L'art. 2 della legge 24.3.2001 n. 89 (“Legge Pinto”) prevede il diritto ad una equa riparazione a favore di chi abbia subito un danno, patrimoniale o non patrimoniale, per effetto di violazione della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4.8.1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo di cui all'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione.

Il secondo comma della stessa norma prevede che nell'accertare la violazione il giudice debba considerare la complessità del caso e in relazione a tale complessità, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonché quello di ogni altra Autorità chiamata a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.

Il terzo comma dello stesso articolo, infine, detta le regole per la determinazione della riparazione, richiamando il disposto dell'art. 2056 c.c., escludendo l'indennizzabilità del periodo temporale non eccedente il termine ragionevole e specificando le modalità ripristinatorie del danno morale.

In base alla legge Pinto, qualora il procedimento superi una durata di tempo ragionevole, (3 anni per il procedimento di primo grado, 2 anni per il secondo ed 1 anno per la cassazione) a prescindere dall’esito della lite e/o in caso di conciliazione della lite, si ha diritto  ad una somma di denaro per ogni anno di eccessiva durata del processo pari a circa 1.000/1.500 euro; somma che può aumentare fino a 2.000 euro in casi di particolare importanza (ed es. in tema di diritto di famiglia o stato delle persone, procedimenti pensionistici o penali, cause di lavoro o cause che incidano sulla vita o sulla salute).

La domanda può essere proposta anche qualora la causa sia ancora in corso. Successivamente verrà avanzata una seconda istanza al termine della lite per la cifra rimanente.

La durata del tempo “ragionevole” deve tenere in considerazione diverse circostanze tra cui la complessità del procedimento ed il comportamento delle stesse parti e del giudice.

Per presentare il ricorso si ha un termine di 6 MESI sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce il processo, scaduti i quali, la parte è considerata decaduta dal proporre il ricorso.

Ovviamente tale termine non sussiste in corso di causa.

All'opportuno inquadramento normativo e sistematico, faticosamente tentato dalla giurisprudenza per superare le difficoltà di armonizzazione del nuovo istituto nel nostro ordinamento, giova l'insegnamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. SS.UU 26.1.2004 n. 1339 e n. 1340), che è il caso di ricapitolare brevemente:

- il fatto giuridico che fa sorgere il diritto all'equa riparazione è costituito dalla violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4.8.1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6, paragrafo 1 della Convenzione;

- la legge n. 89 del 2001 identifica il fatto costitutivo del diritto all'indennizzo per relationem, riferendosi ad una specifica norma della CEDU;

- il Giudice convenzionalmente legittimato all'interpretazione delle disposizioni contenute nella CEDU è la Corte europea dei diritti dell'uomo con sede a Strasburgo;

- il fatto giuridico della violazione è "conformato" dalla giurisprudenza della Corte europea che si impone ai fine dell'applicazione della legge n. 89 del 2001 ai Giudici italiani;

- l'applicazione diretta nell'ordinamento italiano di una norma della CEDU non può discostarsi dall'interpretazione che al proposito ne dà la Corte di Strasburgo;

- una diversa interpretazione nel senso dell'autonomia della legge n. 89 del 2001 la renderebbe priva di giustificazione ed esporrebbe lo Stato italiano alla violazione dell'art. 1 della Convenzione stessa;

- la legge 89 del 2001 ha quindi la funzione di rimedio giurisdizionale interno, dotato di concreta effettività (art. 35 Convenzione) contro le violazioni relative alla durata dei processi, sì da realizzare la sussidiarietà dell'intervento della Corte di Strasburgo, sancita espressamente dall'art. 35 della Convenzione ;

- il giudice della completezza ed effettività della tutela apprestata dai singoli sistemi nazionali è la Corte di Strasburgo, ai sensi dell'art. 41 della CEDU;

- ne consegue, come affermato dalla Corte di Strasburgo nella sentenza 27.3.2003 Scordino e altri/Italia, che il giudice italiano deve - quanto piè è possibile - applicare e interpretare il diritto nazionale in conformità alla Convenzione, per come essa vive nella giurisprudenza della Corte;

