LA CAPITALIZZAZIONE TRIMESTRALE DEGLI INTERESSI PASSIVI.



Si può affermare con relativa tranquillità che sempre vivo e attuale per il dibattito giuridico è il tema dell’anatocismo bancario e della intimamente correlata problematica attinente alla c.d. commissione di massimo scoperto. Le ragioni sono molteplici: in primo luogo, il crescente exploit delle esigenze dei consumatori, a fronte di prassi bancarie non sempre trasparenti (quando non affatto illecite), e comunque vessatorie nei confronti dei privati, ha reso sempre più forte la richiesta di giustizia da parte dei titolari di conti correnti, spesso inopinatamente gravati da esose richieste; una richiesta che è tanto più meritevole di accoglimento, ove si consideri la fase nettamente recessiva dell’attuale panorama economico. 

Senza volerci dilungare in disquisizioni sulla nozione economica di “interesse”, né sulle relative metodologie di calcolo secondo i principi della ragioneria e della scienza delle finanze, vogliamo qui accennare sinteticamente al fenomeno in questione e tracciare una breve cronistoria delle recenti vicende che lo hanno avuto ad oggetto, prima di trattare gli aspetti propriamente tecnico- giuridici. L’anatocismo è quell’istituto giuridico, conosciuto sin dagli albori del credito, in virtù del quale gli interessi, che si sono prodotti su una determinata somma X- concessa in prestito ad un soggetto N, nell’arco di un determinato periodo temporale Z- si sommano ad X, producendo a loro volta interessi; è per questo che, in riferimento a tale fenomeno giuridico, si parla anche di “interesse composto”, ovvero di “interessi sugli interessi".


Si tratta di una clausola contrattuale tipicamente connessa ai rapporti bancari, comportanti la concessione di un affidamento ad un soggetto privato (apertura di credito, anticipazione bancaria, etc.), e regolati in conto corrente secondo gli artt. 1852 e ss. del codice civile. Nella prassi bancaria, essa opera attraverso il meccanismo della capitalizzazione trimestrale, per la quale gli interessi che si sono prodotti sull’eventuale saldo passivo sono liquidati e capitalizzati- cioè “trasformati” in capitale- ad ogni chiusura convenzionale del conto, che avviene con cadenza trimestrale; l’effetto evidente di questa trasformazione contabile è quello di aumentare il capitale, su cui saranno conteggiati i successivi interessi.

La giurisprudenza aveva sempre ritenuto legittima la capitalizzazione trimestrale degli interessi negativi da parte degli istituti bancari, sul presupposto della esistenza di un uso normativo in tal senso, idoneo a derogare all’art. 1283 c.c. Tuttavia, come si ricorderà, alcune sentenze della Cassazione civile del 1999- Cass. 16 marzo 1999, n. 2374; Cass. 30 settembre 1999 n. 3096; Cass. 11 novembre 1999 n. 12507- hanno, mutando l’orientamento sino ad allora seguito, dichiarato nulle- per contrarietà alla norma imperativa dell’art. 1283 c.c. - le clausole in questione, sulla scorta dell’affermazione dell’inesistenza, nel periodo antecedente all’entrata in vigore del codice civile, di un uso normativo che le legittimasse ai sensi della citata norma civilistica. Gli effetti della declaratoria di nullità sono stati successivamente meglio definiti e precisati dalla Cassazione- con sentenza 4 novembre 2004 n. 21095- sancendo la retroattività del nuovo orientamento ai contratti già in essere al 1999.

