Con la sentenza 9695/2011 del 3.5.2011 la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi di diverse questioni “calde” afferenti i rapporti tra cliente e banca: anatocismo, clausole di determinazione degli interessi e delle commissioni mediante rinvio agli usi piazza, prova de credito fatto valere dalla banca.

Con riferimento alla capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori, la Suprema Corte ha ribadito l’illegittimità delle clausole che prevedono l’anatocismo per violazione dell’art. 1283 cod. civ., secondo il quale la capitalizzazione degli interessi è consentita: i) in mancanza di usi contrari e ii) purché gli interessi siano scaduti da almeno sei mesi. Ebbene, la Cassazione ha ribadito il proprio ormai consolidato orientamento in materia, secondo il quale la capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori applicavata dalle banche era frutto di un uso negoziale e non di un uso normativo, in quanto le banche non praticavano l’anatocismo nella consapevolezza di osservare una norma giuridica e dunque nella convinzione di tenere un comportamento giuridicamente obbligatorio (cd. opinio iuris ac necessitatis), e pertanto tale prassi è contraria al disposto dell’art. 1283 cod. civ.. Infatti

Quanto alla determinazione del tasso di interesse e delle altre condizioni di contratto (ad es. commissioni, valute di accredito) mediante il rinvio ai cosiddetti “usi piazza”, la Corte, nel solco ormai consolidato della propria giurisprudenza, ha ribadito che - in linea di principio – la determinazione di clausole contrattuali per relationem non è di per sé illegittima, purché si faccia riferimento a criteri prestabiliti ed univoci, validi per tutte le banche. Ma poiché tale univocità non si riscontra nel riferimento agli “usi piazza”, il rinvio operato da tali clausole comporta assoluta indeterminatezza e indeterminabilità del contenuto della clausola negoziale, e dunque tale previsione è illegittima. Per quanto riguarda specificamente il saggio di interesse, soccorre altresì l’art. 1284, comma III, cod. civ., a norma del quale gli interessi superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto.

Per quanto concerne le clausole aventi ad oggetto alti aspetti economici del contratto di conto corrente, come ad esempio le commissioni e/o la postergazione delle valute di addebito, la Suprema Corte ha chiarito che il rinvio agli usi piazza contenuto nelle relative clausole è illegittimo, stante la non univocità e dunque l’incertezza di tali usi, da qualificarsi – al pari della capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori – quali semplici usi negoziali e non quali usi nomativi.

Per quanto attiene alla prova del credito azionato dalla banca, la Corte di Cassazione ha chiarito che l’estratto di conto corrente certificato conforme alle scritture contabili da un dirigente della banca che attesta altresì che il credito è vero liquido, ai sensi dell’art. 50 TUB, ha efficacia probatoria limitatamente al procedimento monitorio. Quando il credito è contestato, la banca deve fornire ulteriore prova del credito fatto valere.

Infine, si evidenzia che la sentenza in commento statuisce anche sulla decorrenza del termine di prescrizione delle rate del mutuo impagate: secondo la Corte di Cassazione, poichè il debito derivante dalla stipulazione del mutuo (in questo caso fondiario) è unico, benchè frazionato in versamenti periodici, il termine decennale di prescrizione decorre non dalla data di stipulazione del mutuo, ma dal giorno della scadenza della rata, poichè è solo da tale momento che la banca mutuante può pretendere il pagamento della rata.
Dalla natura unitaria del debito derivante dal mutuo la Corte di Cassazione fa discendere un importante corollario: il diritto della banca a pretendere gli interessi maturati sulle somme dovute non è soggetto al termine di prescrizione quinquennale previsto dall'art. 2948 n. 4, cod. civ., ma al medesimo termine di prescrizione decennale delle rate di mutuo. In altre parole, quando i versamenti rateizzati comprendono anche gli interessi maturati sulla somma dovuta, il diritto di pretendere il pagamento degli interessi si prescrive in dieci anni come il diritto a pretendere il pagamento della quota capitale, poichè la causa debendi delle due prestazioni (interessi e capitale) è la medesima.