1. a) La duplice evoluzione sociale e sanitaria della medicina odierna comporta una inevitabile tensione fra contrapposte esigenze individuali e istituzionali. Oggi, emergono nuovi problemi di carattere etico, giuridico ed economico, per questo occorre una doverosa riflessione sulle cause che consentono la risoluzione di problemi giuridici sui diritti derivanti dalla bioetica nel quadro delle relazioni cittadino-sanità (1). Il malcontento di fondo che caratterizza sempre più spesso l’esperienza del cittadino quando viene a contatto con il mondo sanitario per problemi di una certa rilevanza, è più un problema bioetico che di natura organizzativa, economica o socio-psicologica. Non è da escludere che per molti sanitari vi è un deficit di conoscenza e di sensibilizzazione alle tematiche bioetiche basilari. In altre parole la scarsa consapevolezza della trama bioetica genera l’insoddisfazione del cittadino, il quale pur non conoscendo la natura bioetica di tali problemi, ne avverte l’importanza sotto la forma di mancato rispetto di suoi diritti, di suoi valori, di sue attese. Più precisamente il malcontento si può sostanziare in un mancato rispetto o promozione dei seguenti principi bioetici: principio di autonomia; principio di beneficenza, principio di giustizia.

Per intenderci, il principio di autonomia o (consenso informato), è attualmente ampiamente inattuato, quasi sempre ridotto ad un semplice formalismo legale, non vi è, il più delle volte un’informazione veritiera che avviene all’interno di una buona comunicazione fra operatore sanitario e paziente/parente, ad es. la compilazione frettolosa e burocratica di vari moduli ispirati soprattutto a motivazioni cautelari sul piano medico-legale è la negazione stessa del principio di autonomia.

Il Principio di beneficenza, è individuabile nell’interpretazione che gli operatori sanitari danno dello stesso principio di beneficenza. Ovvero, è ancora inusuale che il sanitario si sforzi di comprendere qual è il bene di quel paziente in quella fase della malattia, come è raro che il paziente sia invogliato (dai sanitari e/o dai suoi cari) ad esplicitare il suo concetto di qualità della vita e i suoi bisogni. Infatti, nella migliore delle ipotesi, essi agiscono nella convinzione aprioristica di conoscere qual è il bene del paziente, senza però chiedere a lui qual è il suo bene. Il Principio di giustizia, viceversa fa riferimento ad un’equa distribuzione delle risorse sanitarie, economiche, umane ed organizzative che impongono scelte di investimento in alcuni settori penalizzandone altri. Ne consegue che bisogna inevitabilmente rinunciare a vedere esauditi un numero variabile di bisogni ed aspettative (gli esempi sono numerosi, fra essi basta citare: rapidità e precisione o qualità e quantità delle prestazioni; rapporto rischio/beneficio di una procedura; differenze fra ricerca ed applicazione clinica anche collegate al rischio delle biotecnologie; carattere statistico e non precisamente determinabile dei fenomeni biologici, ecc.) (2).

2. b) Se sul piano nazionale tali diritti sono ed erano disattesi solo recentemente vengono in semplice considerazione per l’attività di alcuni comitati etici. Nel diritto internazionale la nascita di questi diritti parte dagli anni sessanta quando emerge una realtà scandalosa. Uno studio esercitato negli USA nel 1958 (3), fa emergere il fatto che ben poche istituzioni avevano norme procedurali per lo svolgimento della ricerca e come la maggior parte dei centri riteneva indesiderabile qualsiasi forma di controllo, anche nella forma dell’autoregolamentazione. Solo 16 istituzioni, delle 52 risultavano aver risposto a questionari ed avevano moduli di “consenso informato”.

In Italia il dibattito era addirittura inesistente. Non è chiaro se ciò fosse dovuto al fatto che nel nostro paese non si svolgesse attività di ricerca o alla circostanza per cui le violazioni di diritti restavano nascoste. Anche il quadro generale dei diritti individuali in campo biomedico non risultava molto incoraggiante. In una sentenza del 1967 (4), la corte di Cassazione affermava la fondamentale regola che il medico non poteva, senza il suo consenso, sottoporre il paziente ad alcun trattamento e fondava la tutela della vita e dell’incolumità del paziente sull’art. 13 della Costituzione. Subito dopo però la stessa corte escludeva che il consenso fosse necessario nei casi di condizioni necessitate ed urgenti, nelle quali l’intervento del medico era giustificato dalla norma penale sulla omissione di soccorso, e rimetteva comunque la valutazione della necessità di informare il paziente alla deontologia e quindi alla discrezionalità medica, con una ambiguità non dissimile da quella della giurisprudenza americana degli anni Cinquanta. Negli anni Ottanta continuano a emergere scandali sulle sperimentazioni.

