La Corte d’Appello di Milano con la recente sentenza n. 4771, del 2 dicembre 2019, è tornata sull’annosa questione della distinzione tra agente e procacciatore d’affari, confermando la tesi da sempre sostenuta dalla Cassazione, secondo cui è procacciatore d’affari solo colui che opera in via del tutto episodica, cioè legata ad affari determinati ed occasionale, ovvero di durata limitata nel tempo, mediante la mera segnalazione di clienti o la sporadica raccolta di ordini, mentre l’agente si caratterizza per una stabile e duratura attività di promozione della conclusione dei contratti di vendita dei prodotti e/o dei servizi offerti dal preponente alla propria clientela.
Nello specifico, con la sentenza impugnata dall’appellante società di persone il Tribunale di Como aveva, erroneamente, ritenuto sussistere tra le parti un contratto di procacciamento d’affari, anziché di agenzia e ciò sulla base del nomen iuris attribuito dalle stesse parti al loro contratto, definito: “accordo per attività di procacciamento d’affari”, nonché di alcune clausole, come l’art. 2) quanto all’attività da svolgere per conto della preponente, l’art. 3) per l’assenza (formale) di qualsiasi obbligo di promozione della vendita dei prodotti e servizi della stessa preponente e l’art. 4 per l’esclusione di qualsivoglia diritto di esclusiva, con conseguente rigetto della domanda dell’appellante per mancanza di prova dell’esistenza di un contratto di agenzia.
La società appellante, per contro, ha richiamato l’intero contratto e, quindi, anche altre clausole pure significative; la continuazione del contratto anche dopo la sua, originaria, scadenza del 31/1/2014, cessato solo a seguito della risoluzione intimata dalla società convenuta in data 7/8/2014; l’acquisizione di nuovi clienti nel pur breve periodo di durata del contratto; lo svolgimento in concreto dell’attività promozionale ed, infine, la circostanza dei contributi previdenziali e del FIRR versati dalla preponente presso l’Enasarco, oltre al fatto, pure rilevante, dell’indicazione dell’appellante quale “agente” nei vari estratti conto provvigioni ricevuti dalla preponente.
Per i giudici d’appello, proprio dall’esame dell’intero contratto e, quindi, non solo di alcune clausole, si evince come, a prescindere dal nomen iuris utilizzato dalle parti, la volontà delle stesse parti fosse nel senso di concludere un contratto di agenzia, tenuto conto infatti, tra l’altro, del divieto di concorrenza dell’agente (art. 3), dell’obbligo di preavviso dello stesso agente al termine del rapporto (art. 9), degli ulteriori obblighi pendenti sull’agente di seguire le istruzioni della preponente (art. 10) e d’informazione (art. 12) e del divieto di cessione del contratto (art. 13), nonché della previsione dello svolgimento dell’attività promozionale in una determinata zona geografica, coincidente con i Comuni delle provincie di Como e di Novara.
Ne deriva (giustamente) che, secondo la Corte d’Appello, letto l’intero contratto e correttamente interpretato, sulla base dell’attività svolta in concreto dall’appellante, si possa fondatamente ritenere che tra le parti fosse stato stipulato un vero e proprio contratto di agenzia e non, quindi, di procacciamento d’affari, atteso, infatti, in particolare, che l’art. 2) prevedeva la promozione e l’acquisizione di commissioni di servizi di vigilanza nei confronti di privati, imprese, istituti di credito, stabilimenti, esercizi commerciali, uffici ed ogni altro ente pubblico o privato comunque interessato a fruire dei predetti servizi.
L’argomentazione utilizzata dal tribunale per escludere la sussistenza di un rapporto di agenzia, vale a dire l’autonomia dell’appellante nell’esercizio della propria attività promozionale, stride, oltre tutto, con la previsione contrattuale dell’immediata risoluzione del rapporto da parte della preponente dovuta anche ad una sola inosservanza delle diposizioni o istruzioni impartite dalla stessa (art. 10), nonché con la copiosa corrispondenza prodotta dall’appellante e sintomatica delle direttive e delle istruzioni specificamente impartite dalla società preponente.
La puntualizzazione, poi, effettuata dal tribunale in ordine alla mancata previsione del diritto di esclusiva per escludere il rapporto di agenzia non risulta pertinente e, soprattutto, decisiva, se è vero, infatti, che l’esclusiva è un elemento naturale e non essenziale del contratto di agenzia (come stabilito dall’art. 1743 c.c.) e, dunque, un elemento liberamente disponibile dalle parti.
Si può, pertanto, concludere che, nonostante l’irrilevante nomen iuris utilizzato dalle parti per qualificare il loro contratto, l’esame del complesso delle clausole contrattuali, nonché la conclusione di specifici contratti di vendita nel corso del rapporto, come documentato dall’appellante, con la corresponsione mensile delle relative provvigioni ed il fatto del versamento dei contributi e del Firr all’Enasarco siano tutte circostanze che consentano di qualificare il rapporto contrattuale tra le parti come vera e propria agenzia.
La sentenza ha, dunque, confermato la correttezza dell’impostazione data, in primo grado, dallo scrivente al tema della differenza tra la figura dell’agente e quella del semplice procacciato d’affari, che continua ad essere una delle fattispecie più frequentemente indagate da parte dei giudici nazionali, per riconoscere (o meno) le indennità di fine rapporto, oltre che da parte degli ispettori dell’Enasarco, per combattere l’evasione della contribuzione previdenziale.
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