- che in tale attività interpretativa, che trova ostacolo solo nella insuperabile lettera della norma nazionale, il Giudice italiano deve peraltro tener conto del fondamentale canone ermeneutico che gli impone di interpretare la norma nel senso in cui sia compatibile con la Carta Costituzionale;

- che non vi è dubbio, anche alla stregua della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che il danno patrimoniale va provato in tutte le sue componenti con rigore;

- che, per contro, la Corte di Strasburgo è solita liquidare il danno non patrimoniale alla vittima della violazione, senza bisogno che la sua sussistenza sia provata, anche solo in via presuntiva, in modo pressoché automatico una volta accertata la violazione del termine ragionevole di durata;

- che tuttavia, anche in presenza di tale orientamento, il danno non patrimoniale non può ritenersi insito, quale danno in re ipsa, nella mera esistenza della violazione, come del resto prevede la stessa Convenzione, il cui art. 41 considera l'eventualità dell'attribuzione dell'indennizzo;

- non è quindi accettabile la teoria del c.d. "danno-evento" ed anche il danno non patrimoniale viene in considerazione quale conseguenza della violazione, ma a differenza del danno patrimoniale si riscontra normalmente, e cioè di regola, per effetto della violazione stessa (per la prima affermazione del principio: Cass. 8.8.2002 n. 11.987);

- è quindi normale che l'anomala lunghezza del processo produca nella parte coinvolta patema d'animo, ansia e sofferenza morale, che ne costituiscono conseguenze normalmente ricorrenti, e che quindi non bisognano di prova alla stregua dell'id quod plerumque accidit;

- possono peraltro verificarsi situazioni concrete in cui tali conseguenze normali debbono essere escluse o perché il protrarsi del giudizio corrisponde ad un interesse della parte, o è comunque destinato a produrre conseguenze percepite dalla parte come favorevoli, ovvero in presenza di una situazione di piena consapevolezza della parte istante dell'infondatezza o della inammissibilità delle proprie pretese;

- la legge 89/2001 non è quindi in contrasto con la CEDU, dovendosi parlare, quanto al danno non patrimoniale, non già di danno in re ipsa, ma di prova del danno di regola in re ipsa, suscettibile di smentita nella situazione concreta, proprio perché conseguenza normale ma non necessaria e automatica;

- i criteri di determinazione del quantum elaborati dalla Corte di Strasburgo non possono essere ignorati dal Giudice nazionale, anche se compete la facoltà di un ragionevole scostamento;

- la liquidazione operata dalle Corti di appello a norma dell'art. 2 della legge 89/2001, pur conservando la sua natura equitativa, è tenuta a muoversi entro un ambito definito dal diritto, perché segnato dall'esigenza del rispetto della CEDU, quale essa vive nelle decisioni della Corte;

- in ogni caso nella determinazione del quantum il giudice è vincolato al rispetto della domanda e al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, sicché non deve mai superare quanto richiestogli dall'attore.

La violazione della durata ragionevole va invece apprezzata in linea puramente oggettiva, anche se ovviamente occorre tener presente il parametro fondamentale della complessità del caso (che va integrata con la considerazione dei comportamenti di tutti i soggetti coinvolti nel processo) a prescindere da ogni concreta responsabilità personale (neppure pensabile al di fuori di qualsiasi tutela dei diritti di contraddittorio e difesa in capo ai singoli interessati) e a prescindere da ogni disfunzione dell'apparato giustizia rispetto alle regole (nazionali) che ne governano il funzionamento.

Ciò che viene infatti in considerazione è la responsabilità complessiva dello Stato-giurisdizione nel fornire le proprie risposte nei confronti del singolo cittadino coinvolto, titolare del diritto fondamentale al rispetto dei tempi "ragionevoli" del processo, tutelato attraverso l'art. 6 CEDU e la legge 89/2001.

