Milano, 16 dicembre 2016
È nota l’annosa anomalia delle banche popolari: istituzioni operanti come banche commerciali prive di uno scopo autenticamente mutualistico e tuttavia funzionanti secondo le regole di governance proprie delle società cooperative.
L’ingannevole democraticità della regola del voto capitario ha determinato in molte realtà lo strapotere di manager autoreferenziali e non soggetti ad alcun controllo da parte di un azionariato polverizzato, depotenziato e spesso indotto a fornire nuovo capitale per ottenere finanziamenti.
È superfluo ricordare i molti casi in cui la governance difettosa delle banche popolari ha favorito la gestione irresponsabile, quando non fraudolenta, degli ingenti capitali affidati ai predetti manager, con gravi perdite per azionisti e risparmiatori. Inoltre il voto capitario scoraggia gli investimenti degli istituzionali.
Per tale motivo il mercato aveva salutato con entusiasmo, all’alba del 2015, una coraggiosa iniziativa governativa che, ponendo fine a decenni di sterili dibattiti, con decreto legge imponeva alle banche popolari di maggiori dimensioni di trasformarsi in società per azioni entro la fine del 2016.
Poiché il cambiamento del tipo societario attribuisce ai soci non consenzienti la facoltà di recedere, il decreto legge in questione aveva previsto la possibilità per le trasformande banche popolari di porre limiti a tale diritto di recesso nella misura in cui ciò fosse necessario per salvaguardare la loro solidità patrimoniale.
Ma il diavolo si nasconde nei dettagli. Come ogni riforma vera, il provvedimento in questione ha trovato oppositori, alcuni dei quali si sono rivolti ai giudici amministrativi al fine di far invalidare la Circolare con la quale Banca d’Italia aveva disciplinato la limitazione del diritto di recesso.
Così, a pochi giorni dalla scadenza del termine stabilito per la trasformazione in spa, il Consiglio di Stato ha ritenuto non infondata l’accusa di incostituzionalità della riforma(1) e ha sospeso, in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale, la Circolare della Banca d’Italia che consente di limitare il diritto di recesso(2).
Non si vuole entrare nel merito dei motivi della presunta illegittimità costituzionale: abuso della decretazione d’urgenza, esproprio senza indennizzo del “bene” diritto di recesso, delega in bianco del potere di delegificare la materia del diritto di recesso (si veda peraltro qualche spunto in appendice).
Si vuole piuttosto sottolineare come la situazione di impasse in cui si sono venute a trovare le due banche popolari che ancora non hanno provveduto a deliberare la trasformazione in spa sia aggravata proprio dalle regole di governance legate alla forma (priva di sostanza) cooperativa.
I soci delle due banche in questione, convocati in assemblea nei prossimi giorni, si troveranno di fronte al seguente dilemma:
- deliberare la trasformazione in spa esponendo la banca al rischio di ingenti perdite patrimoniali conseguenti all’esercizio del diritto di recesso senza più limiti; oppure 
- non deliberare la trasformazione esponendo la banca al rischio di revoca dell’autorizzazione allo svolgimento dell’attività bancaria.