Un tale mutamento nelle posizioni della massima istanza giurisdizionale dell’ordinamento ha, com’è evidente, aperto le porte ad una massiccia quantità di azioni legali dei titolari di conto corrente contro gli istituti bancari, volte a fare dichiarare la nullità parziale dei contratti bancari in parte qua, e conseguentemente ad agire per la ripetizione dell’indebito oggettivo, previo ricalcolo dell’effettivo dare- avere tra le parti. Per “salvare” le banche dal relativo contenzioso, è sceso in campo il legislatore che, con il Decreto Legislativo 4 agosto 1999 n. 342, ha tentato di legittimare ex post le clausole anatocistiche, divenute nulle in base alla nuova opinione manifestata dai giudici. In tale provvedimento, contenente una serie di modifiche ed integrazioni al Testo Unico Bancario, e costituente attuazione dell’art. 1 co.5 L. 24 aprile 1998, n. 128, il Governo inseriva all’art. 25 una disposizione che, da una parte, prevedeva la possibilità di pattuire la capitalizzazione per il futuro, secondo modalità la cui determinazione veniva rimessa in concreto ad apposita delibera del Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio, e con l’unico limite della necessità di garantire la medesima periodicità del meccanismo di capitalizzazione, sia con riguardo agli interessi passivi, sia con riguardo agli interessi attivi (vale a dire nei crediti vantati dal correntista nei confronti della banca). Dall’altra parte- ed ecco l’aspetto “di favore”- si riconosceva piena validità ed efficacia alle clausole di capitalizzazione trimestrale stipulate nel periodo pregresso al decreto, salvo l’obbligo del loro adeguamento a quanto stabilito dal CICR nella medesima Delibera di cui sopra.

La Corte Costituzionale, con sentenza 17 novembre 2000 n. 425, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 25 co.3 D. Lgs. 342/99, in riferimento all’art. 76 Cost.: in sostanza, la legge delega autorizzava il Governo ad emanare una disciplina integrativa e correttiva del TUB, ma non una sanatoria, con efficacia retroattiva, capace di rendere valide clausole nulle per contrarietà a norme imperative contenute nel codice civile. La presa di posizione della Consulta ha sostanzialmente cristallizzato quelle che erano state le conclusioni della Cassazione (l’anatocismo è illegittimo; resta ferma la possibilità di pattuire, successivamente alla delibera del 2000, valide clausole di capitalizzazione in armonia alle delibere CICR, anche in relazione ai contratti già in essere, ma senza efficacia retroattiva: le somme corrisposte a titolo di interesse composto dal correntista in base a clausole contenute in contratti stipulati antecedentemente alla delibera medesima- o peggio ancora applicate dalle banche richiamandosi all’uso negoziale ex art. 1340 c.c.- debbono essere dalle banche restituite): essa, unitamente alle sentenze del 1999 ed alla successiva del 2004, va a formare un corpus normativo di derivazione giurisprudenziale, che costituisce diritto vivente, ed al quale nessun operatore giuridico ed economico può sfuggire. Dal canto suo, la delibera del CICR del 2000 si pone come normativa speciale e derogatoria rispetto all’art. 1283 c.c., per cui le clausole anatocistiche di capitalizzazione trimestrale degli interessi negativi, ove stipulate successivamente al 2000 e nel rispetto delle previsioni contenute nella medesima delibera, in particolare di quella sulla reciprocità, debbono considerarsi produttive di effetti.




LA PRESCRIZIONE DELL'AZIONE DI RIPETIZIONE DELL'INDEBITO.



Un punto particolarmente controverso ha riguardato il profilo del termine prescrizionale, applicabile al diritto al rimborso scaturente dalla illegittima applicazione di interessi anatocistici; una vera e propria vexata quaestio, sulla quale si sono tenacemente esercitati i legali difensori degli istituti bancari.

Per affrontare il problema, occorre innanzitutto procedere alla qualificazione giuridica della azione dispiegata in giudizio dal correntista. Fermo restando che l’azione diretta a far dichiarare nulla la previsione contrattuale concernente la capitalizzazione trimestrale è imprescrittibile, si tratta di capire la natura della correlativa azione restitutoria; azione che va correttamente qualificata in termini di ripetizione dell’indebito (oggettivo ex art. 2033 c.c.), come è agevole dedurre dall’art. 1422 c.c., la quale soggiace al termine ordinario decennale ex art. 2946 c.c., e non a quello quinquennale di cui all’art. 2948 n.4 c.c. Il correntista esercita infatti una azione diretta non a conseguire degli interessi che maturano annualmente (ratio del termine abbreviato ex 2948), ma bensì ad ottenere la restituzione degli stessi, in quanto indebitamente pagati in virtù di una clausola nulla.
 


