Non siamo in America ma se (ricerca condotta dall’IMR Ricerche/Centro Nazionale Studi e Ricerche sul Diritto della Famiglia) il 23% degli italiani single, è favorevole a stipulare un patto prematrimoniale, non possiamo più limitarci, a parlare dei casi  Marshall o Douglas in forma di gossip.

Negli ultimi anni, gli echi di quella giurisprudenza d’oltre oceano, favorevole ai prenuptial agreements in contemplation of divorce (Stati Uniti),  per i quali ha giocato un ruolo determinante il passaggio dal divorzio per colpa al no fault divorce,  sono giunti sino a noi.

In Germania, è nota la pratica di predeterminare gli effetti di un divorzio, dettando i criteri per la determinazione dell’assegno o per la sua rinunzia, ma anche esperienze  culturalmente prossime alla nostra conoscono l’istituto: il Codi de familia catalano disciplina il capitols matrimonials ed il  Code Civil francese, offre ai coniugi una vasta  gamma di contratti tramite i quali, possono disciplinare il regime di comunione in vista di un divorzio.

More solito, è sempre una questione culturale: le regole che disciplinano la famiglia sono state considerate nella nostra tradizione, indisponibili.

Ma come sempre accade, la vita reale corre più veloce della penna del giurista.  Se così non fosse, l’uso della convenzione matrimoniale – separazione dei beni – non avrebbe fatto,  un ingresso così massiccio nei matrimoni italiani e questo, per il timore di fronteggiare aleatori meccanismi giuridici legati allo scioglimento del regime legale.

Certo è, che dovremo prendere dimestichezza con accordi del genere in considerazione, dell’incremento dei matrimoni caratterizzati dalla presenza di un elemento di estraneità, del principio introdotto dall’art. 30 della l. 218/1995, secondo cui i coniugi possono derogare al criterio fissato per l’individuazione della disciplina applicabile ai loro rapporti e per l’entrata in vigore nel 2012, del Regolamento (tra i pioneri sottoscrittori) in tema di legge applicabile alle cause transnazionali di separazione e divorzio, che riserva una disciplina di  favore per gli accordi prematrimoniali.

La giurisprudenza italiana, si è pronunziata in diverse occasioni sulla validità di tali intese con un atteggiamento ondivago, passando da concezioni possibiliste a posizioni negazioniste. Dopo iniziali  aperture negli anni Settanta, la Corte di legittimità nel trentennio successivo, enuclea profili di illegittimità degli accordi (illiceità della causa) tali da dissuadere il più coraggioso dei nubendi .

A conferma dei ripetuti sbandamenti, la giurisprudenza non esita a violare i più saldi principi dell’ordinamento,  affermando pure, che la nullità di tali accordi sarebbe  invocabile dal coniuge avente diritto all’assegno e deducibile, soltanto nella procedura di divorzio, introducendo oltre che una singolare forma di prescrizione, il principio della indissolubilità matrimoniale e patrimoniale.

C’è che così ragionando l’eventuale accordo preventivo, potrà essere sottoscritto da una parte con la riserva di porlo in discussione nella fase divorzile, dimenticando l’interprete che oggetto della pattuizione non è lo status coniugale – “mi impegno a non divorziare”, ma le conseguenze di carattere patrimoniale  connesse all’eventuale scioglimento del matrimonio.

Quasi sull’orlo di una crisi di nervi, la Suprema Corte c’ha “messo la toppa” e con una decisione del 21 dicembre 2012  (n. 23713/2012), ha ritenuto valido l’accordo stipulato tra due aspiranti coniugi, nel quale si stabiliva che in caso di fallimento dell’unione, la moglie avrebbe ceduto al marito un immobile quale indennizzo per le spese sostenute per ristrutturare la casa coniugale, qualificandolo “non come accordo prematrimoniale in vista del divorzio, ma come contratto atipico con condizione sospensiva lecita”.

In verità la Corte, proclamando la propria fedeltà all’indirizzo tradizionale propone una distinzione tra  due tipi di intese:  “accordi” che intendono “regolare l’intero assetto economico tra i coniugi o un suo profilo (corresponsione di assegno), con arricchimenti e impoverimenti”: accordi questi, colpiti da nullità; “contratti”, caratterizzati “da prestazioni e controprestazioni tra loro proporzionali”, in cui la crisi viene in considerazione alla stregua di una condizione: negozi questi, validi.

Evidente,  salvando l’impostazione di fondo seguita dal Supremo Collegio,  lo sforzo di realizzare un risultato di equità sostanziale, conseguito ricorrendo ad un distinguo volto  a sottrarre l’accordo in oggetto,  al novero di quelli preventivi.

In realtà, la pronuncia che annuncia un’inversione di rotta, fa seguito alla decisione del Tribunale di Torino del  20 aprile 2012, nella quale viene stabilito che “L’accordo concluso sui profili patrimoniali tra i coniugi in sede di separazione legale ed in vista del divorzio non contrasta né con l’ordine pubblico, né con l’art. 160 c.c.” ed al vento delle riforme, inaugurato dal disegno di legge n. 2629, – “Modifiche al codice civile e alla legge 1º dicembre 1970, n. 898, in materia di patti prematrimoniali”-  e dalla proposta formulata dal Consiglio Nazionale del Notariato nel  2011.

Superato lo scoglio dell’inammissibilità, occorre prendere atto che il matrimonio è affrontato oggi, con uno spirito diverso da quello che animava i nostri nonni, sicchè, la possibilità di regolamentare anticipatamente le conseguenze della fine del rapporto, avrebbe il pregio  di diminuire il contenzioso, i tempi ed i costi, fermo il potere-dovere dell’autorità giudiziaria di valutarne l’equità con speciale riguardo all’interesse dei figli.

Certamente  la redazione di patti prematrimoniali costringerà il legislatore ad occuparsene sempre di più.