Decreto ingiuntivo prima, ricorso sommario dopo; ma il credito è unitario...
Tribunale Catanzaro, sez. II civile, ordinanza 22.02.2012
Avv. Angelo Forte
di Modugno, BA
Letto 1421 volte dal 28/05/2012
i principi di buona fede e di correttezza, per la loro ormai acquisita costituzionalizzazione in rapporto all'inderogabile dovere di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., costituiscono un canone oggettivo ed una clausola generale che non attiene soltanto al rapporto obbligatorio e contrattuale, ma che si pone come limite all'agire processuale nei suoi diversi profili. Il criterio della buona fede costituisce, quindi, strumento, per il giudice, atto a controllare, non solo lo statuto negoziale nelle sue varie fasi, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi, ma anche a prevenire forme di abuso della tutela giurisdizionale latamente considerata, indipendentemente dalla tipologia della domanda concretamente azionata (v. ad es. Cass. 3.12.2008 n. 28719; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Che è ciò che si verificherebbe con il consentire la "parcellizzazione" della tutela processuale dell'azione extracontrattuale per i danni materiali e personali da circolazione stradale, davanti al giudice di pace ed al tribunale in ragione delle rispettive competenze per valore, quando le conseguenze dannose derivanti dal fatto illecito si siano puntualmente e definitivamente verificate.
Tribunale di Catanzaro
Sezione II
Ordinanza 22 febbraio 2012
OSSERVA E RILEVA
1.1. Con ricorso ai sensi dell'art. 702 bis c.p.c., V, A, D e L chiedevano all'intestato Tribunale la condanna della Regione Calabria al pagamento della complessiva somma di euro 1.285.271,00, oltre interessi, da suddividersi poi tra essi nella misura indicata nel ricorso, quale ulteriore compenso per l'attività svolta in base alla convenzione del 18 ottobre 2002.
In particolare, nel ricorso introduttivo era dedotto quanto segue:
a) con deliberazione n. 288 del 15 aprile 2002 gli odierni ricorrenti avevano ricevuto l'incarico di verificare la situazione debitoria del Consorzio di Bonifica della Piana di … e della … e di tentare di addivenire a definizioni transattive delle accertate pendenze debitorie;
b) in data 18 ottobre 2002 veniva stipulata la convenzione tra i ricorrenti e la Regione Calabria disciplinante il suddetto incarico, ove si prevedeva l'applicazione della tariffa degli avvocati "tenuto conto che le questioni da risolvere sono in prevalenza di natura giuridica" e si prevedeva per i professionisti legali un compenso fisso (indicato nella misura del 65% del minimo della tariffa professionale stragiudiziale degli avvocati e quindi pari allo 0,3250% anziché allo 0,50% rispetto al valore che sarebbe emerso corrispondente alla somma dei debiti e dei crediti complessivi dell'ente) ed un compenso eventuale e premiale (in percentuale "pari allo 0,20% rispetto all'importo dei debiti che, per effetto delle ipotesi di transazione saranno oggetto di rinuncia da parte dei creditori");
c) pur avendo puntualmente compiuto l'incarico ricevuto, la Regione Calabria non aveva provveduto a corrispondere il compenso dovuto;
d) per la predetta ragione, gli odierni ricorrenti erano costretti ad adire il Tribunale di Catanzaro, e, "per estremo atto di disponibilità e correttezza, agivano in via monitoria con riferimento al solo compenso fisso e nel limite contrattuale (illegittimo in quanto inferiore al minimo di tariffa) evidenziando nel ricorso di non rinunziare alla differenza per giungere al minimo di legge ed al compenso aggiuntivo e premiale maturato ma di riservarsi in proposito ogni valutazione collegabile all'atteggiamento che avrebbe tenuto la Regione. La scelta dei professionisti risultava apprezzabilmente motivata sia sul piano processuale, in quanto veniva adottato il procedimento monitorio per la parte del credito certa, liquida ed esigibile confidando che nessuna opposizione sarebbe sta formulata ex adverso, che sul piano della correttezza dei rapporti, dandosi così all'Ente la possibilità di definire in via amichevole ed eventualmente transattiva il saldo di quanto dovuto" (così testualmente a pag. 4 del ricorso ex art. 702-bis c.p.c.);