Ciò detto, secondo la giurisprudenza assolutamente maggioritaria, il dies a quo di siffatto termine va fatto coincidere con il giorno della chiusura definitiva del conto, sul presupposto della unitarietà del rapporto in conto corrente alla stregua della sua configurazione civilistica (ed essendo tra l’altro la chiusura del rapporto condizione necessaria per l’esigibilità del credito da parte della banca); si veda Cass. Civ. del 9 Aprile 1984, n. 2262 per cui “il momento iniziale del termine prescrizionale decennale per il reclamo delle somme indebitamente trattenute dalla banca a titolo di interessi decorre dalla chiusura definitiva del rapporto”; ex multis Cass. Civ. 14 maggio 2005, n. 10127, secondo cui il conto corrente è “contratto unitario, che da luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi, sicché è solo con la chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti tra loro”; Tribunale di Monza 7 Aprile 2006; Tribunale di Cassino del 2 Luglio 2004; Corte d’Appello di Lecce 22 Ottobre 2001. In senso contrario, Trib. Mantova 12 luglio 2008.

Si è cercato in vari modi di superare questa tesi- evidentemente indigesta per gli istituti bancari. Si è così osservato, muovendo dal principio generale di cui all’art. 2935 c.c., che ciascun versamento di interessi anatocistici non dovuti costituisce un singolo caso di indebito oggettivo, che da luogo al possibilità della sua ripetizione indipendentemente dal rapporto contrattuale cui esso afferisce. Conseguentemente, si fa decorrere il termine decennale dalla annotazione nell’estratto conto della posta non legittima, singolarmente considerata, poiché è a partire da tale momento che l’accreditato può far valere il suo diritto agendo in ripetizione, senza che al riguardo possano avere incidenza alcuna i momenti di costituzione o di scioglimento del rapporto contrattuale sottostante. In altre parole se una prestazione è indebita, è tale ab initio, cioè sin dal momento della sua annotazione sul conto corrente, indipendentemente dal fatto che la nullità del titolo, sulla base del quale è stata eseguita, venga accertata o dichiarata successivamente. Nello stesso senso, si è contestato che l’unitarietà del rapporto costituisca elemento decisivo ai fini dell’individuazione del dies a quo nel momento di chiusura definitiva del conto. Invero, ogni qual volta un rapporto di durata implichi prestazioni in denaro ripetute e scaglionate nel tempo (ad es. locazione), l'unitarietà del rapporto contrattuale, ed il fatto che esso sia destinato a protrarsi ancora per il futuro, non impedisce di qualificare come indebito ciascun singolo pagamento- se ciò dipende dalla nullità del titolo giustificativo dell'esborso- sin dal giorno in cui il pagamento medesimo abbia avuto luogo; dunque è sempre da quel giorno, che sorge il diritto del solvens alla ripetizione, e che la relativa prescrizione inizia a decorrere. Così, ad es., il diritto alla ripetizione dei ratei di un mutuo, corrisposti in virtù di contratto poi dichiarato nullo, decorrerà dal momento in cui i singoli pagamenti sono effettuati.
 

Un recente autorevole intervento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha definitivamente sconfessato tali argomentazioni, pur riconoscendo ad esse qualche pregio. Se è sicuramente vero che, nei rapporti di durata, il diritto di ripetizione si prescrive a far data dal singolo esborso effettuato in base a contratto dichiarato nullo, tuttavia non è meno vero che presupposto per potere esercitare l’azione di ripetizione è che, evidentemente, un pagamento ci sia stato: si tratta quindi di capire- tenendo presenti le specificità del rapporto bancario di cui si discute, quale emerge dalle disposizioni di cui agli artt. 1823, 1842 e 1843 del codice civile- in che momento possa dirsi avvenuto un qualche atto solutorio- da parte del correntista ed a favore della banca- da cui eventualmente fare decorrere il termine di dieci anni. Deve essere escluso che le mere annotazioni sul conto corrente possano avere rilievo in questo senso, poichè, essendo l’estratto conto null’altro che un prospetto contabile, che non incide a livello sostanziale, le relative annotazioni non esprimono l’esistenza di debiti e crediti di ciascun contraente nei confronti dell’altro, ma rappresentano semplici variazioni quantitative dell’ordinario rapporto di credito o di debito con la banca. Osservano in motivazione le Sezioni Unite che “ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati dalla banca al correntista  comporta un incremento del debito del correntista, o una riduzione del credito di cui ancora dispone, ma in nessun modo si risolve in un pagamento, nei termini sopra indicati: perché non vi corrisponde alcuna attività solutoria del correntista medesimo in favore della banca”.
 

