Norma di riferimento, a tale riguardo, è l'art. 156 c.c., il quale, nella sua attuale formulazione, stabilisce il principio generale secondo cui il giudice, pronunciando la separazione, dispone a vantaggio del coniuge cui la separazione non sia addebitabile il diritto di ricevere dall'altro quanto è necessario al proprio mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri. L'entità di tale contributo, per espressa previsione del secondo comma della norma innanzi citata, deve essere determinata in relazione alle circostanze ed ai redditi dell'obbligato, mentre istituto del tutto diverso deve ritenersi l'obbligo di prestare gli alimenti, ai sensi degli artt. 433 e seguenti c.c. L'obbligo di mantenimento previsto dalla norma in commento, da ritenersi come attuazione del dovere di contribuzione stabilito dall'art. 143 c.c. con riferimento ai reciproci diritti e doveri derivanti ai coniugi dal matrimonio, ha dunque il suo primo presupposto nel non addebito, istituto su cui ci si è già soffermati in precedenza. In questa sede preme solo precisare come l'assegno non possa essere attribuito dal giudice neppure nel caso in cui la separazione sia stata addebitata ad entrambi, sebbene all'un coniuge in misura prevalente rispetto all'altro, essendo chiaro a tale riguardo il tenore letterale della norma, che richiede espressamente la mancanza di addebito. Ben più problematico a livello interpretativo è il secondo presupposto indicato, ovvero la mancanza di adeguati redditi propri in capo al coniuge che domandi l'attribuzione dell'assegno. Sotto tale profilo la giurisprudenza della Cassazione ritiene ormai unanimemente che l'inadeguatezza di cui si discute debba essere valutata assumendo come parametro il tenore di vita goduto o godibile dal coniuge in costanza di matrimonio, pur tenendo necessariamente presente il ridimensionamento dello standard economico che per entrambi i coniugi deriva dalla separazione. In tal senso si veda, tra le altre, Cass., 28 aprile 2006, n. 9878, secondo cui la conservazione del precedente tenore di vita costituisce un obiettivo soltanto tendenziale, posto che lo scopo cui l'assegno di mantenimento in oggetto è preordinato consiste nel ridurre, per quanto possibile, lo squilibrio che sussista tra le posizioni dei due coniugi, cosicchè essi ridimensionino tendenzialmente le proprie aspettative e potenzialità economiche nella medesima misura. Peraltro occorre osservare, a tale riguardo, come con l'espressione “tenore di vita” debba farsi riferimento non solo al tenore di spese, ma anche al tenore di risparmio della famiglia, in modo che, qualora le parti preferissero, in costanza di matrimonio, accantonare gran parte delle risorse da essi realizzate, da ciò non può ragionevolmente desumersi un basso livello di vita da essi condotto, dovendo invece guardarsi a tutto il complesso della loro situazione economica e delle loro potenzialità. Una questione spesso posta all'attenzione dei giudici italiani è costituita dalla valutazione della capacità lavorativa del coniuge richiedente l'assegno, al fine di determinare la disponibilità di redditi adeguati da parte dello stesso. In tema di separazione, infatti, il legislatore, a differenza di quanto previsto dall'art. 5, sesto comma, della Legge n. 898/70 sul divorzio, non condiziona la spettanza dell'assegno all'impossibilità per il coniuge richiedente di procurarsi autonomamente redditi adeguati per ragioni oggettive. Nel silenzio della legge, dunque, ci si è chiesti se il giudice debba comunque attribuire rilevanza alla circostanza che ben il coniuge potrebbe provvedere al proprio mantenimento svolgendo un'attività lavorativa. La soluzione più ragionevole e logica, sotto tale aspetto, sembra essere quella di valutare anche in sede di separazione, sia pure con minor rigore rispetto all'ambito divorzile, l'effettiva e concreta attitudine del coniuge richiedente a reperire un'occupazione lavorativa, pur non potendosi prescindere dalle decisioni che i coniugi avevano assunto in costanza di matrimonio circa la questione lavorativa, dovendosi conseguentemente concludere che, laddove l'indirizzo dato alla vita familiare prevedeva che la moglie si astenesse dallo svolgimento di un'attività lavorativa diversa da quella casalinga, per dedicarsi magari alla cura ed all'educazione dei figli, non può pretendersi che essa, nel volgere di breve tempo, muti radicalmente le proprie abitudini di vita, mentre, in