e) la Regione Calabria proponeva opposizione a decreto ingiuntivo, che veniva rigettata con sentenza n. 315 del 9 febbraio 2010 del Tribunale di Catanzaro, la quale accertava la sussistenza del diritto fatto valere dagli odierni ricorrenti;
f) pur essendo decorso oltre un anno dal deposito della predetta sentenza, che era passata in giudicato non essendo stata appellata, la Regione Calabria non aveva provveduto a corrispondere quanto dovuto;
g) in tale situazione, e riservandosi di agire esecutivamente per l'adempimento delle somme riconosciute dalla sentenza n. 315/2010, i ricorrenti si erano determinati ad agire contro la Regione Calabria anche per ottenere il pagamento del compenso aggiuntivo e premiale nonché per l'adeguamento del compenso spettante al L, avvocato, non potendosi violare nei suoi confronti i minimi previsti dalla tariffa professionale degli avvocati e che invece erano stati derogati dalla convenzione del 18 ottobre 2002;
h) siffatta pretesa ben poteva essere fatta valere tramite il rito sommario, posto che essa risultava provata documentalmente e non necessitava di attività istruttoria;
i) per quanto concerne il compenso aggiuntivo e premiale, esso poteva essere calcolato in base alla percentuale (indicata nella convenzione) dei debiti abbattuti ed indicati nella relazione finale predisposta dagli odierni ricorrenti in euro 143.874.931,99, con la conseguenza che il V ed il L avevano diritto, ciascuno, alla somma di euro 287.749,86 (0,20% di euro 143.874.931,99), mentre l'A ed il D avevano diritto, ciascuno, alla somma di euro 143.874,93 (0,10% di euro 143.874.931,99);
l) per quanto riguarda l'adeguamento del compenso ai minimi tariffari, inderogabili ai sensi dell'art. 24 L. 794 del 1942, il L aveva diritto a percepire l'ulteriore somma di euro 241.157.278,18.
1.2. Si costituiva in giudizio la Regione Calabria, che eccepiva: l'improcedibilità del ricorso ex art. 702-bis c.p.c., stante la non sommarietà della causa; l'inammissibilità della domanda per violazione del principio del “ne bis in idem”, stante l'intervenuto giudicato contenuto nella sentenza del Tribunale di Catanzaro n. 315/2010 che copriva il dedotto ed il deducibile; l'infondatezza, nel merito, della domanda dei ricorrenti.
2. Preliminarmente, deve essere scrutinata l'eccezione relativa alla “improcedibilità” del ricorso sommario. L'eccezione si rivela priva di fondamento.
Vale, innanzitutto, precisare che il presente giudizio rientra nella cognizione del Tribunale monocratico, onde deve escludersi, in radice, una questione di inammissibilità del ricorso ex art. 702-bis, co. II, c.p.c.
Residua, dunque, la verifica della sommarietà dell'istruzione della causa, posto che, ove il giudizio meritasse un approfondimento istruttorio, dovrebbe disporsi il mutamento del rito, da sommario ad ordinario (ma non dichiararsi l'improcedibilità del ricorso, non prevista dal codice di rito).
Al riguardo, si osserva che i primi commentatori della L. 69/2009, che ha introdotto il rito sommario, hanno ritenuto che il carattere di tale istruttoria sia: 1) o la sua deformalizzazione, cui fa riferimento il comma V dell’art. 702-ter; 2) o la manifesta fondatezza della domanda attorea ovvero la manifesta infondatezza delle difese del convenuto, secondo quello che era lo schema proprio del giudizio sommario societario.
