Qualche mese fa ho seguito un interessante corso organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Lodi dedicato alla violenza di genere.

Il titolo del corso era “Riflessioni sulla violenza contro le donne: tutele e rimedi”.

Tornata a casa avevo mille cose da raccontare a mio marito; non vedevo l’ora di snocciolare dati, esprimere le mie considerazioni su alcuni filmati visionati (ed in particolare su una pubblicità francese), ma soprattutto parlargli di quei meccanismi perversi, insidiosi ed odiosi che ci avevano così ben descritto e che avevano rievocato in me alcuni ricordi di pratiche vecchissime, risalenti ai primi anni della pratica forense.

E soprattutto di una.

Quella vecchia pratica trattava di una crisi familiare importante, della disgregazione di un nucleo apparentemente felice – mamma, papà e due bambini – ma che in realtà, come si è scoperto dopo, felice non lo era mai stato.

La relatrice del seminario avrebbe potuto utilizzare quella coppia, già separata, per descrivere i meccanismi della violenza domestica, collegando ad ogni fase del ciclo degli abusi un episodio. Dal matrimonio alla nascita dei figli. Dall’infedeltà al senso di colpa instillato nell’altro. Dai regali inaspettati e i viaggi improvvisi alle umiliazioni, in privato e in pubblico, come coniuge e come genitore. Per concludere con la gestione drammatica della crisi nella separazione. La capacità di far percepire l’altro come una nullità e la convinzione di essere invincibile fino all’ultimo.

Il senso di impotenza e la rabbia che avevo provato all’epoca erano riaffiorati.

E con essi le domande, partendo dalla fatidica: “perché vi siete separati consensualmente?”.

Perché ha accettato quelle condizioni? Perché non è stata aiutata?

La separazione consensuale è uno strumento utile, comodo e, se ben fatta, in grado di prevenire ulteriori conflitti.

Ma spesso, se conclusa in modo veloce e superficiale, può nascondere diverse insidie.
Prima di tutto, non essendo personalizzata, cioè cucita sulla base delle vere e concrete esigenze della coppia o della famiglia, rischia di non durare nel tempo.

Regolamentare la separazione vuol dire regolamentare la propria vita: vale la pena riflettere meglio prima e creare uno schema di condizioni ritagliato sulle proprie esigenze (nel limite dei diritti disponibili, va da sé).

E qui servono un buon avvocato, tanta pazienza, e magari anche un buon supporto di mediazione familiare.

Purtroppo ancora capita di leggere di diritti di visita per figli adolescenti pensati per gestire invece l’affidamento di bambini in età prescolare. E ho detto tutto.

In secondo luogo è un’ottima copertura per i coniugi violenti, come nel caso della pratica di cui scrivevo sopra.

Si fa in fretta a immaginarsi la scena: vuoi la separazione? ecco, guarda che bravo, firmo tutto quello che vuoi…

Peccato che “tutto quello che vuoi” in realtà spesso non è quello che il coniuge debole effettivamente vuole, ma quello che purtroppo soltanto pensa di desiderare o, peggio, meritare.

Quello che avevo pensato all’epoca e su cui stavo nuovamente riflettendo è stato poi confermato nel corso del seminario di aggiornamento, con particolare attenzione alla legislazione sovranazionale e allo strumento della negoziazione assistita.

Negoziare presuppone essere sullo stesso livello. Due pari che decidono per loro.

Nelle coppie caratterizzate da violenze e abusi non c’è parità fra i coniugi.

Una cattiva separazione non aiuta; se va bene, tampona.

In questo modo però non si mette la parola fine alle violenze. Fisiche e psicologiche. Soprattutto se si resta da sole, non affiancate da una rete di supporto valida e competente.
Detto questo, anche per le sensazioni evocate, mi ha fatto un’ottima impressione il centro L’Altra metà di niente di Lodi, in grado di far realizzare – fra le altre cose – una mostra di pittura alle donne vittime di abusi, che hanno quindi alla fine trovato anche il coraggio di mostrare il proprio volto in pubblico. E non è poco.

Dal mio blog https://wordpress.com/view/avvocatopirotta.wordpress.com