontata.

                                                                                  Avv. Lucio A. de Benedictis







[1] VIOLA: Studi Studi monografici di diritto civile. Percorsi ragionati sulle problematiche ; Leasing e factoring Di Marco Albanese,Marco Albanese - Andrea Zeroli; Codice civile annotato con la giurisprudenza di Augusto Baldassari: commento all’art. 1526 c.c.; Leasing finanziario: profili contabili, fiscali e gestionali ...  Di Massimiliano Bonacchi,Mascia Ferrari  
[2] Pur se ancora con qualche opinione contraria, come ad es. T. Milano 22/11/07 (in Banca borsa tit. cred. 2009, 2 222) che però pur non condividendo la dicotomia “leasing traslativo” e “leasing di godimento” ritiene comunque nulla la clausola dei contratti di leasing che autorizza la concedente a trattenere in caso di risoluzione i canoni riscossi  per violazione di norma imperativa statuendo che “risulta contraria a norma imperativa la clausola che prevede il diritto del concedente di trattenere i canoni già riscossi

[3] INZITARI B., “Nuove riflessioni in tema di leasing nella disciplina dei rapporti pendenti della novella fallimentare (art. 72 quater legge fallimentare)” in www.ilcaso.it – documento nr. 46.

[4] Tribunale di Udine “Circolare concernente i criteri di massima da adottare per la gestione delle procedure concorsuali, disciplinate dalla legge fallimentare come novellata dal d. lgs. 9.01.2006, n. 5 e dal d. lgs. 12.09.2007, n. 169” del 21.02.2008” che è riportata anche nei siti di altri Tribunali come quello di Milano e Macerata ad es..

[5] Rif. Cass. 2.3.2007 nr. 4969, Cass. 14.11.2006 n. 24214, Cass. 13.1.2005 n. 574, Cass. 28.11.2003 n. 18229, Cass. 3.9.2003 n. 12823).