Tali opinioni non appaiono condivisibili.
Di certo, il carattere essenziale e distintivo dell’istruttoria sommaria non è la deformalizzazione, poiché essa è un modo di manifestarsi dell’istruttoria, ma non rappresenta la sua essenza. Inoltre, leggendo il testo della norma, si comprende che il carattere della deformalizzazione si aggiunge a quello della sommarietà dell’istruttoria, ma non lo sostituisce né lo assorbe.
Ancora, non può invocarsi il paradigma del rito sommario societario, perché il nuovo rito sommario nasce con un perimetro di applicazione che è del tutto differente rispetto a quanto prevedeva l’art. 19 del D. Lgs. n. 5/2003.
Inoltre, la limitazione del nuovo rito alle ipotesi di manifesta fondatezza/infondatezza rischierebbe di pregiudicarne irrimediabilmente l’impiego, in netto contrasto con la finalità primaria del legislatore del 2009, ovvero quella di creare un rito di portata generale, alternativo a quello ordinario, che consenta una soluzione molto rapida delle controversie con istruttoria meno complessa.
Ancora, la sommarietà richiamata dall'art. 702-bis c.p.c. deve essere ben distinta dall'istruttoria cautelare.
Quest’ultima è finalizzata all’emanazione di un provvedimento che, pur dopo la riforma del 2005, non è idoneo ad avere efficacia di giudicato. E questo perché l’istruttoria cautelare ha lo scopo di riscontrare non già l’esistenza del diritto per cui si chiede tutela, ma del suo fumus, e per tale ragione essa può essere più superficiale, nel senso che può e deve arrestarsi ove emerga tale fumus.
Invece, l’istruttoria sommaria di cui all’art. 702-ter è finalizzata all’emissione di un provvedimento che può acquistare efficacia di giudicato, e per tale motivo deve avere lo stesso grado di approfondimento che ha ogni altra istruttoria ordinaria, poiché identiche sono le finalità: nel procedimento ordinario, come in quello nuovo sommario, il giudice deve accertare l’esistenza del diritto fatto valere, non già accertare la verosimiglianza della sua esistenza.
Pertanto, neanche il grado di approfondimento circa la sussistenza e consistenza delle situazioni giuridiche in gioco vale a distinguere la nuova istruttoria sommaria da quella ordinaria.
Allora, non resta che valorizzare il dato della “semplicità dell’istruttoria”.
L’istruttoria sommaria ex art. 702-ter è tale non già perché semplicemente deformalizzata (è anche questo, ovviamente); non già perché può trovare applicazione solo nelle cause in cui sia manifestamente fondata la domanda (ovviamente, trova applicazione anche nelle cause ove emerga la manifesta fondatezza della domanda ovvero la manifesta infondatezza delle difese del convenuto); ma l’istruttoria ex art. 702-ter è sommaria perché è semplice, è rapida, è destinata a durare poco.
Ed è destinata a durare poco perché pochi, semplici e rapidi sono gli atti istruttori da svolgere.
La prassi applicativa vede una sostanziale adesione alla tesi sopra esposta (cfr. Trib. Mondovì 5 novembre 2009 est. Demarchi; Trib. Varese 18 novembre 2009 est. Buffone; Trib. Sant'Angelo dei Lombardi 20 novembre 2009 est. Levita; Trib. Torino 11 febbraio 2010 est. Tassone).
Nel caso di specie, il giudizio non necessita di attività istruttoria, non avendo le parti articolato prove e basandosi la liquidazione del compensi richiesta dai ricorrenti esclusivamente sulla documentazione in atti, onde la via del rito sommario appare certamente percorribile.
3. La domanda dei ricorrenti, tuttavia, deve essere dichiarata improponibile in virtù del divieto di frazionamento del credito in via processuale (cfr. ex multis Cass. civ. SS.UU. 15 novembre 2007 n. 23726; Cass. civ. 11 giugno 2008 n. 15476; Cass. civ. 20 novembre 2009 n. 24 539).