sede di divorzio, essendosi ormai consolidata la nuova situazione familiare, potrà opportunamente pretendersi dal coniuge richiedente la ricerca di un'occupazione (cfr. Cass., 11 dicembre 2003, n. 18920, e 19 marzo 2004, n. 5555). Ancora, si è visto come, ai fini della quantificazione dell'assegno di mantenimento in favore del coniuge, l'art. 156, secondo comma, c.c. prescriva di tenere in considerazione, oltre ai redditi del coniuge obbligato, “le circostanze”, espressione quantomai vaga ed ambigua, che la giurisprudenza ha provveduto nel tempo a riempire di significato. In tale nozione debbono pertanto ricondursi l'assegnazione al coniuge beneficiario, non proprietario, della casa familiare; l'assistenza prestata in favore del coniuge richiedente dal convivente more uxorio; le elargizioni provenienti dalla famiglia d'origine del coniuge avente diritto; i capitali ricavati dall'alienazione di beni; la durata del matrimonio; altri obblighi di mantenimento posti a carico del medesimo coniuge, nonché le modalità di affidamento e mantenimento dei figli. Si rammenta altresì che il giudice non ha il potere di disporre la corresponsione del suddetto assegno di mantenimento in favore di uno dei coniugi in assenza di una richiesta di parte in tal senso, la quale dovrà peraltro essere suffragata dalla prova dell'inadeguatezza di propri redditi e della capacità economica dell'obbligato, anche mediante la richiesta all'autorità giudiziaria di indagini disposte su redditi e patrimoni, se del caso svolte pure dalla polizia tributaria. Nulla vieta, peraltro, che la domanda dell'assegno di mantenimento, similmente a quanto previsto in maniera esplicita in tema di divorzio, contempli la corresponsione di un assegno una tantum, ovvero versato all'avente diritto in un'unica soluzione, a seguito del quale versamento nessuna ulteriore pretesa di natura economica potrà essere avanzata dal coniuge beneficiario limitatamente alla fase della separazione stessa. La giurisprudenza della Suprema Corte ha avuto occasione di pervenire all'affermazione di un ulteriore principio per quanto qui interessa, ovvero il principio di adeguamento automatico all'indice ISTAT dell'assegno erogato in sede di separazione personale dei coniugi, vuoi in favore del coniuge vuoi della prole, indipendentemente dalla formulazione di una specifica domanda di parte in tal senso. Al fine di esaurire la tematica dei rapporti patrimoniali tra coniugi conseguenti alla separazione, occorre illustrare anche la disciplina dettata dagli artt. 191 e ss. c.c., in base alla quale la separazione personale dei coniugi determina, tra l'altro, anche lo scioglimento della comunione legale dei beni, ovvero di quel regime patrimoniale degli acquisti in famiglia che opera in mancanza della formalizzazione di una diversa decisione da parte dei coniugi stessi. Peraltro si osserva come, sebbene il legislatore non approfondisca tale profilo, la separazione non produce automaticamente lo scioglimento, ossia la divisione della comunione, limitandosi a produrre, quale effetto immediato, la cessazione del regime di comunione relativamente ai nuovi acquisti, mentre si renderà necessario pervenire ad un atto contrattuale o giudiziale per procedere all'effettiva divisione dei beni acquistati in passato. Si precisa altresì che il momento a decorrere dal quale lo scioglimento della comunione diventa efficace deve essere individuato in quello in cui la sentenza di separazione o il decreto di omologazione della separazione consensuale siano divenuti definitivi, ossia non risultino più impugnabili, non potendo invece riconoscersi alcun effetto risolutivo ai provvedimenti presidenziali volti a regolare provvisoriamente lo stato della separazione ed emessi a seguito della comparizione personale dei coniugi dinanzi al Tribunale, i quali non compiono alcun accertamento definitivo della cessazione degli obblighi coniugali (in tal senso si veda Corte Cost., ord. 7 luglio 1988 n. 795, e Cass., 18 settembre 1998, n. 9325). Ne deriva che gli acquisti compiuti anche da uno solo dei coniugi durante il procedimento di separazione continuano a ricadere nel regime di comunione. Qualora dunque i coniugi non trovino un accordo per definire la divisione del patrimonio già comune, ciascuno di essi potrà proporre domanda di divisione di tali beni dinanzi all'autorità giudiziaria, successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di separazione.