Costituisce reato insultare il condomino che chiede di rispettare il silenzio durante le ore serali. 
La quinta sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 48072 del 22 dicembre 2011, ha confermato la decisione di condanna per ingiuria disposta dai giudici di merito nei confronti di una donna che aveva rivolto pesanti invettive ad una condomina che, infastidita dal rumore eccesivo, le aveva chiesto di fare più silenzio in modo da consentire il riposo del figlio neonato di otto mesi.
La Corte di Cassazione non ha dubitato della portata offensiva del ripetuto epiteto «vaffa…», accompagnato da altre espressioni altrettanto ingiuriose.
La richiesta del silenzio, perché a causa del rumore si impediva il sonno del neonato di otto mesi, seppure effettuata bussando più volte alla porta del vicino, non è un fatto che possa ritenersi tanto ingiusto da legittimare una reazione scomposta, mediante l’utilizzo, in un evidente stato d’ira, di frasi ingiuriose.
Si tratta, come sottolinea la Corte, di ribadire i canoni minimi di una civile convivenza. Neppure il richiamo a pregressa giurisprudenza della stessa Corte, che talvolta ha scriminato determinati epiteti in specifici contesti (come quello della lotta politica), consente di pervenire a conclusioni diverse, spettando in ogni caso ai giudici del merito la valutazione della portata offensiva delle frasi pronunciate, i quali devono tenere necessariamente in conto del contesto in cui il fatto si è verificato. Nel caso di specie la motivazione che sorregge detta valutazione è stata ritenuta dalla Corte congrua ed immune da manifeste illogicità e, dunque, non censurabile in sede di legittimità.
Pertanto, gli ermellini hanno respinto il ricorso proposto, ritenendo il comportamento della ricorrente che ha reagito alla richiesta del silenzio notturno non adeguato alla buona educazione e alle buone regole del vivere civile, ma integrante, piuttosto gli estremi del reato di ingiuria ex art. 594 c.p.
Eppure, in altri casi, la stessa Corte di Legittimità ha valutato tali espressioni come non idonee a ledere l’onore e il decoro protetto dalla norma incriminatrice (Cass. pen., sez. V, 13 luglio 2007, n. 27966; nonché Cass. pen., sez. VII, 16 ottobre 2001, n.41752).
Occorre precisare che l’articolo 594 c.p. non tipizza in modo preciso la condotta delittuosa, ma si limita ad affermare, nell’incipit del primo comma, che: “Chiunque offende l'onore o il decoro di una persona presente è punito con…”. In presenza di un dato testuale così ampio, per capire quando una determinata espressione possa ritenersi ingiuriosa oppure no, è necessario far riferimento a dei criteri di valutazione, mutuati dalla comune coscienza sociale, che potremmo così sommariamente sintetizzare: 1) Contenuto dell’espressione nel significato che essa riveste nel linguaggio comune; 2) Contesto spazio-temporale in cui l’espressione viene pronunciata; 3) Personalità dell’offeso e dell’offensore; 4) Rapporto intercorrente tra offeso ed offensore; 5) Presenza di eventuali antecedenti fattuali; Applicando tali criteri al caso in esame, è evidente che una determinata espressione volgare, pur di uso comune, possa riacquistare una portata offensiva se pronunciata nel contesto dei rapporti di vicinato; rapporti che, come rilevato da Cassazione n. 3931 del 28 gennaio 2010, “devono essere improntati ad un maggiore rispetto reciproco tra le persone, pechè' altrimenti inducono ad una impossibilità di convivenza, che invece è necessitata dalla quotidiana relazione nascente dal fatto abitativo, e che deve essere garantita”. (Avv. Gianluca Perrone)