I contratti di protezione o  ad effetti protettivi, non costituiscono un tipo di contratto previsto dalla legge ma una categoria individuata dalla dottrina e non definita dalla giurisprudenza che si limitano a riferirne il tipo ai contratti conclusi nel settore sanitario, ma non escludono affatto che non ne esistano in altri settori.
E’ allora essenziale delinearne le caratteristiche per tentare di individuarne l’ambito.
La figura del contratto con effetti protettivi nasce nell’ambito della dottrina tedesca come strumento per superare il problema della tipicità degli illeciti extracontrattuali ed è stata accolta anche nel nostro ordinamento per tutelare quei soggetti che necessariamente o istituzionalmente sono coinvolti nel contratto. Può infatti accadere che il contratto abbia ad oggetto una pluralità di prestazioni e che, oltre al diritto alla prestazione principale, sia garantito l’ulteriore diritto a che non siano arrecati danni a terzi;
terzi che, se danneggiati, in quanto anch’essi protetti dal contratto, possono agire sulla base dello stesso, facendo valere una responsabilità di tipo contrattuale qualora vedessero pregiudicata la posizione che quel contratto mira a tutelare.
Il contratto viene in tal modo integrato da obblighi che trovano il proprio fondamento nei principi della buona fede e della correttezza, superandosi così la concezione tradizionale che vuole gli effetti contrattuali limitati al contenuto dell’accordo ed alle parti che lo hanno stipulato.
Il presupposto dell’estensione ai terzi della tutela è che essi si trovino esposti al rischio di danni in occasione dell’esecuzione del contratto in ragione della loro particolare posizione rispetto ad una delle parti, ovvero che il creditore della prestazione abbia interesse alla loro protezione, che non è tuttavia oggetto di un contratto con prestazione a favore di un terzo, nel quale la produzione degli effetti del contratto costituisce il programma contrattuale delle parti (ex art. 1411, comma 1, cod. civ.), ma un tipo contrattuale a sé stante, non disciplinato dalla legge, più debole rispetto al contratto a favore di terzi.
Ciò e' il frutto di un’elaborazione giurisprudenziale ormai consolidata nei diritti tedesco ed austriaco, nel quale i doveri di protezione che fanno parte del rapporto obbligatorio e che sono finalizzati a tutelare il contraente-creditore della prestazione dai danni alla persona e/o alle cose che possano verificarsi in occasione dell’esecuzione del contratto, si estendono ai terzi che si trovino esposti, per la loro particolare situazione rispetto ad una delle parti, allo stesso rischio di danni ai quali è esposto il contraente-creditore della prestazione.
Il caso probabilmente emblematico è rappresentato da lesioni gravi provocate al nascituro in condizioni fetali al momento del verificarsi del fatto ed addebitabili al comportamento dei sanitari.
La prima sentenza della Corte di cassazione in materia ha affermato che anche il soggetto che con la nascita acquista la capacità giuridica ha la possibilità di agire per far valere la responsabilità contrattuale per l’inadempimento delle obbligazioni accessorie, cui il sanitario è tenuto in forza del contratto stipulato con la gestante, a garanzia anche dello specifico interesse del nascituro.
E’ così riconosciuta, oltre all’obbligazione principale di assicurare alla gestante una gravidanza o un parto che non ne pregiudichi la salute ed ogni possibile presidio medico e terapeutico, un’obbligazione accessoria a favore del nascituro, titolare del diritto a nascere sano (che è cosa diversa, come si dirà, dal diritto a non nascere se non sano), assolutamente autonoma ed indipendente dalla prima, in forza della quale egli può agire direttamente nei confronti del medico e/o della struttura sanitaria, facendo valere una responsabilità di tipo contrattuale, pur senza aver stipulato alcun contratto.
Assolutamente diverso è il caso della omessa diagnosi di malformazioni del feto e di conseguente nascita indesiderata.
E’ stato ritenuto che, nell’ipotesi che si sta considerando, meriti tutela, oltre ovviamente a quella della madre, anche la posizione soggettiva del padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sul fatto della procreazione, non rilevando in contrario che sia consentita solo alla madre la scelta dell’interruzione della gravidanza, giacché la sottrazione alla madre di tale scelta a causa dell’inesatta prestazione del medico comporta che gli effetti negativi del suo comportamento si riverberano anche sul padre.
Il problema dell’accertamento, condotto ex post ma necessariamente in riferimento al momento dell’omessa diagnosi, che la madre avrebbe scelto di interrompere la gravidanza (ovviamente nella ricorrenza delle situazioni previste dalla legge n. 194 del 1978) se fosse stata informata (ché, altrimenti, evidentemente non si sarebbe potuto prospettare alcun danno) è stato risolto sostenendosi che è consentito al giudice del merito valorizzare una serie di indizi in tal senso, in definitiva avvalendosi del metodo dell’inferenza induttiva proprio delle presunzioni (art. 2729, comma 1, cod. civ.), che consentono di risalire dal fatto noto a quello ignoto, a quel punto da considerarsi a tutti gli effetti provato in materia civile.