Le organizzazioni mondiali cercano quindi di correre ai ripari, a Manila nel 1981, l’Organizzazione Mondiale della Sanità adottava linee guida per la ricerca sui soggetti umani, con un’attenzione particolare ai paesi in via di sviluppo; a Venezia (1983) venne approvata la terza versione della dichiarazione di Helsinki. Vi sono attualmente problemi di effettiva applicazione. Le regole affermate sono tenui e non accompagnate da alcun reale controllo o sanzione legale tradizionale. Inoltre queste affermazioni generali sono ambigue nei principi in sé e nella loro pratica applicazione questi documenti senza eccezione mettono chiaramente in luce il potenziale conflitto tra il ruolo di ricercatore e di terapeuta. E non pare che questa realtà possa essere efficacemente contrastata dai comitati etici mal tollerati.

Il Consiglio delle Organizzazioni Internazionali delle scienze mediche (CIOMS), Organismo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, emana nel 1992 direttive per la ricerca biomedica che pongono al centro proprio i problemi delle ricerche effettuate dalle grandi case farmaceutiche nei paesi in via di sviluppo, dove i bassi livelli culturali rendono improponibile il modello del consenso informato (5).

Oggi in Europa i nuovi “Comitati etici indipendenti” non esprimono più solo un parere sulla bontà di un progetto di ricerca (il cosiddetto protocollo), hanno la responsabilità di garantire la tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere dei soggetti coinvolti in uno studio clinico e di fornire pubblica garanzia di tale protezione. Devono valutare il protocollo di studio, ma anche l’idoneità degli sperimentatori, delle strutture, dei metodi e del materiale da impiegare per ottenere e documentare il consenso informato dei partecipanti allo studio e soprattutto, sono tenuti a controllare la sperimentazione nel suo svolgimento.

Esiste anche il Tribunale per i diritti del malato che nasce negli anni 80 costituito da volontari, nel 1995, il (TDM) ha realizzato un Protocollo dei 14 diritti fondamentali del malato che è stato anche recepito dal Ministero della Sanità (6).

La convenzione di Oviedo dedica numerose disposizioni alla attività di ricerca sugli uomini, in particolare nel cap. V. Tra le norme di portata nazionale si possono ricordare: il Codice di deontologia medica approvato dalla Federazione degli Ordini dei Medici, art. 46 Ricerca biomedica e sperimentazione sull’Uomo; art. 47 Sperimentazione clinica (7).

3. Queste norme sono importanti per definire il quadro degli obblighi che i medici si sono autoimposti, ma hanno puro valore deontologico, così come i principi affermati nelle carte internazionali hanno puro valore dichiarativo. Il codice civile e il codice penale contengono norme non specifiche in materia, ma che costituiscono, insieme alle norme costituzionali, il passaggio essenziale per qualsiasi giudizio di responsabilità, anche se il contenuto e il profilo della condotta lesiva sia frutto di una ricostruzione delle disposizioni deboli che spetta al giudice ricostruire. Il giudice si trova, a svolgere un ruolo altamente creativo, che si esprimerà soprattutto nell’individuare o costruire la regola di condotta che il medico deve rispettare o che ha violata.

Il quadro è complesso, una particolarità del campo della sperimentazione biotecnologica sta nella eterogeneità delle fonti. Insomma, la sperimentazione dei farmaci o biotecnologie sull’uomo rappresenta una palestra formidabile: i giudici vengono chiamati a cimentarsi in una attività di creazione giurisprudenziale delle norme a partire da una ricognizione tra fonti di diversa natura e di diversi livelli, spesso sovranazionali e il più delle volte, le ultime, prive di effetti indotti nel nostro sistema per la mancanza di disposizioni legislative. Il che apre a una sorta di diritto giurisprudenziale transnazionale che può, a ragione, essere considerato la prospettiva futura in questo e in altri campi (8).