3.1. Ed invero, come poc'anzi visto, i ricorrenti hanno esplicitamente ammesso di aver volontariamente limitato la pretesa oggetto della sentenza n. 315/2010 solo al compenso fisso scaturente dalla convenzione del 18 ottobre 2002, riservando di agire in separata sede per l'ulteriore compenso aggiuntivo e premiale nonché per la differenza dovuta rispetto ai minimi tariffari.
3.2. La circostanza che il frazionamento del credito sia un dato fattuale pacifico tra le parti esclude la necessità di sollecitare il contraddittorio in relazione alle conseguenze giuridiche da tale fatto derivanti. Invero, il principio posto dall'art. 101 co. II c.p.c., così come modificato dalla L. 69/2009 - ma comunque già in precedenza individuato dalla giurisprudenza di legittimità - deve intendersi limitato all'ipotesi in cui il giudice rilevi una questione fondata su un fatto (rilevabile d'ufficio ma) non dedotto dalle parti; ove, invece, il fatto sia già stato dedotto dalle parti, avendo esse avuto la facoltà di contraddire al riguardo, la determinazione delle conseguenze giuridiche discendenti da quel fatto non devono essere oggetto di contraddittorio, essendo esse riservate esclusivamente al giudice in virtù del principio iura novit curia.
3.3. Orbene, la condotta dei ricorrenti, che si è concretizzata nel frazionamento, in due giudizi, delle pretese creditorie nascenti dall'unico rapporto obbligatorio sancito dalla convenzione del 18 ottobre 2002, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l'esecuzione del contratto ma anche nell'eventuale fase dell'azione giudiziale per ottenere l'adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l'ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale.
Al riguardo, giova evidenziare che sin dalla proposizione della prima domanda (avvenuta il 30 maggio 2006) i ricorrenti avevano a disposizione tutti gli elementi per far valere l'intero ammontare del loro credito, posto che le somme oggi richieste quale compenso aggiuntivo e premiale sono state determinate semplicemente applicando le percentuali indicate in convenzione all'ammontare del debito abbattuto così come individuato nella relazione conclusiva del loro incarico, mentre la dedotta illegittimità della clausola derogativa dei minimi tariffari era già immediatamente riscontrabile al momento della stipulazione della convenzione, e, pertanto, la correlata parte di credito poteva essere fatta valere unitamente alle altre.
Né, del resto, potrebbe sostenersi che gli odierni ricorrenti abbiano legittimamente fatto valere solo la porzione di credito certa ed esigibile con lo strumento del ricorso per decreto ingiuntivo, riservandosi di utilizzare i mezzi ordinari per la rimanente parte non liquida, posto che, altrimenti, sarebbe stata loro preclusa la via monitoria. Premesso che il compenso aggiuntivo e premiale, così come indicato nel ricorso ex art. 702-bis c.p.c., se non già liquido, risulta certamente di facilissima liquidabilità, sì da poter essere fatto valere anche in via monitoria, vale comunque evidenziare che il principio di non frazionabilità del credito, siccome emanazione del principio di correttezza e buona fede e del principio costituzionale del giusto processo, prevale su qualsivoglia ipotetico diritto allo strumento processuale più agevole, sicché il creditore, che vanti un credito in parte certo e/o liquido ed in parte incerto e/o illiquido, non può suddividerlo in ragione dei diversi strumenti processuali impiegabili, ma deve agire facendo valere con un’unica domanda il suo intero credito.
Da ciò deriva che la condotta processuale dei ricorrenti, lungi dal risultare vantaggiosa per la Regione Calabria (come, invece, essi sembrano ritenere: si veda il § 1.1.d) ha invece costituito per il debitore una unilaterale modificazione aggravativa della sua posizione, sia in termini di maggiori interessi dovuti sulle somme richieste, sia in termini di maggiori spese di lite (che, anziché per un solo giudizio, vengono richieste per due).