S’è applicato, a ben vedere, lo stesso metodo logico del giudizio controfattuale per accertare il nesso di causalità in caso di comportamento omissivo, trattandosi di apprezzare cosa la madre avrebbe fatto se avesse saputo della malformazione e dunque se la nascita sarebbe stata evitata, così come in caso di colpa da omissione deve accertarsi se l’evento sarebbe stato impedito dalla condotta doverosa e tuttavia non posta in essere. La citata giurisprudenza di legittimità ha invece escluso che il diritto al risarcimento competa anche al soggetto che sia poi nato, proclamandosi l’inesistenza di un diritto a non nascere, ovvero a non nascere se non sano.
Ciò in quanto l
'ordinamento positivo tutela il concepito e l'evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, e non anche verso la "non nascita", essendo pertanto (al più) configurabile un "diritto a nascere" e a "nascere sani", suscettibile di essere inteso esclusivamente nella sua positiva accezione: sotto il profilo privatistico della responsabilità contrattuale o extracontrattuale o da "contatto sociale", nel senso che nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie ( con comportamento omissivo o commissivo colposo o doloso );  sotto il profilo - latamente - pubblicistico, nel senso che debbono venire ad essere predisposti tutti gli istituti normativi e tutte le strutture di tutela cura e assistenza della maternità idonei a garantire (nell'ambito delle umane possibilità ) al concepito di nascere sano.
Non è invece in capo a quest'ultimo configurabile un "diritto a non nascere" o a "non nascere se non sano", come si desume dal combinato disposto di cui agli artt. 4 e 6 della legge n. 194 del 1978. 
Gli argomenti sono certamente forti.
E tuttavia, a parte il riferimento alla difficoltà di configurare un diritto a non nascere che sarebbe privo di titolare fino alla nascita è netta l’impressione che la vera ragione della decisione sta nell’affermazione che, se esistesse il diritto a non nascere, se non sano, tale diritto sarebbe poi opponibile a tutti: al personale medico e paramedico e,soprattutto, alla madre.
Dunque, un diritto del nascituro verso la madre che non abbia scelto di interrompere la gravidanza nonostante fosse consapevole della malformazione del feto non esiste: ma non in quanto il nascituro lo avrebbe perduto nascendo, bensì perché la scelta della madre ne preclude l’insorgenza per il fatto stesso della intervenuta scelta, essendo il suo oggetto identificabile nella lesione della facoltà della madre di scegliere consapevolmente.
La lesione di quel diritto è destinata a riverberarsi anche nella sfera giuridica di un diverso soggetto (il nascituro), in linea con le caratteristiche proprie dei contratti con effetti protettivi nei quali, come s’è detto, il contratto necessariamente coinvolge ed impone la tutela anche della posizione giuridica soggettiva di chi non ne sia parte.
Non si ravvisano del resto ragioni ostative all’applicazione in subiecta materia degli stessi principi elaborati in tema di cosiddetto “consenso informato”.
Così come ognuno ha diritto di essere informato dal medico cui si sia rivolto (anche per “contatto sociale”) delle proprie condizioni di salute al fine di poter consapevolmente autodeterminarsi in ordine alle scelte del caso (sulle quali pure va compiutamente informato), allo stesso modo la gestante va informata delle eventuali malformazioni del feto.
Se tale informativa non avviene per fatto colposo del medico (silenzio volontario o mancata diagnosi), delle conseguenze di una mancata scelta non potuta compiere, qual è l’interruzione volontaria della gravidanza, non può non rispondere la parte inadempiente; verso la gestante, verso il padre del concepito e verso il concepito stesso nel momento in cui nascerà, essendo la posizione degli ultimi due accomunata dall’essere entrambi titolari di interessi coinvolti (ed il terzo, mi parrebbe, ancor più del secondo) nel contratto con effetti protettivi dei terzi intercorso tra medico e gestante.
La giurisprudenza delle Sezioni Unite come ulteriore caso di contratto ad effetti protettivi, fa riferimento alla responsabilità da “contatto sociale” dell’istituto scolastico per i danni dell’alunno cagionati a se stesso. Le Sezioni unite avevano affermato che nel caso di danno cagionato dall'alunno a se stesso, la responsabilità dell'istituto scolastico e dell'insegnante non ha natura extracontrattuale, bensì contrattuale, atteso che - quanto all'istituto scolastico - l'accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell'allievo alla scuola, determina l'instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell'istituto l'obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l'incolumità dell'allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni, anche al fine di evitare che l'allievo procuri danno a se stesso;
Quanto, invece,  al precettore dipendente dell'istituto scolastico - tra insegnante e allievo si instaura, per contatto sociale, un rapporto giuridico, nell'ambito del quale l'insegnante assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e vigilanza, onde evitare che l'allievo si procuri da solo un danno alla persona.
Ne deriva che, nelle controversie instaurate per il risarcimento del danno da autolesione nei confronti dell'istituto scolastico e dell'insegnante, è applicabile il regime probatorio desumibile dall'art. 1218 cod. civ.,siicché, mentre l'attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sull'altra parte incombe l'onere di dimostrare che l'evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né all'insegnante.
