Un atto di “frode”, rilevante ai sensi dell’art. 173 L.F. può essere ritenuto qualsiasi comportamento volontario del debitore idoneo a pregiudicare le aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio.
Ebbene, posta la natura contrattuale del concordato preventivo: qual è il controllo che il Tribunale deve compiere? Va solo verificata l’idoneità della documentazione prodotta dal debitore a corrispondere alla funzione che le è propria, cioè fornire elementi di giudizio ai creditori, oppure è necessario verificare i singoli comportamenti?
Ebbene: la giurisprudenza di merito in materia di atti di frode rilevanti ex art. 173 L.F. ha evidenziato che: “La scoperta di eventuali atti di frode compiuti dal debitore prima del deposito della domanda di concordato impedisce l'apertura del concordato stesso e, se scoperti successivamente, ne determina la revoca ai sensi dell'art.173 L.F. o il diniego dell'omologa ai sensi dell'art. 180 L.F.” (T. Monza 4/11/14 in Fallimento, 2015, 5, 616); ancora “Il primo comma dell'art. 173, R.D. n. 267/1942 (legge fallimentare), si applica soltanto a condotte tenute nella fase antecedente all'emanazione del decreto di ammissione a concordato preventivo, dovendosi trattare di atti di frode posti in essere al fine esclusivo di ottenere l'approvazione e l'omologazione del concordato” (App. L’Aquila 10/10/12 in Fallimento, 2012, 12, 1479). Ancora: “per atti di frode (art. 173, legge fallimentare) debbono intendersi tutti gli atti diretti a causare o aggravare il dissesto, ossia atti che comportino accrescimento del passivo o diminuzione dell’attivo, senza alcuna giustificazione attinente all’attività imprenditoriale esercitata, compiuti dal debitore con la consapevolezza di arrecare pregiudizio ai creditori, riducendo le loro possibilità di soddisfacimento” (Trib. Roma, 20 aprile 2010, in www.ilcaso.it). Ancora: “… l’abolizione, ai fini della ammissione al concordato preventivo, del requisito della meritevolezza dell'imprenditore non comporta l'abrogazione implicita dell'art. 173 l.f., né, dunque, l'indifferenza della vicenda concordataria di fronte a violazioni del dovere di correttezza così gravi come quelle delineate dalla norma in discorso. Tale disposizione costituisce, infatti, un’applicazione del principio della buona fede che deve costituire il modello di comportamento del debitore nell'adempimento delle obbligazioni e che trova fondamento costituzionale negli inderogabili doveri di solidarietà sociale tutelati dall'art. 2 della Costituzione. Tale conclusione trova conferma nel fatto che il Legislatore, una volta introdotta la riforma del 2005, non ha poi espunto la norma dal sistema concorsuale in occasione della novella organica del 2006, sicché si deve presumere che la permanenza di tale disposizione sia frutto di una precisa scelta che preclude ogni interpretazione volta ad affermarne l’abrogazione implicita” (Tribunale di Milano 19/7/2007 in Il caso.it, 2007).
