Come è noto, per il principio nominalistico sancito dall’art. 1277, comma 1, c.c., che può definirsi il perno normativo della disciplina delle obbligazioni in esame, esse si estinguono con la stessa quantità di moneta stabilita inizialmente a nulla rilevando l’eventuale svalutazione che il valore della moneta medesima potrebbe subire nell’intervallo di tempo che va dal momento della loro nascita a quello della loro esigibilità.

Da qui la nota distinzione tra debito di valuta e debito di valore, frutto di una elaborazione giurisprudenziale ormai consolidata. Precisamente, a dire della Suprema Corte, “le obbligazioni di valore si qualificano tali allorché l’oggetto diretto ed originario della prestazione consista in una cosa diversa dal denaro, rappresentando la moneta solo un bene sostitutivo di una diversa prestazione con diverso oggetto” (ad es. risarcimento danni da illecito ex art. 2043 c.c.), “mentre sono di valuta le obbligazioni aventi fin dall’origine ad oggetto una somma di denaro (…)” (cfr. Cass. civ., sez. I, 20 gennaio 1995, n. 634).

Pertanto, mentre nei debiti di valuta il rischio della svalutazione monetaria grava sul creditore, in virtù del citato principio nominalistico espresso nell’art. 1277, comma 1, c.c., nei debiti di valore, invece, tale rischio è posto sostanzialmente a carico del debitore.

Tuttavia, le parti possono derogare al principio nominalistico pattuendo e inserendo, nei contratti da cui derivino obbligazioni pecuniarie, “clausole di rivalutazione monetaria”, ancorando così l’entità dell’importo inizialmente dovuto alle variazioni di indici e parametri prestabiliti.

Si ricorda, in proposito, che sono previste anche fattispecie in cui è lo stesso legislatore a fissare il criterio di aggiornamento dell’importo dovuto, determinando così vere e proprie ipotesi di rivalutazione legale dei crediti pecuniari. Si pensi, a titolo esemplificativo, agli artt. 5 e 6 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, che, in materia di scioglimento del matrimonio, impongono l’indicizzazione dell’assegno divorziale e di quello di mantenimento della prole, attribuendo al giudice il compito di fissare un criterio di adeguamento automatico; oppure, all’art. 155 c.c., in materia di separazione dei coniugi, in cui è previsto l’automatico adeguamento agli indici ISTAT, in assenza di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice, dell’assegno di mantenimento dei figli.

Al di là di suddette ipotesi, comunque, in caso di ritardo nell’adempimento delle prestazioni pecuniarie, il rischio della svalutazione monetaria resta a carico del creditore, in virtù del principio nominalistico sancito dall’art. 1277, comma 1, c.c., ma, non per questo, al creditore pecuniario non spetti un risarcimento del danno in caso di mora del debitore pecuniario.

Il codice civile del 1865 prevedeva, in caso di mora nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie, un unico tipo di risarcimento del danno, ovvero il pagamento degli interessi, fatti salvi comunque i patti speciali (art. 1231).

Il codice in vigore, all’art. 1224, contiene, invece, una disciplina radicalmente opposta. Infatti, in base al disposto dell’art. 1224, comma 1, c.c., il debitore in mora deve corrispondere al creditore gli interessi legali ex art. 1284 c.c., anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno. Se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura.

La norma, in sostanza, contiene una presunzione iuris tantum circa il quantum di danno patito. Pur tuttavia, il successivo comma 2 dell’art. 1224 c.c. attribuisce al creditore che dimostri di aver subito un danno maggiore il diritto ad ottenere l’ulteriore risarcimento. Precisa, però, la norma che tale risarcimento non è dovuto se è stata convenuta la misura degli interessi moratori.

Il più delle volte, il danno maggiore patito dal creditore, in caso di adempimento tardivo delle obbligazioni in questione, consiste nella svalutazione che il denaro subisce nell’intervallo di tempo che va dal momento della nascita dell'obbligazione a quello dell’esigibilità del credito.

Quanto appena detto trova conferma nella relazione al Re del ministro guardasigilli al codice civile. Infatti, in essa si legge quanto segue: “L’alterazione del valore della moneta dovuta può verificarsi durante la mora del debitore. Il caso non è previsto espressamente, poiché esso si risolve in un danno, che è risarcibile secondo gli art. 1218 e 1224, 2° co..”