3.4. Né, infine, potrebbe sostenersi la scusabilità della condotta processuale dei ricorrenti in ragione dell'orientamento giurisprudenziale dominante (ci si riferisce a Cass. civ. SS.UU. 10 aprile 2000 n. 108) che consentiva la frazionabilità del credito previa riserva di azione per la residua parte, invocandosi l'overruling giurisprudenziale, posto che nel caso di specie non si tratta di scongiurare che l'ermeneusi sopravvenuta impedisca l'esercizio di una tutela che l'ordinamento continua a ritenere meritevole, ma di non consentire l'utilizzo di pratiche giudiziarie incompatibili con valori avvertiti come preminenti ai fini di un efficace ed equo funzionamento del servizio della giustizia.
3.5. La questione da ultimo affrontata è stata di recente analizzata dalla Suprema Corte (seppur in una pronuncia relativa a poste risarcitorie), le cui motivazioni, per la completezza del ragionamento giuridico, si propongono di seguito, anche ai sensi dell'art. 118 co. I disp. att. c.p.c. (da ritenersi applicabile a tutti i provvedimenti aventi natura decisoria, e quindi anche alle ordinanze ex art. 702-ter c.p.c.): “Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2043 c.c. in relazione all'art. 1181 c.c., art. 1175 c.c., art. 539 c.p.p., art. 211 c.p.c. e art. 278 c.p.c., con riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3. Il motivo non è fondato.
Diversamente da quel che sembra ritenere l'odierno ricorrente, infatti, i principi di buona fede e di correttezza, per la loro ormai acquisita costituzionalizzazione in rapporto all'inderogabile dovere di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., costituiscono un canone oggettivo ed una clausola generale che non attiene soltanto al rapporto obbligatorio e contrattuale, ma che si pone come limite all'agire processuale nei suoi diversi profili. Il criterio della buona fede costituisce, quindi, strumento, per il giudice, atto a controllare, non solo lo statuto negoziale nelle sue varie fasi, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi, ma anche a prevenire forme di abuso della tutela giurisdizionale latamente considerata, indipendentemente dalla tipologia della domanda concretamente azionata (v. ad es. Cass. 3.12.2008 n. 28719; Cass. 11.6.2008 n. 15476).
Che è ciò che si verificherebbe con il consentire la "parcellizzazione" della tutela processuale dell'azione extracontrattuale per i danni materiali e personali da circolazione stradale, davanti al giudice di pace ed al tribunale in ragione delle rispettive competenze per valore, quando le conseguenze dannose derivanti dal fatto illecito si siano puntualmente e definitivamente verificate.
Anche in questo caso, infatti, esiste una controparte (il danneggiante) i cui interessi meritano una equilibrata tutela, senza consentirne alterazioni ad opera del danneggiato-creditore, con il prolungamento ed i costi ulteriori di una inutile duplicazione dell'azione processuale per i danni conseguenti ad unico fatto illecito.
Ed allora, una tale disarticolazione dell'unico rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto illecito, oltre ad essere lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, con l'aggravamento della posizione del danneggiante-debitore, per essere attuata con ed attraverso il processo, si risolve anche in un abuso dello strumento processuale.
Con la violazione anche della finalità deflattiva insita nella norma costituzionale dell'art. 111 per il paradosso esistente tra la moltiplicazione dei processi e la possibile limitazione della relativa durata.
Del resto, in tema di rapporto tra giudizi pendenti davanti al giudice di pace ed al tribunale, il principio della necessaria unicità del giudizio davanti al tribunale è, dall'art. 40 c.p.c., u.c., proclamato in modo espresso, anche per le domande solo connesse tra loro.