Una ricostruzione sistematica, quantomeno, sul rapporto cittadino-sanità e/o associazioni per i diritti del malato e struttura sanitaria può essere tentata nell’ordinamento italiano sotto il profilo della tutela risarcitoria nei confronti della P.A. la cui azione deve essere ispirata ai canoni sanciti dall’art. 97 Cost. e dei principi relativi all’efficienza efficacia ed economicità.

4. a) il primo quesito che si pone è, quale giudice è competente a conoscere delle posizioni giuridiche di cui in tale sede si controverte?

A nostro avviso, tenuto conto in ogni caso dell’attività creativa di cui prima si e discorso, occorre far subito riferimento al d. lgs. n. 80/98, come integrato dalla l. n. 205 del 2000 che addirittura riconosce la tutela dei diritti pretensivi. Tale decreto ha esteso l’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, precisando che tra le materie che vi rientrano vi sono non solo quelle dell’edilizia e dell’urbanistica ma anche quella dei pubblici servizi, quest’ultima area è quella che ci interessa da vicino.

L’ambito e delimitazione di essa giurisdizione piena, non è proprio semplice, si va dalla cognizione sulle controversie in materia di diritti patrimoniali conseguenziali e più specificatamente, sui giudizi concernenti la reintegrazione in forma specifica e/o il danno ingiusto. Si parla di giurisdizione piena perché, appunto, estesa, all’intera gamma delle liti e contestazioni che possono insorgere tra le parti. Infatti, la norma delegante d. lgs. n. 80/98, considerando pubblici servizi tutti quelli che sono resi agli utenti da soggetti avente veste pubblica, anche indirettamente come indicato dal Cons. di Stato (9), fa si che l’area risulta amplissima ricomprendendo tutte quelle attività (anche dei privati) non assolutamente libere, ma assoggettate per qualche aspetto, ad un ordinamento di settore, per la loro rilevanza sul piano collettivo. Si è proposto così, di intendere per tale, ogni attività da chiunque prestata entro un ordinamento di settore, così creato per il rilievo d’interesse generale dell’attività, ordinamento fondato su un autorità pubblica che vigila o controlla o autorizza o concede o direttamente presta, da sola o in combinazione con i privati, secondo il criterio di sussidiarietà.

La definizione proposta si può dire aggiornata con i più recenti sviluppi, normativi e giurisprudenziali, in materia di forme organizzative realizzabili per l’erogazione e gestione di servizi (10). La stessa delimitazione che riporta l’art. 33 D.Lgs. n. 80/98, mostra che si tratta di una delimitazione concernente l’intera branca dei pubblici servizi. Tali controversie art. 33 co. 2 sono, in particolare, quelle:  … b), c), d), e), … omissis;

f) riguardanti le attività e le prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese nell’espletamento dei pubblici servizi, ivi comprese quelle rese nell’ambito del Servizio sanitario nazionale e della pubblica istruzione, con esclusione dei rapporti individuali di utenza con soggetti privati, delle controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona e alle controversie in materia di invalidità.

È sintomatica l’ultima parte della lettera f), art. 33, D. Lgs. n. 80/98, mentre si includono nella giurisdizione esclusiva le controversie concernenti le prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese nell’espletamento di pubblici servizi, subito dopo si escludono le controversie inerenti ai rapporti individuali di utenza con i privati e quelle meramente risarcitorie relative al danno alla persona e quelle in materia di invalidità. Certo è che non riesce agevole la linea di demarcazione fra giurisdizione dei giudici amministrativo e ordinario quando si tratta di azioni instaurate, ad es., da associazioni o comitati che si fanno portatori di interessi collettivi o diffusi, come quelli delle associazioni dei diritti del malato o dei consumatori al fine di contrastare decisioni o omissioni dell’organo pubblico competente o del concessionario, riguardanti le condizioni generali di contratto concernenti l’espletamento del servizio, e simili (11).