Pertanto, alla pari dei debiti di valore, anche quelli di valuta possono essere rivalutati, con la differenza, però, che, per questi ultimi, il creditore pecuniario, in virtù del principio dell’onere della prova sancito dall’art. 2697 c.c., è, appunto, onerato a provare quel maggior danno da svalutazione monetaria subito, con la conseguenza, in caso contrario, che nulla gli è dovuto se non il pagamento degli interessi ex art. 1224, comma 1, c.c., ove richiesti.

Ora, proprio in relazione al tipo di prova richiesta al creditore pecuniario che intenda ottenere l’ulteriore risarcimento ex art. 1224, comma 2, c.c., a partire dagli inizi degli anni 70 fino ai giorni nostri, tra dottrina e giurisprudenza sono sorte dispute alle quali sembra abbia posto fine, ma, a mio parere, non del tutto, la recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, ovvero la n. 19499 del 16 luglio 2008.

Fino alla metà degli anni ’70, la giurisprudenza di legittimità ha costantemente ritenuto che il creditore pecuniario dovesse fornire una prova piena e rigorosa, essendo questi tenuto a dimostrare rigorosamente il pregiudizio individuale sofferto per effetto dell’inadempimento delle obbligazioni pecuniarie (cfr. Cass. civ. 11 gennaio 1951, n. 47; Cass. civ. 20 luglio 1967, n. 1880; Cass. 8 novembre 1974, n. 3431; Cass. 19 ottobre 1977, n. 4463; Cass. 13 aprile 1977, n. 1388), prova che si risolveva nella difficile dimostrazione che, effettuando idonei investimenti, si sarebbero scongiurati gli effetti negativi della svalutazione.

In seguito, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 5670 del 30 novembre 1978, accettando le critiche mosse dalla dottrina all’orientamento anzidetto e preso atto della crisi petrolifera degli anni 70 e del conseguente crollo della moneta nazionale, ha mutato il suo precedente indirizzo, che sembrava ormai consolidato, affermando il principio secondo cui la perdita del potere di acquisto della moneta realizza concretamente un danno del quale il creditore non deve fornire alcuna prova, perché la svalutazione costituisce un fatto notorio, la cui entità può facilmente desumersi dagli indici ISTAT.

Al creditore tardivamente soddisfatto, pertanto, si riconosceva automaticamente la rivalutazione delle somme di denaro nella misura prevista dagli indici ISTAT.

Tuttavia, questo nuovo indirizzo giurisprudenziale era stato nuovamente e fortemente criticato dalla dottrina in quanto, riconoscendo automaticamente la rivalutazione, in primis, si trasformavano i debiti di valuta in debiti di valore e, in secondo luogo, come sostenuto da un Autore, il riconoscimento medesimo finiva per “assumere l’aspetto di un vero e proprio correttivo introdotto al vigore del principio nominalistico” (Di Majo, Le obbligazioni pecuniarie, Milano, 1996, 178). Infine, altra parte della dottrina sosteneva che, in tal modo, tutti i creditori tardivamente soddisfatti sarebbero stati risarciti in modo indifferenziato nella misura del potere di acquisto della moneta, senza considerare che, invece, nella realtà economica, ciascun soggetto fa del denaro un uso differente.

In risposta alle critiche sollevate dalla dottrina ed al fine di comporre il conflitto giurisprudenziale determinatosi (si consideri che, con sentenza n. 5895 del 12 dicembre 1978, la Corte di Cassazione ribadiva l’orientamento tradizionale favorevole alla necessità di una prova piena e rigorosa), la Cassazione è intervenuta nuovamente a Sezioni Unite nel 1979, con sentenza n. 3776 del 4 luglio, inaugurando un nuovo indirizzo, successivamente puntualizzato con sentenza n. 2368 del 5 aprile 1986, consistente sia nella riaffermazione della possibilità di ricorrere alla prova presuntiva, mediante il riferimento, però, a categorie economiche socialmente significative di creditori, in particolare, quella dell’imprenditore, del risparmiatore individuale, del modesto consumatore e del creditore occasionale, sia nella affermazione della possibilità di utilizzare ogni altro mezzo di prova, incluso il fatto notorio della comune esperienza.

