La L. 108/1996 ha riformato il sistema di lotta all’usura, oltre che inasprendo e rendendo più efficace, in sede penale, la repressione della condotta di chiunque si faccia dare o promettere interessi usurari quale corrispettivo di una prestazione di denaro (art. 644 c.p.), prevedendo, in sede civile, la nullità della pattuizione dei suddetti interessi, che non sono, quindi, più dovuti al creditore (art. 1815 secondo comma c.c.).
La stessa legge ha inoltre individuato una precisa soglia numerica oltre la quale il tasso d’interesse è usurario, calcolata aumentando in misura percentuale (nei termini precisati all’art. 2 ultimo comma) il c.d. TEGM, ovverosia il tasso effettivo globale medio, praticato dalle banche (e dagli altri operatori finanziari autorizzati) per ciascuna singola categoria di operazioni di credito (ad. es. mutui, leasing, anticipazioni ed aperture di credito in conto corrente, ecc.), trimestralmente rilevato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze sulla scorta delle indicazioni della Banca d’Italia, e pubblicato in Gazzetta Ufficiale.
Non, quindi, un valore “fisso”, bensì variabile nel tempo – seppure sulla base di parametri predeterminati – in base all’andamento del mercato.
All’indomani della riforma, si è subito posto il problema se anche i finanziamenti antecedenti fossero soggetti alle suddette soglie ivi previste.
Ci si è chiesti, ad esempio, se un mutuo ventennale pattuito nel 1982, il cui tasso d’interesse era elevato in ragione dell’inflazione a due cifre dell’epoca, potesse essere considerato usurario in base alla soglia successivamente individuata nel 1997 (anno delle prime citate rilevazioni trimestrali), in un contesto di inflazione, e correlati tassi medi d’interesse, di gran lunga inferiore, e, quindi, se fosse corretto affermare per il suddetto mutuo, originariamente rispondente ai dettami di legge, di “usura sopravvenuta”, con conseguente disapplicazione, per effetto della succitata nullità sancita dall’art. 1815 secondo comma c.c., del tasso d’interesse praticato, ed obbligo del debitore di restituire alla banca solamente il capitale ricevuto, ma non anche di pagare gli interessi.
Ci si è, anche, domandati se fosse consentito parlare di usura sopravvenuta per i rapporti di finanziamento già esauritisi prima della L. 108/1996 (con conseguente obbligo degli istituti di credito, addirittura, di restituire ex post al cliente gli interessi da questi pagati…), nonché per quelli sorti dopo l’entrata in vigore della L. 108/1996, ma il cui saggio d’interesse, originariamente pattuito sotto la soglia trimestralmente rilevata nei termini appena descritti, si sia attestato nel corso della vita del finanziamento al di sopra.
Il D.L. 394/2000, conv. con L. 24/2001 ha dato risposta alle suddette questioni stabilendo, con efficacia retroattiva, che “ai fini dell’applicazione dell’art. 644 del codice penale e dell’art. 1815, secondo comma, del codice civile”, il raffronto del tasso concretamente applicato al finanziamento, col c.d. “tasso soglia” ex L. 108/1996, deve essere esclusivamente effettuato avuto riguardo al momento della stipula del contratto di finanziamento.Le decisioni dei Tribunali hanno quindi, anzitutto, pacificamente escluso che possa considerarsi usurario un mutuo estintosi prima dell’entrata in vigore della L. 108/1996, essendo evidentemente nato, vissuto e morto quando non esisteva ancora alcun tasso soglia oltre il quale lo si potesse definire tale.Dubbi sono tuttavia rimasti relativamente ai finanziamenti antecedenti alla L. 108/1996, ma ancora pendenti dopo la sua entrata in vigore, e per quelli successivi, il cui tasso originariamente sotto soglia sia poi divenuto superiore, avendo alcune corti di giustizia e studiosi del diritto ritenuto che le previsioni del D.L. 394/2000 riguardino la sola più severa sanzione di nullità – e conseguente radicale non debenza - degli interessi prevista dall’art. 1815 secondo comma c.c., ma non anche altri rimedi come, ad esempio, l’automatica riduzione (ai sensi degli artt. 1419 e 1339 c.c.) dei tassi divenuti usurari entro i limiti del tasso soglia via via vigente, restando quindi dovuti solo in questa misura.
Orientamento, questo, che trae anche origine da un discusso passo della sentenza n. 29/2002 della Corte Costituzionale la quale, nel respingere il sospetto di incostituzionalità del D.L. 394/2000, ha comunque affermato l’inapplicabilità della suddetta norma agli eventuali ulteriori strumenti di tutela previsti dal codice civile per il soggetto finanziato.
Inoltre, sempre secondo questo orientamento, la perdurante applicazione da parte di un istituto di credito di un saggio d’interesse che sia, nel frattempo, divenuto usurario, confliggerebbe con l’obbligo di rispetto della buona fede nell’esecuzione dei contratti, stabilito dall’art. 1375 c.c.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la recente sentenza n. 24675 del 19.10.2017 hanno tuttavia bocciato detta corrente di pensiero, rimarcando come la definizione di tasso usurario, richiamata anche dall’art. 1815 c.c., sia stabilita solo ed esclusivamente dall’art. 644 c.p., il quale rinvia, a propria volta, per il suo calcolo, alla legge 108/1996, e la cui applicazione non può prescindere dal D.L. 394/2000, ai sensi del quale il vaglio di usurarietà deve essere effettuato solo ed esclusivamente al momento della pattuizione del tasso. Diversamente, si accederebbe ad un’inammissibile nozione di usura, non rispondente a tali stringenti dettami di legge.
Le Sezioni Unite hanno inoltre aggiunto che il sistema delineato dal Legislatore del 1996 risponde ad una volontà di repressione dell’intento usurario del soggetto finanziatore al momento della pattuizione, che verrebbe frustrata allorché venissero sanzionate anche situazioni – come quelle a cui fa riferimento l’ipotizzata usura sopravvenuta - indipendenti dalla sua responsabilità, bensì dalle fluttuazioni dei tassi in base all’andamento del mercato.
Anche il citato discusso passo della sentenza n. 29/2002 della Corte Costituzionale non appare, ad avviso delle Sezioni Unite, decisivo, non consentendo comunque esso di affermare l’inefficacia di un tasso successivamente alla sua pattuizione, in quanto ciò contrasterebbe col dettato del D.L. 394/2000, bensì solo di utilizzare altri (peraltro non meglio definiti) rimedi di legge.
Desta, infine, perplessità il sintetico e non ulteriormente argomentato passaggio della decisione delle Sezioni Unite in commento, secondo il quale la perdurante riscossione da parte dell’istituto di credito di un tasso d’interesse divenuto sopra soglia ex L. 108/1996 non denoterebbe, di per sé, mala fede in contrasto con l’art. 1375 c.c., in quanto ciò costituirebbe pur sempre per la banca esercizio di un diritto previsto nel contratto. Ad avviso della Cassazione, per poter affermare la violazione della buona fede nell’esecuzione del contratto, si dovrebbe invece porre attenzione alle “particolari modalità di tale esercizio in concreto, che siano appunto scorrette in relazione alle circostanze del caso”.
Così argomentando, tuttavia, più che chiudersi definitivamente ogni spiraglio argomentativo alla tesi dell’usura sopravvenuta, potrebbero, all’opposto, aprirsene di nuovi.