Ora verosimilmente a nostro avviso, controversie di tal genere (azioni miranti al risarcimento e/o reintegrazione in forma specifica su relazioni più ampie intercorrenti fra amministrazione e fra associazioni di diritti dei malati e/o consumatori), rientrano certamente nella giurisdizione del g. a., alla stregua delle disposizioni riportate.

Per contro, le contestazioni, inerenti alla qualità del servizio, ovvero a inadempimenti contrattuali o a responsabilità per lesioni inferte per effetto della cattiva o mancata prestazione del servizio, mosse da singoli utenti ed aventi contenuto risarcitorio o integratorio ma con riferimento a singoli contratti o a specifiche obbligazioni sorte da illeciti extracontrattuali (danno alla persona; invalidità civile, ecc.) appartengono al g.o. da ciò risulta delineata la competenza giurisdizionale per cui occorre guardare ora ai profili risarcitori connessi alla responsabilità della P.A.

b) individuata la competenza a conoscere di alcune violazioni di diritti e posizioni giuridiche occorre guardare ai profili risarcitori del danno alla persona che eventualmente ne potrebbe conseguire, il trattato ovviamente è dal punto di vista pubblicistico e non privatistico.

La l. delega n. 59/97, art. 11, co.1, lett. c), nello stabilire che per l’emanazione di decreti legislativi diretti a riordinare e potenziare i meccanismi e gli strumenti di monitoraggio e di valutazione dei costi, rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche prevedeva in essa, il rispetto di alcuni principi tra cui: …b) prevedere e istituire sistemi per la valutazione, sulla base di parametri oggettivi, dei risultati dell’attività amministrativa e dei servizi pubblici, favorendo ulteriormente l’adozione di carte dei servizi e assicurando in ogni caso sanzioni per la loro violazione, e di altri strumenti per la tutela dei diritti dell’utente e per la sua partecipazione, anche in forme associate, alla definizione delle carte dei servizi ed alla valutazione dei risultati.

Ora, gli elementi che compongono il sistema della Carta dei Servizi in generale sono i seguenti: l’individuazione di una serie di principi fondamentali ai quali deve essere progressivamente uniformata l’erogazione dei servizi pubblici, eguaglianza, imparzialità, continuità, diritto di scelta, partecipazione, efficienza ed efficacia; la piena informazione dei cittadini-utenti; l’informazione deve riguardare i servizi offerti e le modalità di erogazione degli stessi; l’informazione deve essere resa con strumenti diversi, assicurando comunque la chiarezza e la comprensibilità dei testi oltre che la loro accessibilità al pubblico; l’assunzione di impegni sulla qualità del servizio da parte del soggetto erogatore nei confronti dei cittadini-utenti, attraverso l’adozione di standard di qualità che sono obiettivi di carattere generale (cioè riferiti al complesso delle prestazioni rese) o anche specifici (cioè direttamente verificabili dal singolo utente); il dovere di valutazione della qualità dei servizi per la verifica degli impegni assunti, e per il costante adeguamento degli stessi; gli strumenti di valutazione vanno dalle relazioni annuali, sottoposte al Comitato nazionale permanente per l’attuazione della Carta dei Servizi, alle riunioni pubbliche, alle conferenze dei servizi, alle indagini sulla soddisfazione dei cittadini-utenti; l’applicazione di forme di tutela dei diritti dei cittadini-utenti, attraverso le procedure di reclamo, e di eventuali ristoro (12).

La carta dei servizi, ben potrebbe contenere il riferimento al rispetto dei diritti del malato contenuti ad es. nella Carta dei diritti e doveri del malato di cui si riportano solo le parti di nostro interesse ad es.: “ognuno ha diritto al provvedimento terapeutico ed alla assistenza tempestivi ed adeguati alla propria salute ed al proprio benessere; ogni paziente ha il diritto di scegliere la sede e gli operatori sanitari; se la struttura sanitaria scelta non potesse perciò provvedere alle necessità di diagnosi e cura richieste, il paziente ha il diritto di conoscere le reali motivazioni e le previsioni di accoglimento futuro e ha il diritto di controllare la lista di attesa; ogni paziente ha diritto all'informazione ed alla conoscenza necessarie per avere consapevolezza del proprio stato e per poter coscientemente operare delle scelte; ogni paziente ha il diritto di conoscere le motivazioni dei provvedimenti diagnostici e terapeutici ed i loro eventuali rischi e alternative; ogni paziente ha il diritto di essere informato di eventuali possibili sperimentazioni e può rifiutare di sottoporvisi” (13).