Successivamente, in materia, la giurisprudenza ha oscillato tra i diversi orientamenti di cui si è finora parlato fino al 16 luglio 2008, quando nuovamente le Sezioni Unite della Cassazione sono intervenute con sentenza n. 19499, come già anticipato sopra.

Precisamente, nel 2008 la Cassazione ha ritenuto che “nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno di cui all’art. 1224, comma 2, c.c. (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali che siano comunque dovuti) è in via generale riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento – dovendo ritenersi superata l’esigenza di inquadrare a tal fine il creditore in una delle categorie a suo tempo individuate -, nell’eventuale differenza, a decorrere dalla data d’insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi del 1° co. dell’art. 1284 c.c.. Comunque, ha fatta “salva la possibilità del debitore di provare che il creditore non ha subito un maggior danno o che lo ha subito in misura inferiore a quella differenza, in relazione al meno remunerativo uso che avrebbe fatto della somma dovuta se gli fosse stata tempestivamente versata.”

Invece, “il creditore che domandi a titolo di maggior danno una somma superiore a quella differenza”, prosegue la Suprema Corte, “è tenuto ad offrire la prova del danno effettivamente subito, quand’anche sia un imprenditore, mediante la produzione di idonea e completa documentazione, e ciò sia che faccia riferimento al tasso dell’interesse corrisposto per il ricorso al credito bancario sia che invochi come parametro l’utilità marginale netta dei propri investimenti”, precisando, infine, la Suprema Corte medesima che “in entrambi i casi la prova potrà dirsi raggiunta per l’imprenditore solo se, in relazione alle dimensioni dell’impresa ed all’entità del credito, sia presumibile, nel primo caso, che il ricorso o il maggior ricorso al credito bancario abbia effettivamente costituito conseguenza dell’inadempimento, ovvero che l’adempimento tempestivo si sarebbe risolto nella totale o parziale estinzione del debito contratto verso le banche; e, nel secondo, che la somma sarebbe stata impiegata utilmente nell’impresa.”

In sostanza, la Corte di Cassazione ha “rispolverato” e “aggiornato” un suo precedente indirizzo, ovvero quello espresso nella sentenza n. 5670 del 30 novembre 1978, di cui si è parlato sopra, riconoscendo quindi, in via presuntiva, il risarcimento del maggior danno ex art. 1224, comma 2, c.c. a qualunque creditore che ne domandi, nell’eventuale differenza, a decorrere dalla data d’insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi del 1° co. dell’art. 1284 c.c. e, nel contempo, ponendo fine al ricorso alle categorie creditorie.

Pertanto, potrebbero muoversi avverso questo nuovo indirizzo le stesse critiche mosse dalla dottrina nel lontano 1978, di cui si è parlato sopra e alle quali si rinvia.

A mio avviso, però, la recente sentenza è criticabile solamente in merito al quantum di danno riconosciuto in via presuntiva al creditore in caso di inadempimento del debitore pecuniario. Precisamente, la differenza tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi del comma 1 dell’art. 1284 c.c., a mio avviso, non è idonea a contrastare il comportamento dilatorio del debitore.

In altri termini, quella differenza può definirsi, in concreto, un “contentino” per il creditore, anche se a quest’ultimo è sempre riconosciuta la possibilità di fornire la prova che a titolo di maggior danno gli spetterebbe una somma maggiore di quella differenza, come ha precisato la Suprema Corte nella sentenza 2008, e salva comunque la prova contraria del debitore.

A mio parere, invece, non può ritenersi che in questo modo la Corte di Cassazione abbia trasformato il debito di valuta in debito di valore, derogando giudizialmente al principio nominalistico, in quanto, come si è visto sopra, è la stessa relazione al codice civile a riconoscere la svalutazione monetaria quale maggior danno in caso di inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, relazione cui fa cenno la stessa Suprema Corte nella sentenza che qui si commenta.

Infine, va aggiunto anche che il danno da svalutazione monetaria non viene riconosciuto automaticamente ma in via presuntiva ed è noto che la presunzione è una prova a tutti gli effetti, disciplinata dagli artt. 2727 e ss. del codice civile.

Pertanto, alla luce di quanto esposto precedentemente, si può concludere dicendo che, per il momento, “chi si accontenta gode!”, ma si auspica che la questione sia nuovamente affrontata in futuro dalla Suprema Corte in relazione soprattutto al criterio di quantificazione del maggior danno da svalutazione.