Nè è possibile identificare atti solutori nelle rimesse eseguite dal cliente sul proprio conto corrente, quando queste hanno solo l’effetto di espandere la linea di credito utilizzabile dal cliente (quindi in caso di conto in “passivo”, e non “allo scoperto”, cioè extra fido), avendo in tal caso gli atti natura ripristinatoria, e non solutoria: con la conseguenza che è solo in presenza di versamenti diretti a elidere lo “scoperto di conto” che si può parlare di “pagamento”, con i relativi effetti in ordine alla prescrizione del diritto alla ripetizione delle relative somme. Cfr. la sentenza citata in motivazione: “qualora, durante lo svolgimento del rapporto, il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l'effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. Questo accadrà qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto in passivo (o, come in simili situazioni si preferisce dire, "scoperto") cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell'accreditamento. Non è così, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell'affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere”. Sulla distinzione tra atti a funzione ripristinatoria ed atti a funzione solutoria, elaborata in riferimento all’azione revocatoria fallimentare ex art. 67 R.D. 267/1942, vedi Cass. 6 novembre 2007, n. 23107.
 

Sono evidenti le implicazioni di questo intervento, che di fatto implica la possibilità di richiedere la restituzione di tutto quanto corrisposto a partire dalla stipulazione del contratto anteriore alla delibera CICR: ciò ha determinato una ulteriore discesa in campo del Governo, il cui nuovo salvagente al sistema bancario si è materializzato sotto forma di emendamento al D.L. 29 dicembre 2010 n. 225 (c.d. decreto mille proroghe) convertito con legge 26 febbraio 2011 n. 10. Nel maxi- emendamento, approvato al Senato della Repubblica il 16 febbraio 2011, è stata introdotta tra le polemiche una discussa norma di “interpretazione autentica” dell'art. 2935 c.c., di cui riportiamo il testo : “In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, l’articolo 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa. In ogni caso, non si fa luogo alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, art. 2 co. 61 legge 10/2011. Con tale norma si è in pratica voluto salvare il sistema bancario dalle più rovinose implicazioni della sentenza delle Sezioni Unite, stabilendo che il dies a quo del termine prescrizionale decorre dal giorno della singola annotazione della posta illegittima sull’estratto conto (anziché dal giorno della chiusura del conto); con la conseguente prescrizione del diritto fatto valere in giudizio, in riferimento al quantum, per il periodo antecedente i dieci anni dall’azione in giudizio (la vicenda è attualmente al vaglio della Corte Costituzionale, si veda l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Benevento del 10 marzo 2011). 

Dal canto nostro- senza volere disquisire su questioni indubbiamente assai complesse, sulle quali peraltro è ancora apertissimo il dibattito anche in sede politica- non ci si può esimere dal porre qualche dubbio circa l’idoneità della norma appena citata a conseguire l’obiettivo- più o meno dichiarato- di superare la sentenza delle Sezioni Unite sopra esposta, risolvendo buona parte del contenzioso in senso favorevole agli istituti bancari: il termine decennale ed il relativo dies a quo vengono infatti riferiti ai “diritti nascenti dalla annotazione in conto”. Il diritto alla ripetizione dell’indebito, però, non “nasce” dalla mera annotazione in conto, ma solo a seguito del pagamento di interessi non dovuti, nei termini chiariti dalla Cassazione: sussistono quindi le possibilità di superare la norma predetta già in via interpretativa, nel senso della sua inapplicabilità alle azioni di ripetizione dei correntisti, al di là delle vicende delle questioni di costituzionalità che sono state- e che saranno- prospettate (in questo senso, Tribunale di Roma 13 Aprile 2011; Corte Appello Ancona 03 marzo 2011). 

Avv. Alessandro Ceccarelli.

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