Con ciò, tutte le volte che tali diritti sono violati, qualsiasi organizzazzione portatrice di interessi diffusi o un soggetto facente parte può azionare tale sorta di tutela nei confronti della P.A. Proseguendo, tali posizioni giuridiche, possono essere rafforzate da un ulteriore norma di principio circa il soddisfacimento risarcitorio cioè quella norma che è racchiusa nell’art. 28 Cost., ovvero, riteniamo che l’espressione “atti compiuti in violazione di diritti”, non possa non leggersi in senso generico ed estensivo, con riguardo a tutte le posizioni giuridiche soggettive che il legislatore ritenga di ricomprendere nella tutela voluta dalla Costituzione. In tale lettura la formula deve intendersi come condotta lesiva di una gamma piuttosto ampia ed aperta di posizioni giuridiche, la cui estensione (da ritenere variabile nel tempo) dipende dall'evoluzione del diritto e prima ancora dall'attività del legislatore ordinario.

La lettura qui prospettata, trova conferma nella semplice constatazione che ad es. l’annullamento di un provvedimento amministrativo o la declaratoria di illegittimità di un atto o di un comportamento (quale l'inerzia o silenzio della P.A. ovvero un omissione), costituenti un comportamento contra jus e quindi il presupposto normativo della possibile reintegrazione patrimoniale introdotta dalle nuove norme, avviene, ordinariamente, per vizi di legittimità, di cui, ancora ordinariamente si contrappongono posizioni giuridiche individuali denominate interessi legittimi.

Dunque, per meglio intendere, l’ipotesi ordinaria fatta dal legislatore della recente riforma riguarda proprio quella di lesione di interessi legittimi che non esclude certo la riparazione in caso di lesione di diritti soggettivi: del resto, al modulo della giurisdizione esclusiva il legislatore ricorre, come è noto, quando siano interconnesse e non facilmente distinguibili posizioni di diritto soggettivo e di interesse legittimo, cosicché  esso legislatore preferisce, senza creare ulteriori problemi, assoggettare le liti concernenti entrambe le posizioni soggettive al medesimo regime.

5. Data tale ricostruzione si pone il problema tra diverse configurazioni di responsabilità ai fini dell’onere della prova tra sviamento e abuso d’ufficio (14).

Si tratta di responsabilità extracontrattuale alla stregua dell’art. 2043 c.c. oppure di responsabilità contrattuale? Si è in presenza di inadempimento o adempimento imperfetto o tardivo? Ciò diviene importante ai fini dell’onere della prova, in quanto mentre per l’ipotesi prima l’onere della prova per dimostrare l’esistenza del danno ricade sul soggetto che agisce in giudizio, nel caso secondo la non imputabilità ricade sul debitore ex art. 1218 c.c..

Ancora seguire più da vicino la teoria della responsabilità aquiliana significherebbe dedicare non poco spazio all'elemento soggettivo o psicologico perché da esso discendono ulteriori diversi effetti che si riflettono sul tipo di responsabilità, da qui se ne ricava la responsabilità da dolo che rientra nella fattispecie dell’art. 43 c.p. o viceversa, troviamo per esplicita mancanza di una norma nella disciplina della responsabilità civile che la colpa secondo il c.p. si caratterizza per imprudenza, imperizia, negligenza, essa si presenta più spesso nei comportamenti omissivi anche se tale comportamento può avvenire pure ovviamente con dolo. Ma nelle materie devolute alla giurisdizione piena del g.a. del d. lgs. n. 80/98, la responsabilità nasce, ordinariamente (ma non sempre) da atti e provvedimenti della P.A. (ed anche da comportamenti come l’inerzia, il ritardo, e così via), occorre  quindi avvalersi di un metro diverso rispetto a quanto appena detto per il fatto che per gli atti  o comportamenti in questione si tratta, per definizione, di atti volontari ordinariamente tipici, più precisamente, di manifestazioni di volontà dirette ad uno scopo tipico previsto dalla legge per la realizzazione di finalità legate al soddisfacimento di interessi generali o comunque riguardanti gruppi sociali più o meno ampi (15).

