Capita frequentemente di imbattersi in contratti di finanziamento che prevedano interessi di mora tanto elevati da superare il tasso soglia usura determinato trimestralmente dal Ministero dell’Economia.
Anche se il tema richiederebbe una trattazione più approfondita, si può affermare sinteticamente che in queste situazioni, sempre più spesso (anche se non mancano pronunce di segno opposto), la giurisprudenza sta considerando assoggettabili alla disciplina antiusura gli interessi moratori partendo dalla lettura dell’art. 644 c.p. e della Legge 24/2001 in base ai quali “si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.
Alla luce di questi principi, pertanto, non è corretta una differenziazione tra interessi corrispettivi e moratori per le seguenti ragioni:
a) in primo luogo, perché contrasta con le disposizioni normative su richiamate, che impongono un calcolo complessivo del costo del credito, che possa definirsi unico ed omnicomprensivo di tutte le voci poste a carico del mutuatario;
b) in secondo luogo, perché la natura eventuale dell'interesse moratorio è del tutto irrilevante ai fini dell'usurarietà, giacché la nullità di cui all'art. 1815, comma 2, c.c. colpisce la pattuizione di interessi di una determinata entità, a prescindere dal concreto verificarsi del ritardo nell'inadempimento;
c) in terzo luogo, perché l'applicazione del tasso di interesse moratorio alla singola rata insoluta non impedisce che esso sia computabile sull'intera sorte capitale data a mutuo, essendo invero possibile che il mutuatario resti inadempiente sin dall'inizio della restituzione rateale pattuita” (Trib. Bari, 08.11.2016; G.I. Ruffino).
In questi casi, tuttavia, non tutti concordano sulla sanzione da applicare. Quindi, le soluzioni prospettate possono essere di due tipi:
1) nullità dell’intero contratto, con conseguente obbligo di restituzione di tutti gli interessi da parte della banca o dell’intermediario finanziario (art. 1815 comma 2 c.c.)[1];
2) nullità della sola clausola che disciplina gli interessi di mora, con conseguente obbligo di restituzione dei soli interessi corrisposti per il ritardo nel pagamento delle singole rate[2].
A favore della prima soluzione si sono espressi diversi Tribunali sulla scia della nota sentenza n. 350/2013 della Cassazione.
Infatti, per la Suprema Corte “ai fini dell'applicazione dell'art. 1815 c.c. e dell'art. 644 c.p., si considerano usurari gli interessi che superano il limite stabilito nella legge al momento in cui sono promessi o comunque convenuti a qualunque titolo, e quindi anche a titolo d'interessi moratori”.
A quella sono seguite numerose altre pronunce fino ad arrivare ad un’altra recentissima sentenza della S.C. secondo cui “orbene, è noto che in tema di contratto di mutuo, l’art. l della legge n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori (Cass. 4 aprile 2003, n. 5324). Ha errato, allora, il tribunale nel ritenere in maniera apodittica che il tasso soglia non fosse stato superato nella fattispecie concreta, solo perché non sarebbe consentito cumulare gli interessi corrispettivi a quelli moratori al fine di accertare il superamento del detto tasso; e ancora ha errato il detto giudice nel ritenere che, non contestando la quantificazione degli interessi moratori come operata dalla banca, l’opposta avrebbe sostanzialmente rinunciato all’eccezione di nullità della clausola relativa ai detti interessi. In direzione contraria non vale quanto osservato nella memoria ex art. 378 c.p.c. dalla banca controricorrente, per la decisiva considerazione che il tribunale non ha affatto ritenuto di porre a fondamento della decisione la consulenza di parte (prodotta in giudizio dall’opponente) dalla quale pure emergerebbe la mancata violazione della legge n. 108 del 1996” (Cass. n. 5598 del 6.3.2017).
Dunque, in questi casi il cliente sarà tenuto a rimborsare solo il capitale senza dover corrispondere interessi.
Laddove, invece, si dovesse aderire alla seconda ipotesi (nullità della sola clausola che disciplina gli interessi di mora), la giurisprudenza, traendo ispirazione dal combinato disposto di cui agli artt. 1384 e 1339 c.c., ha creato ed applicato una forma di sanzione consistente nella riduzione della clausole nulle riconducendole al livello del tasso soglia[3].
Tale considerazione nasce dall’esame del principio della buona fede contrattuale innanzi citato[4]. Come sostiene buona parte della dottrina, «un ruolo significativo può essere riservato, ad esempio, alla clausola generale di buona fede quale fonte di un obbligo di rinegoziazione legale tutte le volte in cui la pretesa di interessi divenuti usurari non trovi giustificazione neppure alla luce della distribuzione dei rischi programmata a monte dalle parti; ciò nel senso che la sostituzione del singolo patto non determinerebbe una alterazione sostanziale della medesima programmazione»[5].
Un conforto a questa tesi è giunto anche dalla giurisprudenza di merito laddove afferma che «il giudice di merito può intervenire sul contratto per rimodellare i tassi di interesse in presenza di comportamenti contrari alla buona fede, tali essendo quelle condotte in cui il creditore pretenda il pagamento di interessi divenuti eccessivi rispetto a quelli praticati sul mercato; donde, in virtù del principi di buona fede esecutiva di cui all’art. 1375 c.c., il contratto va integrato riducendo il tasso pattuito secondo i principi di equità» (Trib. Lamezia, 2 novembre 2011).
