UN RISARCIMENTO A FRONTE DELL’ECCESSIVA DURATA DEI PROCESSI.

La Legge Pinto: chi e come può chiederne l'applicazione.

Sebbene ormai in vigore da alcuni anni, la legge n. 89 del 24 marzo 2001, meglio nota come Legge Pinto, non ha conosciuto quel processo capillare di diffusione che si sarebbe auspicato, neppure tra gli “addetti ai lavori”.
Il pregio di questa normativa, infatti, è quello di riconoscere a tutti i cittadini italiani, che, loro malgrado, si siano trovati e si trovino ad essere parte nel nostro sistema giudiziario di un processo civile, penale, amministrativo, previdenziale o fallimentare eccessivamente ed immotivatamente lungo, il diritto ad essere risarciti dallo Stato per il danno morale da loro ingiustificatamente patito a seguito di una simile attesa. E’ indubbio, d’altronde, che una persona, la quale debba aspettare talvolta anche per dieci – quindici anni la sentenza con la quale venga finalmente definita una vertenza che la coinvolga direttamente, è costretta a vivere in una situazione di incertezza e di ansia, via via crescente a seconda dell’entità della posta in gioco nel giudizio di cui si vada poi a lamentare l’eccessiva durata.
Il legislatore italiano, dunque, a seguito delle reiterate condanne subite dalla Corte Europea di Strasburgo per l’incapacità del nostro Paese di assicurare ai propri cittadini una giustizia che si compia in un tempo ragionevole, si è visto costretto a dotare l’ordinamento interno di uno strumento volto a porre un freno alle pesanti disfunzioni del nostro sistema giudiziario, pena un sostanzioso aggravamento del bilancio delle casse pubbliche.
Secondo i parametri offerti proprio dalla Corte di Strasburgo e vincolanti anche per i giudici italiani, ogni cittadino che, indipendentemente dall’esito (sia che egli vinca, perda o concili la lite), veda procrastinarsi indebitamente una causa che lo riguardi, può proporre ricorso, con l’assistenza di un legale, ad una Corte di Appello territorialmente individuata, la quale, previo svolgimento, di norma, di un’unica udienza di discussione in camera di consiglio, valuta se, nel caso specifico, sia ravvisabile una violazione della durata ragionevole del processo da parte del Ministero della Giustizia e, conseguentemente, liquida in favore del cittadino stesso un indennizzo oscillante tra € 1000,00 ed € 2000,00 per ogni anno di pendenza del giudizio eccedente la ragionevole durata, oltre le spese legali relative a tale procedura, poste anch’esse a carico del Ministero della Giustizia..
Ne deriva che, dovendosi in linea generale considerare ragionevole che un procedimento si concluda nell’arco di tre – quattro anni dalla propria instaurazione, ferme restando le particolarità del caso concreto, un soggetto, nei confronti del quale sia aperta una procedura fallimentare, a titolo esemplificativo, da venti anni (come purtroppo accade più frequentemente di quanto non si pensi), si vedrà verosimilmente liquidare dalle Corti italiane un risarcimento compreso tra i 16.000,00 ed i 32.000,00 Euro, sulla base di un’irragionevole durata determinata in anni sedici.
Il ricorso previsto dagli artt. 2 e seguenti della Legge n. 89/01, qui in commento, può peraltro sempre essere proposto quando risulti ancora in corso il giudizio di cui si prospetti l’eccessiva lunghezza, ma può anche essere depositato, a pena di decadenza, entro il termine di sei mesi dal momento in cui la sentenza di detto giudizio sia divenuta definitiva e, dunque, non più impugnabile.
Né peraltro deve spaventare la circostanza che tale credito debba trovare soddisfazione nei riguardi dello Stato. Qualora, infatti, il Ministero non disponga, al momento, della liquidità necessaria a fare fronte a detti debiti, cui sia stato condannato, in favore dei propri cittadini, nulla vieta che costoro possano agire esecutivamente nei confronti del Ministero stesso, ottenendo in ogni caso quanto loro dovuto, oltre alle spese legali sostenute, entro un periodo di circa sei mesi dal deposito della decisione da parte della Corte d’Appello italiana.
Naturalmente preme sottolineare come a tale voce di danno possa aggiungersi, di volta in volta, l’ulteriore pregiudizio patrimoniale che, per effetto dell’eccessiva durata del processo, il cittadino abbia sofferto, ad esempio per la depressione in cui egli sia caduto a seguito dell’incertezza della causa ove venga posta in discussione la possibilità di essere reintegrato nella propria precedente occupazione lavorativa o, ancora, per non avere potuto proficuamente investire un’ingente somma di denaro, stante l’irragionevole durata di una procedura esecutiva volta ad ottenere la realizzazione coattiva del proprio credito nei confronti del debitore.
Si può pertanto concludere che difficilmente il risarcimento di cui si discute nel presente approfondimento potrà ingenerare nei cittadini italiani una rinnovata fiducia nel buon operato del sistema giudiziario, tuttavia esso costituisce un utile strumento a cui chi scrive ritiene debba darsi la massima eco, così da informare gli utenti della giustizia dei propri diritti.

Avv. Sara Fascio