Dunque non solo la volontarietà ma finanche la finalità è come ipotizzata nell’atto, ragion per cui non occorrono indagini sull’atteggiarsi della volontà dell’agente e in genere sull’elemento pisicologico di questi (a meno che non si tratti di accertare una intenzione dolosa e dunque una volontà deviata rispetto al fine tipico del provvedimento posto in essere) (16).

Che il soggetto il quale abbia ricevuto danni da un comportamento o atto illegittimo, se è tenuto a dimostrare l’esistenza del danno, non ha l’onere di dimostrazione della colpa. Non è così viceversa nel caso di fattispecie costituente reato.

Incidentalmente e per intenderci le leggi di diritto pubblico pongono rispetto all’organo agente una serie di fini fra i quali lo stesso deve operare una scelta per perseguire il pubblico interesse, però lo stesso incontra interessi privati che pure devono essere valutati per la trasparenza dell’attività amministrativa. E’ proprio qui che si può verificare l’eccesso di potere, l’atto che diverge dalle finalità istituzionali, ovvero quando vi è una deviazione dovuta alla volontà dell’agente che vuole un fine diverso da quello voluto dalla legge in capo all’amministrazione (17).

Incombe quindi al giudice penale accertare insieme al provvedimento affetto da vizi la sussistenza o meno della consumazione del reato ad es. dell’abuso di ufficio, ovvero come confluenza dell’eccesso di potere nell’abuso. Così per l’altra figura sintomatica dell’eccesso di potere cioè lo sviamento di potere, dove il vero interesse dell’atto non è quello pubblico ma quello privato o ancora uno collaterale o concorrente. È’ chiaro che l’eccesso di potere implica molte altre sottotipologie come il travisamento dei fatti, l’erroneità dei presupposti, difetto di istruttoria, contraddittorietà e illogicità ma mentre per tali tipologie il giudice amministrativo può soffermarsi sul semplice dato oggettivo, per il reato di abuso d’ufficio, compimento di un atto che implica un abuso anormale dell’ufficio, è chiaro che occorre un elemento oltre che oggettivo anche soggettivo. In breve l’elemento comune al vizio di eccesso di potere ed al reato di abuso d’ufficio è appunto il cattivo uso delle funzioni proprie dell’agente mirato a procurare un vantaggio a se o a terzi o un danno ingiusto ad altri.

Detto per inciso, si nota bene il sottile limite che intercorre tra le due figure ed infatti il legislatore per evitare che molto spesso l’eccesso di potere si identificasse con l’abuso d’ufficio, nel 1997, ha modificato l’art. 323 c.p., il quale presenta nuove garanzie per evitare i troppi rischi incombenti sui funzionari per il suddetto possibile controllo del giudice penale. Tale reato da reato di pericolo (semplice esposizione a pericolo del bene tutelato), è stato trasformato in reato di evento (che esige la effettiva lesione del bene tutelato), con conseguente spostamento in avanti del momento di consumazione del reato.

Quindi ora si richiede l’effettiva produzione del vantaggio patrimoniale o del danno ingiusto. Inoltre è questa la più importante sequenza, l’evento anzidetto (vantaggio o danno) deve essere determinato da una norma di legge o da un regolamento.

Rispetto alla previgente norma quella nuova, restringe l’area di punibilità (18). Per questo riteniamo che nel caso in cui il danno si faccia derivare precipuamente dal dolo, occorra una specifica dimostrazione. In tal caso si ipotizza un’intenzione della persona fisica che agisce per la P.A., diretta a conseguire una sua propria finalità, esterna al provvedimento –volontà deviata-, cui consegue la produzione del danno al destinatario dell’atto (eventualmente anche attraverso l’emissione di un provvedimento in se illegittimo). In questa eventualità, sembra potersi affermare che una simile dimostrazione tenda a coincidere con quella dell’eccesso di potere o dell’abuso di ufficio ex art. 323 c.p. come prima affermato.

