Altra decisione a favore del danno esistenziale, la cui inarrestabile marcia, per il suo definitivo riconoscimento,  sembra ormai avviata a conclusione.
Artefice di questa che può considerarsi una smentita della contraria tesi che vede il danno esistenziale ricompreso in quello biologico, negandosene l’autonomia ontologica rispetto alle altre voci che compendiano il danno non patrimoniale, ancora una volta è la Terza Sezione della Cassazione, con una recente decisione, pubblicata il 20/04/2016 n° 7766, ispirata dallo stesso relatore( Cons. Travaglino) di altre analoghe precedenti pronunce  (v. soprattutto  Cass. 11851/2015 ma anche Cass. 20292/2012, Cass. 22585/2012,  ),  successiva ad altre due conformi (stesso Relatore, Cons. Rossetti)  rappresentate da  Cass. 8.5.2015 n. 9320 e Cass. 07/03/2016 n° 4379 ).
L’occasione della ulteriore conferma circa la configurabilità nel nostro Ordinamento del c.d. danno esistenziale, è stata fornita da una vicenda relativa ad un sinistro stradale in cui era rimasto coinvolto un uomo che aveva subito gravissimi danni. Il ricorso in Cassazione era stato proposto dalla Compagnia di assicurazione condannata al risarcimento danni di cui venivano contestati i relativi criteri asseritamente dismogenei rispetto a quelli applicabili alla stregua delle tabelle Milanesi..
Orbene, la Cassazione rigettava il ricorso ritenendo convincente l’impianto motivazionale della decisione della Corte territoriale, sulla base della peculiarità ed eccezionalità del caso concreto, che aveva permesso una adeguata personalizzazione del danno, valorizzandone l’aspetto “dinamico/relazionale (corrispondente al radicale sconvolgimento della dimensione della vita quotidiana, e cioè di quel rapporto dell’essere umano con la realtà esterna, ossia tutto ciò che costituisce l’altro da sé stessi”), nonché quello relativo “alla sofferenza morale scaturente dalla diversa ed intrinseca relazione del soggetto con sé stesso”.
Nella articolata motivazione vengono sviluppate dalla Cassazione ulteriori considerazioni ad integrazione di quelle contenute nella decisione della Corte di Appello impugnata, che sostanzialmente confermano in subiecta materia un orientamento che, dopo le c.d. sentenze di S. Martino del 2008, si sta sempre più consolidando.
Danno patrimoniale (art. 1223 CC) e non patrimoniale (art. 2059 CC) sono sostanzialmente le due macrocategorie (composte da varie voci, aspetti o sintagmi) del pregiudizio che può subire una persona per effetto di un fatto illecito altrui.
Il danno non patrimoniale consiste nella lesione di qualsiasi interesse della persona non suscettibile di valutazione economica (v. Cass. 26972/2008) ed ha natura unitaria ed omnicomprensiva.
Natura unitaria sta a significare che non vi è alcuna diversità nell’accertamento e nella liquidazione del danno causato dalla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, sia esso costituito dalla lesione alla reputazione (v. anche Cass. 18174/2014), alla libertà religiosa e sessuale , piuttosto che a quella attinente il rapporto parentale.
Natura omnicomprensiva vuol dire che nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio non patrimoniale, il Giudice deve tener conto di tutte le conseguenze che ne sono derivate, nessuna esclusa con l’osservanza di due reali limiti: il primo, è rappresentato dalla necessità di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici sì da procedersi a due liquidazioni (v. anche Cass. 26972/2008, Cass. 21716/2013); il secondo, invece, riguarda la impossibilità di liquidazione di risarcimenti c.d. bagatellari, nel senso che il pregiudizio non patrimoniale di cui si chiede il ristoro, deve aver superato una soglia minima di apprezzabilità (v. anche Cass. 5237/2011; Cass. 16133/2014).
Ma la parte più interessante della sentenza, è quella che riferisce del difficile compito del Giudice quando è chiamato ad occuparsi della persona e dei suoi diritti fondamentali, il quale è tenuto ad accertare e liquidare il danno non patrimoniale non certo attraverso la creazione di astratte classificazioni ma verificando nel concreto la sussistenza di effettivi pregiudizi che permettono l’integrale ristoro.
Il procedimento ermeneutico è di tipo induttivo nel senso che, all’esito della identificazione della indispensabile situazione soggettiva protetta a livello costituzionale (salute, rapporto familiare e parentale, onore, reputazione, libertà religiosa, il diritto di libera espressione del pensiero o di associazione, etc) è consentita  al Giudice una rigorosa analisi e valutazione sul piano probatorio, sia dell’aspetto interiore del danno (la sofferenza morale), quanto del suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno esistenziale).
È  la sofferenza umana, dunque, oggetto della valutazione giudiziaria, nei suoi due momenti essenziali: il dolore interiore e la modificata alterazione della vita quotidiana.
“Danni diversi e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili, ma se e solo se (avverte perentoriamente la Corte Regolatrice) rigorosamente provati, caso per caso al di là di sommarie quanto imprevedibili generalizzazioni.
In questo senso, non sarebbe corretto opinare che, al cospetto di un lutto familiare, ai superstiti spetterà sempre e comunque il ristoro del danno da perdita del rapporto parentale, di quello morale e di quello alla vita di relazione, dovendosi accertare, sulla base di quanto dedotto e provato,  se ed in che misura il lutto abbia nociuto al benessere materiale, fisico e morale del superstite.
Ricorda, al riguardo, la decisione in esame che “anche il dolore più grave che la vita può infliggere, come la perdita di un figlio, può non avere alcuna conseguenza in termini di sofferenza interiore e di stravolgimento della propria vita di relazione per un genitore che, quel figlio, aveva da tempo emotivamente cancellato, vivendo addirittura con liberazione la sua scomparsa”.
Afferma così la Corte Regolatrice, e la qualcosa non può non sottolinearsi, come “viene definitivamente sconfessata la tesi predicativa della unicità del danno biologico, quale sorta di primo motore immobile dell’intero sistema risarcitorio”. Ed ancora “ anche all’interno del sistema delle micro permanenti, resta ferma (né avrebbe potuto essere altrimenti, non potendo le sovrastrutture giuridiche ottusamente sovrapporsi alla fenomenologia della sofferenza) la distinzione concettuale tra sofferenza interiore ed incidenza sugli aspetti relazionali della vita del soggetto; una dimensione, dunque, dinamica della lesione, una proiezione tutta (e solo) esterna al soggetto, un vulnus a tutto ciò che è altro da sé rispetto all’essenza interiore della persona".
In definitiva viene ribadito e tenuto fermo un principio, ossia quello che ogni vulnus arrecato ad un interesse tutelato dalla Carta Costituzionale, si caratterizza per la sua doppia dimensione del danno relazione/proiezione esterna dell’essere (per l’appunto il danno esistenziale) e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza: due dimensioni del danno per l’appunto “ontologicamente differenziate l’una dall’altra, non sovrapponibili sul piano fenomenologico, necessariamente indagabili, caso per caso, quanto alla loro concreta (e non automatica) predicabilità e conseguente risarcibilità”.
In tale prospettiva, conclude la S.C. che, non esistendo una tabella universale della sofferenza umana, che è scevra da qualsivoglia automatismo, sarà compito (arduo) del Giudice valutare caso per caso, sulla base degli elementi  messi a sua disposizione dalle parti, così spostandosi la questione sul piano della allegazione e della prova del danno.
Maggio 2016 - Avv.Antonio Arseni