Ma si tratta pur sempre di una sanziona che non trova origine da una specifica norma. Pertanto, sorge il dubbio legittimo se questo possa essere ritenuto il rimedio più corretto, specie se si considera che la riduzione al livello del tasso soglia spesso è minima e comunque, tenendo conto di tutti gli altri costi contrattuali (spese gestione pratica, incasso rata, assicurazione, ecc.) non produce alcun reale riequilibrio nel rapporto tra banca e cliente. In quest’ottica, l’abbassamento al livello del tasso soglia (per la non elevata differenza tra il tasso usurario e la soglia medesima) sembra porsi quasi come un incentivo agli istituti di credito a convenire interessi (moratori) molto prossimi alla soglia usuraria, vista la mitezza della pena.
Orbene, facendo sempre richiamo al criterio della buona, appare più equo e saggio applicare, in sostituzione delle clausole nulle, o il tasso medio rilevato trimestralmente dal MEF (cd. TEGM) oppure l’interesse legale[6].
Del resto, la semplice riconduzione al livello della soglia degli interessi usurari rappresenta una mera convenzione non sancita da alcuna norma in modo espresso. Non a caso, in giurisprudenza non sono mancate pronunce che hanno fatto riferimento al tasso legale:
Gli interessi di mora sono soggetti alla disciplina sull'usura ma, non essendo possibile accomunare interessi moratori e interessi corrispettivi in quanto aventi natura e funzioni diverse, la usurarietà degli interessi moratori comporta la nullità soltanto della clausola che li prevede, con riduzione degli interessi al tasso legale in caso di usura originaria e al tasso soglia in caso di usura sopravvenuta. In tal modo si scongiura il rischio di premiare ed incentivare l'inadempimento, che costituisce pur sempre una mera eventualità patologica nello svolgimento del rapporto contrattuale e che potrebbe risultare addirittura conveniente se si accede alla tesi della gratuità dell'intero negozio” (Trib. Siracusa, 10.02.2017)[7].
In conclusione, pur nella consapevolezza dei notevoli contrasti giurisprudenziali, la tesi più aderente alle norme vigenti in materia (art. 644 co. 4 c.p., L. 24/2001, art. 1815 co. 2 c.c.) deve far propendere per la usurarietà anche dei soli interessi di mora e per la gratuità dell’intero contratto. Tuttavia, nell’ipotesi in cui si volesse prediligere la nullità parziale del contratto, e quindi della sola clausola disciplinante gli interessi moratori, appare più corretto sostituire gli interessi nulli con il tasso medio rilevato trimestralmente dal MEF (cd. TEGM) oppure con gli interessi legali .   [1] Tra le pronunce più recenti: Trib. Ravenna, 17.07.2017 n. 685; Trib. Viterbo 14.06.2017; Trb. Como 13.07.2017.[2] Sul punto si è espresso di recente il Trib. di Roma con le sentenze: n. 12700 del 21.06.2017; n. 6956 del 06.04.2017. V. anche Trib. Padova 06.04.2017;[3] “l’art. 1815, secondo comma c.c., prevede espressamente che, se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla e non sono dovuti interessi, la sanzione è quindi chiaramente ricollegata alla clausola, di modo che ove solo la pattuizione relativa agli interessi di mora sia nulla, in ragione della distinzione sopra rilevata, il vizio non si estende alla clausola di determinazione degli interessi corrispettivi” (Trib. Milano, 08.03.2016 – G.I. Dott. Stefani).[4] Cfr. A.A. DOLMETTA, Su usura e interessi di mora: questioni attuali, in Banca borsa tit. cred., 2013, II, p. 509 s.: «[…] normalmente il carico dei tassi moratori […] stabiliti in contratto andrà a confrontarsi con delle rilevazioni trimestrali di formazione posteriore […]. È quanto dire, insomma, che per regola il fenomeno in questione finisce sostanzialmente per rifluire in quello, più generale, dell’usura sopravvenuta». Con riguardo al profilo rimediale, pertanto, in questa prospettiva non troverebbe applicazione la sanzione dettata dall’art. 1815, comma 2, c.c.; «lo scavalcamento del limite comporterà, piuttosto, una riduzione equitativa del carico economico; sostanzialmente sul filo dell’azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c.».[5] M. Semeraro, Usura originaria, usura sopravvenuta e interessi moratori, in dirittobancario.it[6] “La tesi che riporta il carico economico al livello del TEGM si vota all’indice fornito dal mercato del credito:  per tale intendendo, in termini convenzionali, le voci utilizzate dall’Autorità amministrativa per la enucleazione effettiva dei tassi medi. La tesi che riporta il carico all’interesse legale fa invece riferimento base agli indici forniti dal «rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore ai dodici mesi» e dal «tasso di inflazione registrato nell’anno». E’ chiaro, in definitiva, che si tratta di semplici varianti interne di un unico ceppo ideale, fondato sull’equità” (A.A. DOLMETTA, Sugli effetti civilistici dell’usura sopravvenuta, in Il Caso.it).[7] Nello stesso senso: Trib. Roma, 13 novembre 1997, in Banca borsa tit. cred., 1998, II, p. 501 ss., e il citato Trib. Lamezia Terme, 2 novembre, 2011, in de jure.