6. Tali considerazioni consentono di poter porre un’altra domanda, nel caso in cui non vi è intenzionalità dolosa sussiste una responsabilità dell’ente pubblico o amministrazione o organo come apparato che prescinda dalla colpa dell’agente –persona fisica-? Sul punto vale la pena di insistere richiamando le più recenti acquisizioni in materia di elemento soggettivo dell’illecito espresso a partire dalla sentenza a Sezioni unite della Cassazione, con la pronuncia n. 500 del 1999 (19), secondo le Sezioni Unite, quindi, l’imputazione della responsabilità non potrà avvenire “sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità del provvedimento, in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente (da riferire ai parametri della negligenza o imperizia), ma della P.A. intesa come apparato che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni della discrezionalità”.

Tale indirizzo si era espresso anche attraverso l’affermazione secondo la quale, nell’ipotesi di attività provvedimentale della P.A., perché sussista la responsabilità civile di questa è richiesta non solo la violazione di un diritto soggettivo del privato con un atto o provvedimento amministrativo ed il nesso di causalità fra l’atto stesso ed il danno ingiusto subito dal privato, ma anche l’elemento soggettivo del dolo o della colpa previsto e richiesto come elemento indefettibile dalla clausola generale di responsabilità contenuta nell’art. 2043 c.c.; a tal riguardo, il privato non dovrà provare anche la colpa dei singoli funzionari ma, peraltro, la colpa della P.A. può consistere sia nella violazione delle regole di comune prudenza, dando luogo ad attività provvedimentale negligente o imprudente, sia nella violazione di leggi o regolamenti alla cui osservanza la stessa P.A. è vincolata, dovendo osservare i principi di legalità, di imparzialità e di buon andamento prescritti dall’art. 97 Cost. (20).

L’attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione in materia di risarcimento del danno, fissata dall’art.35 d. lgs. n. 80/98 e dall’artt.2 e ss. l. n. 205 del 2000, assume un rilievo essenzialmente processuale e non muta i termini sostanziali della questione: la responsabilità della P.A., correlata all’adozione di atti amministrativi illegittimi, lesivi di posizioni giuridiche protette dall’ordinamento, va costruita secondo le regole comuni stabilite dal diritto delle obbligazioni. È tuttavia necessaria l’individuazione di adeguati criteri applicativi dei principi qui espressi come stabiliti dalla Cassazione.

È plausibile innanzitutto, ritenere che la Cassazione abbia correttamente riconosciuto la peculiarità della funzione amministrativa (e dei parametri normativi che la regolano, anche a livello costituzionale) certamente non riconducibili alle comuni attività svolte dai soggetti dell’ordinamento, in considerazione della specifica disciplina dettata per la cura dell’interesse pubblico e delle oggettive caratteristiche del contatto giuridico (sottolineato dalla più recente dottrina) stabilito tra l’Amministrazione ed i soggetti coinvolti nella sua attività. Il dovere di comportamento del soggetto pubblico (e quindi la misura della colpa) si definisce non solo in funzione delle specifiche regole che disciplinano il potere, ma anche, sulla base di criteri diretti a valorizzare il concreto atteggiarsi di tale contatto, ed alla progressiva emersione dell’affidamento del privato in ordine alla positiva conclusione del procedimento.

Si può ritenere che non può essere trascurata la tendenza a fondare il giudizio di colpa su elementi obiettivi, ancorché a contenuto elastico: l’esigibilità della condotta richiesta all’agente deve essere misurata su parametri normativi concernenti le modalità dell’azione e l’incidenza sulla sfera giuridica e patrimoniale del danneggiato, piuttosto che su incerti apprezzamenti di carattere puramente soggettivo ed individualizzato.

Il rapporto amministrativo valutato secondo i termini in tale sede trattai è certamente sottoposto ad una profonda evoluzione normativa che ne evidenzia la progressiva convergenza verso schemi tratti da altri settori dell’ordinamento e la più completa attenuazione tra l’interesse legittimo e il diritto soggettivo ma ciò non autorizza a ritenere che il processo di assimilazione sia già completamente maturato, il contatto procedimentale, una volta innestato nell’ambito del rapporto amministrativo, caratterizzato da sviluppi istruttori e da un’ampia dialettica tra le parti sostanziali, impone al soggetto pubblico un preciso onere di diligenza, che lo rende garante del corretto sviluppo del procedimento e della sua legittima conclusione. La violazione di dette regole si traduce, nell’illegittimità dell’atto ma essa esprime anche l’indice, quantomeno presuntivo, della colpa del soggetto pubblico. Resta salva, ovviamente, la possibilità di dimostrare che in concreto, l’accertata violazione della regola è derivata da vicende in cui è lo stesso destinatario dell’atto a fornire elementi istruttori inesatti, oppure quando il quadro normativo di riferimento presenta elementi di assoluta incertezza.

