Nel nostro ordinamento giuridico, il sistema dei diritti fondamentali trova il proprio riconoscimento nell’art. 2 della Costituzione il quale recita: “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Tale articolo rappresenta la garanzia del primato della persona rispetto allo Stato, la consapevolezza che ogni essere umano abbia diritti innati, quindi inviolabili, inalienabili e imprescrittibili, che preesistono alla legge scritta e che attengono al diritto dell’uomo di alzarsi in piedi per recriminare i propri diritti responsabilizzandosi a favore della tutela e del rispetto della libertà dell’altro che si è incontrato/scontrato con la sua libertà (la libertà di un soggetto implica obblighi da parte dell’altro e viceversa) e che la Repubblica si impegna a salvaguardare.
 Alcune categorie di diritti che impongono tale rispetto e tale responsabilità sono state tipizzate nella Costituzione, altri no senza che ciò tuttavia significhi che non abbiano rilievo costituzionale; infatti i valori della persona insiti all’art. 2 Cost. non hanno soltanto una funzione di garanzia ma anche di sviluppo degli stessi, tanto che lo stato democratico, apre l’ordinamento ad altri valori non richiamati espressamente dalla costituzione trovando sostegno e al contempo un limite nella costituzione materiale e nelle forze politiche, sociali e culturali che la determinano. Tra i valori non espressamente menzionati, si rinviene il “diritto all’autodeterminazione”.
 Secondo il linguaggio filosofico, l’autodeterminismo rappresenta l’atto con cui l’uomo si determina secondo la propria legge, in opposizione a ‘determinismo’, che assume la dipendenza del volere dell’uomo da cause non in suo potere. Pertanto, l’autodeterminismo è l’espressione della libertà positiva dell’uomo e quindi della responsabilità e imputabilità di ogni suo volere e azione.
Tale diritto appare principio fondante della recentissima sentenza della Cassazione Civile n. 2183/2013 che involve aspetti importanti della tutela dei diritti dell’individuo, membro della famiglia,  rispetto alla comunità familiare stessa, e rappresenta un passaggio fondamentale rispetto alla giurisprudenza precedente che, invece, tutelava in maniera pregnante la “comunità familiare” fin tanto che non vi fosse un passaggio successivo ufficiale nel quale uno dei due coniugi ricorresse in giudizio per porre fine al rapporto matrimoniale sancendo il termine dell’affectio coniugalis
Infatti, la precedente giurisprudenza (cfr. Cass. civ. n. 2059 del 14.02.2012) stabiliva  che l'abbandono del tetto coniugale prima della domanda di separazione e senza una valida ragione faceva scattare automaticamente l'addebito. Ebbene, il coniuge “abbandonato”, dal momento in cui provava che il partner avesse lasciato il tetto coniugale, non era tenuto a provare il nesso di causalità col fallimento del matrimonio, gravando sull’altro l’onere della prova attraverso la dimostrazione che tale abbandono fosse conseguenza di una situazione di intollerabilità della coabitazione preesistente, a prescindere dall’assenza della giusta causa prevista dall’art. 146, cpv. c.c. non dovendo ulteriormente provare l'incidenza causale di quel comportamento illecito sulla crisi del matrimonio. Soltanto nel caso in cui vi fosse un accordo tra le parti, come si accennava, o nel caso in cui la parte o le parti avessero proceduto al deposito di un ricorso per separazione,oppure, immediatamente prima, con l’inoltro di una missiva  con la quale uno dei due coniugi comunicasse all’altro la volontà di separarsi e poi abbandonava la casa familiare per insostenibilità della convivenza, l'allontanamento dalla casa coniugale non rappresentava motivo di addebito della separazione.
 Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale appare interessante notare come il “diritto all’autodeterminazione” che ci accingiamo ad esaminare confrontandolo con l’ultima sentenza di Cass. civ. 2183/2013 (riguardante l’allontanamento dalla casa familiare della moglie) che ha introdotto un nuovo sguardo del nostro ordinamento rispetto alla crisi familiare,) abbia avuto origine dalla lotta per i diritti civili e sociali delle donne e in particolare nella Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina del 1791, dovuta alle battaglie Olympe de Gouges, finita ghigliottinata sotto Robespierre.
Ebbene, la recente giurisprudenza ha elevato l’aspirazione ad una totale preservazione dell’identità individuale, espressione assoluta della volontà del singolo (nel caso di specie, del coniuge), da pretesa ad autodeterminazione, tanto che la Cassazione citata per ultima, si è espressa nel senso di escludere l’addebito della separazione al coniugeche abbia abbandonato la casa familiare per la convivenza divenuta intollerabile laddove, in tal caso, il disimpegnarsi dall’unione costituisce un diritto costituzionalmente garantito e non può essere fonte di riprovazione giuridica, specialmente laddove detta decisione risulti adottata da persona in età matura all’esito di una lunga coabitazione non felice, mentre solitamente l’avanzare dell’età tenderebbe ad avvicinare i coniugi con il crescere delle necessità di assistenza reciproca, morale e materiale.
Alla luce della giurisprudenza suindicata, è interessante far luce sui principi sottesi a tale decisione al fine di vagliare la tipizzazione operata dalla Cassazione (il diritto all’autodeterminazione), secondo un canone storico-normativo del  complesso delle figure che riguardano le facoltà della persona qualificandole legalmente come diritti e libertà tipizzati in una fattispecie normativa concreta.
Infatti, è bene precisare che è stata proprio la Corte Costituzionale a ricondurre nuove fattispecie alla nostra Costituzione, ampliando così gli spazi di tutela dei cittadini e degli individui, come testimoniano le numerose decisioni che riguardano la vita, il diritto all’identità personale, quale “diritto ad essere se stessi”, della libertà personale intesa non soltanto quale forma di garanzia da forme di coercizione fisica della persona, ma che comprende anche la libertà morale del soggetto e, non ultimo, il diritto all’autodeterminazione.
Oggi, tale principio non esula e non prescinde dalla famiglia umana, considerata cellula uni-genita della collettività composta da padre, madre e figli. Ma che supera l’idea della garanzia della unitarietà familiare a favore del rispetto dell’individuo nella sua identità che pure si esplica nella famiglia ma, al contempo la supera, perché quella personale, responsabile, abbia il sopravvento.
L’ultima giurisprudenza si fa portavoce della volontà dell’uomo, della sua capacità di autodeterminarsi, e, soprattutto nella fiducia e non ingerenza dello Stato nella identificazione e valutazione delle scelte dell’individuo nella comunità familiare che è lasciato libero di prendere le sue decisioni presuntivamente responsabili e motivate senza il fardello di un sistema “punitivo” che lo etero-determini, contro la sua volontà.
 Nel caso di specie (aggiungo: finalmente), la moglie ha il diritto di allontanarsi dal tetto coniugale in quanto è presuntivo il fatto che ella si sia autodeterminata a tale decisione per una intollerabilità della convivenza che, al, contrario, dati i tanti anni di convivenza familiare, avrebbe dovuto portare ad una maggiore affectio coniugalis. Ecco che l’identità dell’individuo si configura nella famiglia ma al contempo ne supera la configurazione: non è più soltanto la famiglia che recrimina i propri diritti nei confronti dello stato ma è l’individuo che si fa portatore di diritti innati, che preesistono alla famiglia e che ne richiamano il riconoscimento e la tutela costituzionale.