Pertanto, anche alla stregua dell'insegnamento delle Sezioni Unite, non sarà mai possibile in presenza di una durata "irragionevole" del processo, rispetto agli standards della Corte di Strasburgo, escludere la responsabilità dello Stato Italiano sul presupposto dello scrupoloso rispetto di tutte le norme ordinamentali e processuali che disciplinano l'esercizio della giurisdizione, o, ancor meno, giustificarla alla luce di carenze di organici, risorse e fondi che ne compromettano l'efficienza, o ancora, sotto altro profilo, esigerne comparativamente una diversa (e più benevola) considerazione sul presupposto della maggior effettività della tutela dei diritti di difesa asseritamente assicurata dal nostro ordinamento.

Analogamente, quanto al danno non patrimoniale, se è vero che la legge 89/2001 non autorizza a configurare una sorta di danno evento, e quindi un danno in re ipsa, va ricordato che è la prova del danno non patrimoniale ad essere di regola in re ipsa, suscettibile peraltro di patir smentita nella situazione concreta, proprio perché conseguenza normale, ma non necessaria e automatica della violazione.

Il riconoscimento dell'indennizzo non può essere ragguagliato all'intera durata del processo ma va proporzionato solamente all'ambito temporale eccedente la durata non ragionevole.

La giurisprudenza della Suprema Corte non lascia peraltro adito a dubbi circa l'erroneità dell'opzione caldeggiata da parte ricorrente:

- "L'equa riparazione di cui alla l. 24 marzo 2001 n. 89, compete solo nella misura in cui essa valga ad indennizzare un pregiudizio che sia conseguenza immediata e diretta della violazione del diritto della parte alla ragionevole durata del processo, e in quanto sia riferibile al periodo eccedente il termine di durata ragionevole, sicchè è da escludere che, mancando un nesso di tal fatta, siano indennizzabili a tale titolo le spese che la parte medesima abbia sopportato per far valere, nel giudizio presupposto, la tutela del proprio diritto. La definizione delle spese legali relative al giudizio di merito, infatti, deve circoscriversi nell'ambito di quella vicenda processuale."(Cassazione civile, sez. I, 5 agosto 2004, n. 15106);

- "Ai fini dell'equa riparazione ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, rileva solamente il periodo eccedente il termine di durata ragionevole del processo che non sia imputabile alla parte istante; sicché, una volta accertato che il ritardo nella definizione della lite è dipeso da disfunzioni riferibili all'ufficio giudiziario, il giudice non può escludere l'indennizzo sul solo rilievo che, nella specie, altri ritardi erano imputabili al comportamento della parte medesima."(Cassazione civile, sez. I, 3 settembre 2003, n. 12808).

La nota pronuncia delle Sezioni Unite n. 1340 del 2004, sopra illustrata, in termini di quantificazione della riparazione ha pur sempre sostenuto:

- che il danno non patrimoniale viene in considerazione quale conseguenza della violazione, ma a differenza del danno patrimoniale si riscontra normalmente, e cioè di regola, per effetto della violazione stessa;

- che è quindi normale che l'anomala lunghezza del processo produca nella parte coinvolta patema d'animo, ansia e sofferenza morale, che ne costituiscono conseguenze normalmente ricorrenti, e che quindi non bisognano di prova alla stregua dell' id quod plerumque accidit;

- che possono peraltro verificarsi situazioni concrete in cui tali conseguenze normali debbono essere escluse o perché il protrarsi del giudizio corrisponde ad un interesse della parte, o è comunque destinato a produrre conseguenze percepite dalla parte come favorevoli, ovvero in presenza di una situazione di piena consapevolezza della parte istante dell'infondatezza o della inammissibilità delle proprie pretese.

Merita poi di essere ricordato che anche la sentenza n. 1339 del 2004 delle Sezioni Unite della Cassazione aveva pur sempre considerato il criterio della posta in gioco quale elemento rilevante per la determinazione dell'indennizzo:

