IL CASO 
Tizio e Caio proponevano opposizione agli atti esecutivi avverso l’atto di precetto del geometra Sempronio, deducendo l’omessa notificazione del titolo esecutivo completo di tutti i suoi elementi (indicazione delle parti, del procedimento, del CTU), costituito dal decreto di liquidazione dei compensi dovuti al geometra quale consulente tecnico d’ufficio. L’opposizione veniva rigettata dal Tribunale di Novara ( essendo tali elementi ricavabili dall’allegato  decreto di liquidazione), il quale condannava gli opponenti al pagamento della somma di € 1.000,00 ex art. 96, 3° comma c.p.c.
La decisione veniva impugnata avanti la Corte Suprema di Cassazione da Tizio e Caio con ricorso straordinario, che veniva però rigettato.
LA DECISIONE
Con la  recente decisione del 30.12.14 n. 27534 la Corte di Cassazione pone una importante questione circa le condizioni richieste per la condanna del soccombente, in un giudizio ordinario, al risarcimento danni per lite temeraria.
Come è noto, all’art. 96 c.p.c. è stato aggiunto un terzo comma, con la L. 2009/69, secondo cui “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91 cpc, il Giudice, anche d’Ufficio, può altresì condannare la parte ricorrente, al pagamento a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.
È evidente che con il terzo comma il legislatore ha voluto introdurre uno strumento più efficace per scoraggiare l’uso improprio del processo, alla luce dei principi costituzionali della sua ragionevole durata, in una logica deflattiva del numero dei procedimenti, che costituisce la principale causa dei ritardi che accumula il sistema giustizia,  così arrecando pregiudizio al suo buon andamento ed “appesantendo” le casse dello Stato per le plurime condanne emanate sulla base della c.d. Legge Pinto.
La risarcibilità del danno da lite temeraria che, è bene ricordarlo, rappresenta in via generale la proiezione nel processo della specifica azione di cui all’art. 2043 c.c., così come prevista dal 3° comma, equivale ad una  vera e propria  pena pecuniaria,  applicabile indipendentemente dalla domanda di parte e dalla prova del danno causalmente derivato dalla condotta processuale dell’avversario.
Sulla natura sanzionatoria ed officiosa della condanna  in misura equitativamente determinata ex art. 96, 3° co. c.p.c., è attestata la giurisprudenza di legittimità e di merito, segnalandosi, al riguardo, ex multis, da ultimo Cass. 2014/3003; Tribunale di Bari 2014/1273; Tribunale di Milano 2014/3100; Tribunale di Modena 2013/217.
Quanto appena detto, nulla toglie al fatto che in ogni caso è necessario accertare la sussistenza, nel caso concreto, di una delle due ipotesi prescritte dal comma 1° dell’art. 96 c.p.c., rappresentate dalle condizioni soggettive  di mala fede e colpa grave di chi abbia asseritamente abusato del processo, ossia abbia utilizzato lo strumento per fini esulanti dal suo scopo tipico ed al di là dei limiti determinati dalla sua funzione (così v. Mandrioli, Diritto Processuale Civile 1^ Torino 2011, p. 409 e segg.). E’ questo il senso della sentenza della Cassazione in rassegna, la quale esplicitamente chiarisce che la necessità di detto accertamento deriva non solo dalla circostanza “che la relativa previsione è inserita nella disciplina della responsabilità aggravata ma anche perchè chi agisce in giudizio, per far valere una pretesa che si rivela poi infondata,  non è condotta di per sé rimproverabile (Cass. Ord n. 21570 del 2012)”.
Pertanto, anche con riguardo alla fattispecie di cui al 3° comma  dell’art. 96 c.p.c. occorre far riferimento, ai fini della ricorrenza dei presupposti di risarcibilità, al significato che è stata fornito dalla giurisprudenza alle ipotesi di malafede e colpa grave che connotano la temerarietà della lite, laddove la prima deve essere ravvisata nella coscienza della infondatezza della domanda, mentre la seconda nella carenza della ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta coscienza.
In tale contesto (e questa appare la parte più importante del decisum della S.C) il sindacato del Giudice di merito circa la “manifestata infondatezza” della domanda, promossa temerariamente per motivi pretestuosi, equivale a denotare il comportamento processuale del soccombente del requisito soggettivo della colpa grave in coerenza con la  previsione normativa dell’art. 96 c.p.c.
Quest’ultima, chiarisce la Cassazione nella sentenza in commento, “si distingue dal dolo, che presuppone la coscienza della infondatezza della domanda, perché consiste nella  colpevole ignoranza in ordine a detta infondatezza, vale a dire, per quanto riguarda il giudizio di opposizione agli atti esecutivi, nella colpevole insistenza in ragioni di censura dell’azione esecutiva del creditore, la cui inconsistenza  giuridica ben avrebbe potuto essere apprezzata da parte degli opponenti con l’uso della ordinaria diligenza, in modo da evitare una opposizione a precetto del tutto pretestuosa”.
In conclusione, la sentenza de qua enuncia la regola secondo cui se è vero che il Giudice può d’Ufficio condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, tale determinazione presuppone l’accertamento della esistenza di una condizione soggettiva da mala fede o colpa grave, quest’ultima resa evidente (e quindi apprezzabile ai fini della condanna per lite temeraria)  dalla insistenza nel prospettare  ragioni di censura dell’azione esecutiva del creditore  talmente inconsistenti da poter indurre la suddetta parte processuale, laddove avesse usato l’ordinaria diligenza, ad evitare la proposizione di  un’azione del tutto pretestuosa.
Nella specie la manifesta  inconsistenza della ricordata opposizione agli atti esecutivi è stata affermata dal Tribunale, che ha fatto riferimento alla promozione di una lite temeraria per motivi pretestuosi, in coerenza, quindi, con la previsione normativa di cui all’art. 96 c.p.c., privando di fondamento la censura  relativa alla esistenza  di un vizio motivazionale della sentenza gravata.
Cerveteri 12.01.2015          Avv. Antonio Arseni