Al dilemma si aggiunge un paradosso: alle assemblee parteciperà, come di consueto, una minoranza dei soci (probabilmente meno del 10%), i quali voteranno per teste e con il quorum deliberativo di due terzi dei presenti.
Se tali soci decideranno di procedere alla trasformazione, potrebbero “regalare” alla maggioranza dei soci (in caso di successivo accertamento di illegittimità costituzionale della norma) il diritto di ricevere un rimborso non per teste, ma proporzionale al numero di azioni da essi detenute.
Di norma lo statuto prevede che il valore di recesso sia determinato sulla base dei criteri stabiliti dall’art. 2437-ter, cod. civ., e quindi, in caso di azioni quotate, sulla base della media aritmetica dei prezzi di chiusura del semestre precedente la data di pubblicazione dell’avviso di convocazione dell’assemblea.
Se si consente la provocazione, potrebbe dubitarsi se tale criterio sia applicabile anche alle delibere imposte dalla legge a pena di (possibile) scioglimento della società o se, in simili casi, il valore di recesso debba essere piuttosto commisurato al presumibile valore di liquidazione del patrimonio sociale.
La vicenda qui brevemente descritta purtroppo non contribuisce ad allontanare dall’Italia la non desiderabile reputazione di Paese caratterizzato dall’incertezza del diritto e dalla lentezza dei procedimenti giudiziari.
In simili frangenti Istituzioni autorevoli potrebbero aiutare gli operatori economici a superare l’impasse: le Autorità di vigilanza fornendo agli amministratori delle banche interessate indicazioni su come gestire le assemblee; il Governo prorogando con decreto legge il termine per la trasformazione.
In attesa che le Istituzioni trovino la forza di essere autorevoli, il solerte Consiglio di Stato ha pensato bene di sospendere, oltre alla Circolare della Banca d’Italia, anche la stessa legge che ne costituisce la fonte, anticipando in via interinale gli effetti di una possibile (?) pronuncia della Consulta.
Si riporta, al riguardo, uno stralcio del comunicato stampa diffuso ieri, in tarda serata, dalla Banca Popolare di Sondrio.
La Banca Popolare di Sondrio, con istanza presentata al Consiglio di Stato, ha chiesto di “… modificare e integrare l’ordinanza cautelare Sezione Sesta, 2 dicembre 2016, n. 5383 così che l’ordine sopprassessorio si estenda a comprendere il termine del 27 dicembre 2016 entro cui la richiedente sarà tenuta a provvedere alla trasformazione societaria …”.
La cancelleria del Consiglio di Stato ha comunicato che il Presidente della Sezione Sesta, con decreto cautelare interinale, ha accolto tale istanza. Il decreto oggetto di tale comunicazione di cancelleria, tuttavia, non è allo stato ancora in possesso della banca.
La decisione definitiva sulla misura cautelare, allo stato provvisoria, sarà assunta dal Consiglio di Stato, ai sensi dell’articolo 56 del Codice del processo amministrativo, in sede collegiale in una data che al momento non è nota alla Banca Popolare di Sondrio in quanto, appunto, si dispone soltanto dell’avviso dell’esito dell’istanza, ma non del testo del decreto, che sarà disponibile nella giornata di domani 16 dicembre.