Da ultimo anche Cass. 26 giugno 2014, n. 14552 ha precisato: “La rilevanza, ai fini e per gli effetti di cui all’articolo 173 LF, della natura fraudolenta degli atti posti in essere dal debitore e potenzialmente decettivi nei riguardi dei creditori, è ravvisabile anche nell’ipotesi in cui l’inganno effettivamente realizzato sia stato reso noto ai creditori prima del voto. Se, infatti, così non fosse, se cioè l’accertamento degli atti fraudolenti ad opera del commissario potesse essere superato dal voto dei creditori che, informati della frode, siano ugualmente disposti ad approvare la proposta concordataria, non si capirebbe perché il legislatore ricollega, invece, immediatamente alla scoperta degli atti in frode il potere-dovere del giudice di revocare l’ammissione al concordato e ciò senza la necessità di alcuna presa di posizione sul punto da parte dei creditori. Questo significa che IL LEGISLATORE HA INTESO SBARRARE LA VIA DEL CONCORDATO AL DEBITORE IL QUALE ABBIA POSTO DOLOSAMENTE IN ESSERE GLI ATTI CONTEMPLATI DAL CITATO ARTICOLO 173, INDIVIDUANDO IN ESSI UNA RAGIONE DI RADICALE NON AFFIDABILITÀ DEL DEBITORE MEDESIMO E, QUINDI, NEL LORO ACCERTAMENTO, UN OSTACOLO OBIETTIVO ED INSUPERABILE ALLA PROSECUZIONE DELLA PROCEDURA” (Cass. sez. I 26 giugno 2014, n. 14552)
Ancora la stessa sentenza prosegue affermando che “L’accertamento, ad opera del commissario giudiziale, di atti di occultamento o dissimulazione dell’attivo, della dolosa omissione della denuncia di uno o più creditori, dell’esposizione di passività insussistenti o della commissione di altri atti di frode da parte del debitore, determina la revoca dell’ammissione al concordato, a norma dell’articolo 173 L.F., indipendentemente dal voto espresso dai creditori in adunanza e quindi anche nell’ipotesi in cui i creditori medesimi siano stati resi edotti di quell’accertamento” Ancora prosegue precisando che “Il fatto che l’accertamento da parte del commissario di atti di frode possa determinare la revoca dell’ammissione al concordato preventivo, a norma dell’articolo 173 L.F., indipendentemente dalla circostanza che i creditori, debitamente informati di tali atti di frode, abbiano espresso voto favorevole, non vale ad reintrodurre il giudizio di meritevolezza che la riforma della legge fallimentare ha espunto dal novero dei presupposti per l’ammissione al concordato preventivo. La meritevolezza era, infatti, un requisito positivo di carattere generale, che implicava la necessità di un apprezzamento favorevole della pregressa condotta dell’imprenditore (sfortunato, ma onesto), nell’ottica di una procedura prevalentemente concepita come beneficio premiale. Era, quindi, nozione ben più ampia dell’assenza di atti di frode, non solo genericamente pregiudizievoli, ma che devono essere direttamente finalizzati, in esecuzione di un disegno preordinato, a trarre in inganno i creditori in vista dell’accesso alla procedura concordataria.
Da quanto sopra consegue da un lato che lo strumento concordatario non può essere usato in modo dissennato, al fine di coprire e “pulire” buchi di bilancio o peggio e, dall’altro, che pur essendo venuta meno la valutazione sulla “meritevolezza”, il Tribunale non solo può, ma DEVE essere rigoroso nella verifica di fatti che il Commissario Giudiziale od i creditori possano segnalare.
In mancanza l’esigenza di tutela sia delle imprese, che del ceto creditorio da parte dello Stato, perseguita nella normativa sul concordato, deve ritenersi irrealizzata.
Anzi, a parere del sottoscritto, ove si consentisse al Tribunale un mero ruolo “notarile” di mera verifica del raggiungimento delle maggioranze si avrebbe un vero e proprio abuso del diritto nel ricorso allo strumento concordatario.
In tale ottica anche la relazione del Professionista ha enorme rilevanza (e responsabilità di chi la sottoscrive) perché la mancanza di veridicità dei dati contabili o la eccessiva genericità inficia il consenso che i creditori andranno a dare o meno posto che “la veridicità dei dati non si identifica affatto con la fattibilità del piano di concordato, ma costituisce il presupposto indispensabile per consentire ai creditori di valutare sulla base di dati reali la convenienza della proposta e la stessa fattibilità economica del piano. In proposito, le Sezioni unite di questa Corte, con la sentenza del 23 gennaio 2013, n. 1521, hanno chiarito, quanto al sindacato espletabile dal Tribunale, che "rientra ... certamente, nell'ambito del detto controllo, una delibazione in ordine alla correttezza delle argomentazioni svolte e delle motivazioni addotte dal professionista a sostegno del formulato giudizio di fattibilità del piano", mentre non è possibile un sindacato in ordine alle stime effettuate dal professionista. Pertanto, il tribunale, "deputato a garantire il rispetto della legalità nello svolgimento della procedura, deve certamente esercitare sulla relazione del professionista attestatore un controllo concernente la congruità e la logicità della motivazione, anche sotto il profilo del collegamento effettivo fra i dati riscontrati ed il conseguente giudizio".”. (Cass. 31/1/14 n. 2130).