- "Ove la Corte europea dei diritti dell'uomo abbia già accertato che il ritardo non giustificato nella definizione di un processo, in violazione dell'art. 6 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno del ricorrente, e abbia quindi riconosciuto in suo favore un'equa riparazione ex art. 41 della convenzione, da tale pronuncia deriva che il giudice nazionale adito ai sensi della (sopravvenuta) l. 24 marzo 2001 n. 89 - una volta che abbia accertato, con riferimento allo stesso processo presupposto, il protrarsi della medesima violazione nel periodo successivo a quello considerato dai giudici di Strasburgo - non può non indennizzare, in applicazione della citata legge, l'ulteriore danno non patrimoniale subito dalla medesima parte istante, e liquidarlo prendendo come punto di riferimento la liquidazione già effettuata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (dalla quale è peraltro consentito differenziarsi, sia pure in misura ragionevole). Né detta indennizzabilità può essere esclusa sul rilievo dell'esiguità della posta in gioco nel processo presupposto: sia perché trattasi di ragione resa, nel caso, non rilevante dal fatto che la Corte europea ha ritenuto sussistente il danno non patrimoniale per il ritardo nello stesso processo; sia perché, più in generale, l'entità della posta in gioco nel processo ove si è verificato il mancato rispetto del termine ragionevole non è suscettibile di impedire il riconoscimento del danno non patrimoniale, dato che l'ansia ed il patema d'animo conseguenti alla pendenza del processo si verificano normalmente anche nei giudizi in cui sia esigua la posta in gioco onde tale aspetto può avere un effetto riduttivo dell'entità de risarcimento, ma non totalmente escludente dello stesso."

E' poi la stessa Corte di Strasburgo, proprio nella sentenza Musci sopra citata ad annettere importante rilievo al criterio della posta in gioco ("enjeu du litige": cfr § 27 e 30) ai fini della determinazione della riparazione in concreto.

Sempre al proposito del criterio della "posta in gioco", non meritano accoglimento le censure talora svolte basata sulla pratica inapplicabilità di una concreta indagine circa l'entità delle ripercussioni psicologiche e soggettive della violazione nella sfera intima del singolo soggetto pregiudicato, quasi che ciò potesse giustificare lo svincolo dell'entità dell'indennizzo dalla consistenza della posta in gioco in un giudizio nel quale ricorrente ha subito la dedotta sofferenza per la violazione del termine ragionevole di durata del processo.

La Corte può tuttalpiù riconoscere che la prova della concreta consistenza di tale forma di pregiudizio può essere disagevole; va ricordato, tuttavia, da un lato, che la legge ha espressamente previsto il ricorso alla tecnica di liquidazione equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c. e, dall'altro, che la giurisprudenza delle Sezioni Unite del Supremo Collegio, sopra illustrata, ha di fatto notevolmente alleviato gli oneri della parte istante, con la presunzione juris tantum di pregiudizio non patrimoniale da sofferenza e patema d'animo in caso di durata irragionevole del processo.

Non è comunque possibile sostenere la necessità di trattare in modo uguale casi evidentemente diversi; e ciò tanto più che a tal fine possono soccorrere ragionevolissime presunzioni semplici (dello stesso genere di quelle che hanno indotto il Supremo Collegio a presumere la sussistenza di patema d'animo e di una sofferenza psichica per la durata irragionevole di qualsiasi processo) che inducono chiunque a pensare che, salvo casi eccezionali (che indubbiamente dovrebbero essere opportunamente dimostrati), chi veda protrarsi una causa per un modesto importo di denaro, di fatto ininfluente ai fini dell'ordinario svolgersi della sua esistenza, soffre in maniera molto diversa rispetto a chi attenda l'esito di una controversia in cui si discute di una somma di denaro assai rilevante ai fini delle sue scelte di vita e delle sue prospettive future o addirittura si controverta, per esempio, intorno a diritti della personalità o rapporti familiari.

La giurisprudenza della Suprema Corte ha varie volte riconosciuto la correttezza del criterio, sia pur consigliandone un uso attento e circospetto, censurandone l'utilizzo talora effettuato al fine di rendere irrisorio l'indennizzo:

- "In tema di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo ai sensi della l. n. 89 del 2001, il giudice di merito, ai fini della determinazione del quantum dell'indennizzo, deve procedere ad un giudizio di comparazione tra la natura e l'entità della pretesa patrimoniale ("cosiddetta posta in gioco") e la condizione socio-economica del richiedente, al fine di accertare l'impatto dell'irragionevole ritardo sulla psiche di questo; ne discende che il giudice di merito può discostarsi dai parametri indennitari fissati dal giudice sopranazionale, sia in senso migliorativo che peggiorativo, solo sulla base delle allegazioni e delle prove fornite dalla parti, dandone puntuale spiegazione, e tale comparazione costituisce valutazione di merito non sindacabile nel giudizio di legittimità, se congruamente motivata."(Cassazione civile, sez. I, 2 novembre 2007, n. 23048)

- "In tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, l'esistenza di un danno non patrimoniale - la cui prova è di regola insita nello stesso accertamento della violazione - può essere esclusa in presenza di circostanze particolari che facciano positivamente ritenere che tale danno non sia stato subito dal ricorrente, come tipicamente avviene, ad esempio, nelle ipotesi in cui il protrarsi del giudizio appaia rispondente ad uno specifico interesse della parte o sia comunque destinato a produrre conseguenze che la parte stessa percepisce come a sé favorevoli. La valutazione circa la sussistenza, nel caso concreto, di tali particolari circostanze si risolve in un apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità, ove sorretto da motivazione congrua e scevra da vizi logici e giuridici. (Fattispecie relativa ad una procedura di esecuzione immobiliare, in relazione alla durata della quale il giudice della equa riparazione, con motivazione ritenuta congrua dalla S.C., ha escluso la configurabilità di un danno non patrimoniale risarcibile, avuto riguardo all'interesse della ricorrente alla stasi del procedimento in questione al fine di coltivare la prospettiva, poi realizzatasi, di soddisfare i creditori, così determinando la estinzione della procedura)"(Cassazione civile, sez. I, 18 giugno 2007, n. 14053; cfr anche Cassazione civile, sez. I, 7 dicembre 2006, n. 26200; Cassazione civile, sez. I, 13 aprile 2006, n. 8714;Cassazione civile, sez. I, 28 marzo 2006, n. 6999).

Ai fini della valutazione del danno non patrimoniale la giurisprudenza di legittimità esige che il Giudice nazionale, in linea di massima, conformi la propria valutazione liquidatoria, tenendo conto dei parametri seguiti dalla Corte Europea, sia pur potendo commisurare motivati scostamenti legati alle peculiarità del caso concreto:

- "Ai fini della liquidazione dell'indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, l'ambito della valutazione affidato al giudice del merito è segnato dal rispetto della convenzione europea dei diritti dell'uomo, come applicata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, e di casi simili a quello portato all'esame del giudice nazionale; pertanto, è configurabile, in capo al giudice del merito, un obbligo di tener conto dei criteri elaborati dalla Cedu, pur conservando un margine di valutazione che gli consente di discostarsi, in misura ragionevole e motivatamente, dalle liquidazioni effettuate da quella Corte in casi simili. Poiché questa ha in linea di massima determinato in una somma oscillante tra euro 1000,00 e euro 1.500,00 per ogni anno di eccessiva durata l'importo relativo alla riparazione del danno, risulta illegittima una liquidazione nella misura di euro 500,00 per ogni anno di ritardo."(Cassazione civile, sez. I, 1 marzo 2007, n. 4845);

- "In tema di equa riparazione ai sensi dell'art. 2 l. 24 marzo 2001 n. 89, nella liquidazione del danno non patrimoniale, il giudice nazionale non può ignorare i criteri applicati in casi simili dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, pur avendo facoltà di apportare, motivatamente e non irragionevolmente, le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda, le quali, peraltro, non possono fondare la decisione di liquidare somme che non siano in relazione ragionevole con quella - tra i 1000 e i 1500 euro - accordata dalla predetta Corte negli affari consimili."(Cassazione civile, sez. I, 2 febbraio 2007, n. 2254).

- "La liquidazione dell'equo indennizzo per la durata irragionevole del processo deve essere effettuata in favore di ogni singolo ricorrente e non può essere determinata in un solo importo globale e complessivo per più ricorrenti."(Cassazione civile , sez. I, 8 marzo 2007, n. 5338; conforme Cassazione civile , sez. I, 6 aprile 2006, n. 8034).

Avv. Massimiliano Gallone