Post scriptum: alle ore 15 del 16 dicembre 2016, dopo la pubblicazione del presente contributo, la Banca Popolare di Sondrio ha diffuso il seguente comunicato:
Il Tribunale Ordinario di Milano, con provvedimento d’urgenza oggi notificatoci, ha inibito “lo svolgimento della riunione dell’assemblea dei soci di Banca Popolare di Sondrio, con sede in Sondrio, piazza Garibaldi n. 16, prevista per il giorno 17 dicembre 2016, limitatamente alla parte straordinaria dell’ordine del giorno” relativa alla proposta trasformazione in società per azioni. La decisione è stata assunta su ricorso di un socio. L’udienza per la discussione in contraddittorio è stata fissata per il 10 gennaio 2017.

Appendice semiseria sui presunti motivi dell’illegittimità costituzionale del d.l. 3/2015

Sul tema dell’urgenza, i giudici del Consiglio di Stato affermano quanto segue.
Non risultano, infatti – e, comunque, non sono specificamente allegate o richiamate – concrete contingenze tali da rendere attuale ed imminente il pericolo che le banche popolari interessate dalla riforma si trovassero, nella contingenza, concretamente ed immediatamente esposte ai suddetti pericoli.
Nel dettaglio, ripercorrendo le motivazioni della Relazione illustrativa, non risulta che vi siano attualmente (rectius: che vi fossero all’atto dell’emanazione del decreto-legge) gravi e straordinarie situazioni di concentrazione di potere in capo a gruppi organizzati di soci, né forme allarmanti di autoreferenzialità della dirigenza, né straordinarie difficoltà patrimoniali o di reperimento di capitale.
Enfasi aggiunta. Probabilmente i magistrati, troppo impegnati nei loro studi, non hanno avuto contezza di quanto accaduto in almeno tre delle banche popolari oggetto del provvedimento.
Si riportano alcuni stralci di un’intervista (3) rilasciata nel 2015 da Marco Vitale, primo firmatario (od omonimo?) del ricorso al Consiglio di Stato.
È evidente che sono necessari interventi, anche severi, su quelle Popolari che fanno un uso disinvolto del voto capitario. È il caso in particolare della BPM dove un piccolo gruppo di soci-dipendenti mantiene forme di controllo improprie sull’Assemblea, sul Consiglio e sul management. Ma non si legifera su queste patologie. Queste si affrontano con interventi specifici e la Banca d’Italia ha sempre avuto i poteri per realizzarli e se non lo ha mai fatto, con la determinazione necessaria, è stato per pusillanimità.
Per motivare il presunto contrasto con l’art. 42 Cost. i giudici costruiscono un percorso logico alquanto complesso, di cui si riportano alcuni passaggi.[…] la trasformazione in società per azioni (deliberata dall’assemblea dei soci: ma in una situazione di sostanziale semi-vincolatività normativa) modifica sensibilmente in senso riduttivo i diritti “amministrativi” del socio (basti pensare, ad esempio, già solo al fatto che viene meno la regola del voto capitario).
[…] L’esclusione del diritto al rimborso in caso di recesso conseguente alla trasformazione finisce, invero, per tradursi in una sorta di esproprio senza indennizzo (o con indennizzo ingiustificatamente ridotto) della quota societaria.
La trasformazione (imposta dal legislatore al di sopra della soglia degli otto miliardi di euro di attivo patrimoniale, sia pure con la previsione di obblighi alternativi in capo alla banca popolare) modifica in senso peggiorativo il contenuto della partecipazione sociale e, quindi, alla luce della nozione sostanziale di proprietà di cui prima si è detto, riduce il contenuto del diritto di proprietà spettante al socio.
Anche qui enfasi aggiunte. Dunque: i soci avevano un diritto di voto capitario che nella stragrande maggioranza dei casi non esercitavano (le banche popolari sono solite organizzare ricchi banchetti per attirare soci alle assemblee). Avevano in mano azioni che il mercato valutava poco perché la società non era contendibile. È bastato l’annuncio del decreto legge sotto processo a far salire vertiginosamente il prezzo di mercato delle azioni interessate. Sembra un po’ una forzatura sostenere che questi soci abbiano subito un esproprio. Semmai hanno ottenuto un capital gain. Ancora: ma è proprio sicuro che il diritto di recesso debba essere considerato un bene a sé stante? Non è piuttosto un diritto accessorio a un bene (l’azione) che non può che rivalutarsi per effetto della trasformazione?
In tale ottica, vi è da chiedersi se i ricorrenti del procedimento qui commentato fossero animati dal loro interesse di soci o piuttosto da interessi diversi o da (rispettabilissime) convinzioni personali.

Infine, sul tema della delega in bianco, poiché la limitazione del diritto di recesso è legata al rispetto dei requisiti di vigilanza prudenziale, non sembra ravvisabile un’assenza di criteri, quanto piuttosto un’ampia discrezionalità nell’applicarli. Altro problema è che la fissazione dei parametri compete, in ultima analisi, a organismi esterni all’ordinamento italiano.

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(1) Cons. di Stato, sez. VI, ord. 1.12.2016 n. 05277/2016, consultabile alla pagina web https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/wcm/idc/groups/public/documents/document/mday/mza0/~edisp/x5b2h3kfmwse4hl63kuuwhqz2m.html
(2) Cons. di Stato, sez. VI, ord. 1.12.2016 n. 05383/2016, consultabile alla pagina web https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/wcm/idc/groups/public/documents/document/mday/mjk4/~edisp/t6mziwqinunh43wsf25fc4eaem.html
(3) Consultabile alla pagina web http://www.vita.it/it/article/2015/01/23/marco-vitale-le-cupole-finanziarie-hanno-colpito-ancora/129119/