Nel caso in esame, i criteri identificativi della domanda erano gli stessi, il rapporto era identico, il fatto illecito generatore del danno era unico e le sue conseguenze dannose si erano definitivamente verificate, sia in rapporto alle conseguenze materiali, sia a quelle personali, delle quali l'originario attore chiedeva il risarcimento.
Emerge, infatti, dagli atti che, al momento della proposizione della domanda davanti al primo giudice, l'odierno ricorrente fosse pienamente conscio anche dei danni personali conseguenti al fatto illecito (consolidamento dei postumi invalidanti - invalidità riconosciuta dall'INAIL).
In tale situazione, alla luce delle considerazioni che precedono, non è giustificabile la disarticolazione della tutela giurisdizionale richiesta mediante la proposizione di distinte domande, privilegiando la scelta del giudice di pace secondo la sua corretta individuazione per valore.
E ciò, neppure con la riserva di far valere ulteriori e diverse "voci di danno" in altro procedimento, che l'attuale ricorrente aveva inserito nella domanda proposta con il primo giudizio.
La strumentante di una tale condotta frazionata è - come già detto - evidente, ma non è consentita dall'ordinamento che le rifiuta protezione per la violazione di precetti costituzionali e valori costituzionalizzati, concretizzandosi, in questo caso, la proposizione della seconda domanda, in un abuso della tutela processuale, ostativa al suo esame.
Né, in questo caso, può invocarsi, in senso contrario, il principio seguito dalla giurisprudenza della corte di cassazione, per il quale la riserva di far valere ulteriori danni in un autonomo giudizio, sia consentita (ad es. Cass. 30.10.2006 n. 23342; ma v. anche Cass. 22.8.2007 n. 17873; cass. 7.12.2004 n. 22987).
Per le caratteristiche del caso in esame - in cui il danno derivante dall'unico fatto illecito riferito alle cose ed alla persona si era già verificato nella sua completezza -, il consentire un uso parcellizzato della tutela processuale colliderebbe con i principi ricordati, nel mutato, ed attuale, assetto dei valori costituzionali, cui deve necessariamente ispirarsi anche il processo civile.
Correttamente, pertanto, il giudice del merito ha, sotto questo profilo, rigettato la domanda.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 11 disp. gen. (R.D. 16 marzo 1942, n. 262), art. 25 Cost., comma 2, e art. 5 c.p.c..
Anche questo motivo non è fondato.
Il ricorrente sostiene l'erroneità della sentenza impugnata, per avere rigettato l'appello sul presupposto della improponibilità della domanda, ricavata da una mutata interpretazione di principi giuridici, con effetto retroattivo: la domanda, infatti, al momento in cui era stata proposta (anno 2004), era pienamente legittima alla stregua della giurisprudenza delle Sezioni Unite.
La tesi non può essere seguita.
Il "giusto processo" espresso dalla norma dell'art. 111 Cost., come riformato con la legge costituzionale 23.11.1999 n. 2, sulla scia dei principi enunciati dalla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (art. 6), è principio che nella giurisprudenza della Corte di cassazione, dopo la sua emersione, ha subito una maturazione interpretativa.
Le linee che si sono così delineate sono state caratterizzate dal legame inscindibile che ha legato la "giustezza" del processo alla meritorietà della tutela giurisdizionale della situazione fatta valere dall'interessato e delle sue modalità di attuazione; di modo che una condotta che si fosse caratterizzata per l'uso strumentale del processo non avrebbe potuto trovare tutela nell'ordinamento (v. ad es. Cass. 10.10.2011 n. 20798; Cass. 10.5.2010; Cass. Ord. 3.5.2010 n. 10634; Cass. Ord. 5.2.2011 n. 2799; S.U. 14.1.2009 n. 553; Cass. 3.12.2008 n. 28719; Cass. 11.6.2008 n. 15476).
Ora, è opportuno sottolineare che il precedente delle Sezioni Unite richiamato a proprio favore dal ricorrente (S.U. 10.4.2000 n. 108) - che consentiva il frazionamento della domanda relativa ad unico rapporto obbligatorio - era stato emesso in sede di risoluzione di contrasto fra le sezioni semplici, segno questo della non univocità, nel tempo, di una tale l'interpretazione giurisprudenziale.