Attualmente solo sotto questi parametri normativi e giurisprudenziali è possibile ricondurre la responsabilità della P.A. come apparato quando sussiste una violazione di diritti o interessi scaturenti anche dalla bioetica o in genere dalla nuova medicina.

È auspicabile quindi che le incertezze e la creatività siano ridimensionate dalla certezza legale attraverso precise disposizioni frutto della continua ricerca di perfezione che l’uomo ha il dovere di perseguire per l’amore del proprio prossimo.  

                                                                                                 

NOTE

1.       L. Orsi, A. Bianchi, Cittadino insoddisfatto, sanità in trasformazione: una possibile lettura bioetica del problema in www. Zodig. It/bio/som  98-1.htm, del 18.01.02.

2.       L. Orsi, A. Bianchi, op. loc. cit..

3.       www faswebnet it A. Santorusso, in Consiglio Superiore della Magistratura, incontro di studio su Biologia, biotecnologia e diritto (Roma, 8-10 Novembre 2001), del 18.01.02. Lo studio partiva dal Law-Medicine research di Boston tra il 1958 e il 1962 su 86 dipartimenti di medicina. Nel 1972 il New York Tmes dà notizia in prima pagina delle sperimentazioni in corso sin dal 1932, su ignari uomini neri malati di sifilide e che ignari sul tipo di terapia loro somministrata non ricevevano invece alcuna cura onde osservare la storia naturale della sifilide non trattata.

4.       Corte di Cassazione 25 luglio 1967, n. 1950, Archivio Responsabilità Civile, 1968, 907.

5.       A. Santorusso, op. loc. cit., attualmente si continua a parlare di “cavie umane” a proposito dei numerosi annunci su giornali e siti Internet in cui vengono ricercati soggetti sieropositivi o donne con intensa attività sessuale o bambini sovrappeso e altro disposti, dietro compenso, a sottoporsi a sperimentazione di farmaci i più diversi.

6.       In www.Piazza salute.it, guida al benessere, carta dei diritti del malato, del 18.01.02.

7.       L. Orsi, Le novità del nuovo codice di deontologia medica viste con l’occhio dell’anestesista rianimatore in www. Zodig. It/bio/som  98-1.htm, del 18.01.02.

8.       A. Santorusso, , op. loc. cit.

9.       I. Franco, Strumenti di tutela del privato nei confronti della pubblica amministrazione, Padova,1999, 425.

10.    I. Franco, op. loc. cit..

11.    Ministero della Sanità: Linee Guida n. 2/95.

12.    In www ospfe.it/carta.html, del 18.01.02.

13.    In www.Piazza salute.it, guida al benessere, op. loc. cit..

14.    G. Fiandaca e E. Musco, Diritto penale, parte speciale, vol.I, Bologna, 1997, 238.

15.    I. Franco, op. loc. cit..

16.    A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, XIV,  Napoli, 679; Cass. S.U. 22 ottobre 1984 n. 5361, in Giust. civ., 1985, 1419; Cass. Civ., I Sez., 24 maggio 1991 n. 5883, in Cons. Stato, 1991, II, 1709.

17.    Cons. Stato, VI Sez., 13 ottobre 1993 n. 713, in Cons. Stato 1993, I, 1287; T.A.R. Toscana, I Sez., 11 marzo 1997 n. 40, in T.A.R. 1997, I, 1876.

18.    G. Fiandaca e E. Musco, Diritto penale, parte speciale, vol.I, Bologna, 1997, 233; Cass. Pen.. IV Sez. 12 dicembre 1996 n. 10680, in Sett. Giur. 1997, III, 424.

19.    Cass. civ. S.U., 22 luglio 1999 n. 500, in Cons. Stato, 2000, II, 44.

20.    Cass. civ., I Sez., 24 maggio 1991 n.5883, in Cons. Stato 1991, II, 1079.