Il contrasto giurisprudenziale riguardava, in realtà, l’applicabilità dell’art. 2048, comma 2, cod. civ. anche all’ipotesi in cui l’alunno si fosse provocato da sé dei danni e, in particolare, delle lesioni all’integrità fisica.
Ad una prima impostazione, che riteneva di poter estendere l’applicabilità a tale ipotesi della norma citata, si contrapponeva la tesi secondo la quale la stessa formulazione testuale dell’art. 2048 rende evidente che la disposizione riguarda il solo caso di danni cagionati dall’alunno a terzi (nei confronti dei quali è appunto prevista la possibilità della prova liberatoria), sicché il risarcimento del danno da autolesione avrebbe potuto essere richiesto all’insegnante (ed all’istituto scolastico che del fatto dell’insegnate deve rispondere ai sensi dell’art. 2049 cod. civ.) solo nell’ambito della disposizione generale di cui all’art. 2043 cod. civ. 
E’ stato dunque compiuto un passo ulteriore rispetto al contrasto che le Sezioni unite erano chiamate a comporre e si è deciso di fare riferimento alla più attuale impostazione del contatto sociale (inaugurata in campo sanitario), per tale via qualificando come responsabilità contrattuale anche quella dell’insegnante, con il quale nessun rapporto diretto ricorre al momento dell’iscrizione dell’alunno alla scuola. In tal modo, quella dell’insegnante verso l’allievo è configurata come responsabilità avente una fonte autonoma, il contatto sociale appunto, che dà luogo anche ad obblighi di protezione. La categoria dei contratti con effetti protettivi ha trovato un ulteriore ambito applicativo avallato dall’autorevolezza delle Sezioni unite, poi seguite dalla giurisprudenza successiva.  V’è da domandarsi se il contratto con effetti protettivi abbia nel nostro ordinamento spazi applicativi ulteriori rispetto a quelli fino ad oggi ricevuti e che ha trovato per soddisfare l’esigenza non già di estendere la tutela risarcitoria ad una più ampia platea di soggetti (il che era già possibile mediante il ricorso alla clausola generale di cui all’art. 2043 c.c., che in ambito extracontrattuale consente di dilatarne l’ambito applicativo anche oltre la vittima cosiddetta “primaria” dell’illecito, secondo il sistema dell’ammissione a risarcimento dei “danni riflessi o di rimbalzo”), ma di consentire anche a tali soggetti di avvalersi di un più favorevole regime probatorio e di un più lungo termine di prescrizione (che a sua volta è la vera ragione per la quale ha preso piede la tesi del rapporto contrattuale da “contatto sociale qualificato” con la struttura sanitaria o con quella scolastica) . Poichè in Italia, è stata quest'ultima, la vera ragione delle aperture giurisprudenziali di cui s’è detto, allo specifico scopo di apprestare tutela all’interesse primario dell’integrità , il quesito che ci si pone è se , una volta adottato il sistema, esso sia suscettibile di trovare spazi applicativi anche in ambiti diversi.
In particolare quando non si ponga il problema della violazione di un diritto costituzionalmente tutelato, o addirittura di un diritto inviolabile della persona, ma venga invece in considerazione un interesse meramente economico del terzo.
Ebbene, non sembra che nel nostro sistema ciò sia possibile, unico possibile spazio pare essere, allo stato attuale dell’evoluzione giurisprudenziale, quello della tutela extracontrattuale, benché parte della dottrina abbia prospettato una soluzione contrattuale nei casi di responsabilità da status professionale, evocando l’idea di “obbligazione senza prestazione”, nel senso che il professionista non ha l’obbligo di fornire l’informazione, ma se tuttavia la dà, a tutela dell’affidamento del terzo deve farlo con la stessa perizia e diligenza che avrebbe dovuto impiegare nell’esecuzione dell’obbligazione contrattuale. Ciò in quanto lo status professionale costituisce giustificazione dell’affidamento dei terzi e genera obblighi, sia pure limitati al solo profilo della protezione o della sicurezza . Un’interessantissima apertura è venuta peraltro dalle Sezioni Unite che, risolvendo un contrasto di giurisprudenza, hanno affermato che la responsabilità della banca negoziatrice per avere consentito, in violazione delle specifiche regole poste dall'art. 43 legge assegni (r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736), l'incasso di un assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità, a persona diversa dal beneficiario del titolo, ha - nei confronti di tutti i soggetti nel cui interesse quelle regole sono dettate e che, per la violazione di esse, abbiano sofferto un danno  di natura contrattuale, avendo la banca un obbligo professionale di protezione (obbligo preesistente, specifico e volontariamente assunto), operante nei confronti di tutti i soggetti interessati al buon fine della sottostante operazione, di far sì che il titolo stesso sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità alle regole che ne presidiano la circolazione e l'incasso.
Da tale premessa ne è stata tratta la conclusione che l'azione di risarcimento proposta dal danneggiato è dunque soggetta all'ordinario termine di prescrizione decennale, stabilito dall'art. 2946 cod. civ.