Ma quel che più conta è che il concetto di giusto processo, con la riforma costituzionale dell'art. 111 (anno 1999), ancora non aveva subito - per la sua recente introduzione rispetto al momento della pronuncia delle sezioni unite richiamata (2000) - quella maturazione di interpretazione conclusasi con il definitivo approdo del 2007 (S.U. 15.11.2007 n. 23726).
In sostanza, ciò che si vuol dire è che la meritorietà della tutela, nella interpretazione della Corte di cassazione, si è evoluta fino ad acquisire un ruolo determinante come ratio decidendi della controversia; nel senso che non può essere accordata protezione ad una pretesa priva di meritorietà.
Non coglie nel segno, pertanto, il riferimento, cui fa cenno il ricorrente in memoria, circa il concetto di overruling (con la cit. Cass. 17.6.2010 n. 14627), anche perché la rimessione in termini disposta dalla Corte, - a fronte di una possibile pronuncia di inammissibilità e di improcedibilità - , in quel caso, conseguiva ad una preclusione all'esame dell'atto di impugnazione - derivante da un mutamento di orientamento interpretativo - ; preclusione non prevista al momento del deposito dell'atto.
Né gli ulteriori precedenti in tema (Cass. ord. interl. 4.11.2011 n. 98; Cass. ord. interl. 8.6.2011 n. 12515; Cass. ord. 26.7.2011 n. 16365) sono rilevanti ai fini che qui interessano, perché si riferiscono alle attività necessarie alla proposizione del ricorso per cassazione, e, più in generale, a norme processuali relative al giudizio di legittimità, o a norme regolanti il processo, implicanti un vizio di inammissibilità od improcedibilità dell'impugnazione.
Ma il tema dell'overruling è stato oggetto di esame anche da parte delle Sezioni Unite di questa Corte di legittimità (S.U. 11.7.2011 n. 15144) la quale - con riferimento al tema qui in discussione - ha sancito che il mutamento della propria precedente interpretazione della norma processuale da parte del giudice della nomofilachia (c.d.
overruling), il quale porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse, opera - laddove il significato che essa esibisce non trovi origine nelle dinamiche evolutive interne al sistema ordinamentale - come interpretazione correttiva che si salda alla relativa disposizione di legge processuale ora per allora; nel senso di rendere irrituale l'atto compiuto od il comportamento tenuto dalla parte in base all'orientamento precedente.
Ora, qui non si tratta di impedire ex post l'esercizio di una tutela di cui l'ordinamento continua a ritenere la parte meritevole, quanto di non più consentire di utilizzare, per l'accesso alla tutela giudiziaria, metodi divenuti incompatibili con valori avvertiti come preminenti ai fini di un efficace ed equo funzionamento del servizio della giustizia. Conclusivamente, il ricorso è rigettato” (così Cass. civ. 22 dicembre 2011 n. 28286).
4. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
Si evidenzia, tuttavia, che alla data della presente decisione è entrato in vigore il D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, che ha abrogato tutte le tariffe professionali, le quali dunque non possono essere applicate.
La liquidazione delle competenze dovute avviene quindi in via discrezionale, utilizzando come mero parametro di riferimento, in mancanza del D.M. previsto dall’art. 9 del testo normativo in questione, le citate e previgenti tariffe forensi.
P.Q.M.
visti gli artt. 702 bis e 702 ter c.p.c.:
1) dichiara improponibile la domanda dei ricorrenti;
2) condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di lite sostenute dalla Regione Calabria, che si liquidano in euro 4.744,00, per compensi professionali, oltre CPA ed IVA.
Così deciso in Catanzaro il 22 febbraio 2012.
IL GIUDICE
Dott. Luca Nania
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