Processo tributario: abuso del diritto è rilevabile d’ufficio
Cassazione civile , sez. tributaria, sentenza 11.05.2012 n° 7393
Avv. Angelo Forte
di Modugno, BA
Letto 891 volte dal 01/08/2012
Nel processo tributario non sono necessarie eccezioni mosse in maniera specifica da parte dell'aministrazione finanziaria al momento della contestazione per l’abuso del diritto. Ciò in quanto il rango comunitario e costituzionale del principio di divieto di abuso del diritto comporta la sua applicazione d'ufficio da parte del giudice tributario, a prescindere, dunque, da qualsiasi allegazione, al riguardo, ad opera delle parti in causa
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Sentenza 11 maggio 2012, n. 7393
Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 138/28/09, depositata il 28.9.09, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia rigettava l'appello proposto dalla società TEVA Pharmaceutical Fine Chemicals s.r.l., con sede in Milano, avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale, con la quale era stato rigettato il ricorso proposto dalla contribuente avverso l'avviso di accertamento emesso ai fini IRPEG, per l'anno di imposta 2000.
2. La CTR, invero, condividendo l'iter argomentativo seguito dal giudice di prime cure, riteneva indeducibile, nella determinazione del reddito di impresa, la svalutazione - operata dalla contribuente - della partecipazione detenuta nella società portoghese Pharmaceutical Fine Chemicals Portuguesa Limitada, controllata fiscalmente dalla contribuente, la quale aveva - a sua volta - svalutato la propria partecipazione nella controllata Pharmaceutical Fine Chemicals Bahamas, in seguito alle perdite conseguite da tale ultima società, titolare, per conferimento da parte della società portoghese, dello stabilimento produttivo di Freeport nelle Bahamas.
2.1. Il giudice di appello riteneva, in buona sostanza, che la società portoghese costituisse una sorta di "paravento" giuridico, finalizzato a consentire - mediante un'operazione elusiva - un considerevole risparmio di imposta alla società italiana, consentendole di operare, di fatto, la svalutazione della sua partecipazione nella società bahamense, impeditale dal disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 61, comma 3 bis.
3. Per la cassazione della sentenza n. 138/28/09 ha proposto ricorso a TEVA Pharmaceutical Fine Chemicals s.r.l., affidato a cinque motivi. L'amministrazione intimata ha replicato con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. Con il primo, secondo e quarto motivo di ricorso - che, attesa la loro evidente connessione, vanno esaminati congiuntamente - la TEVA Pharmaceutical Fine Chemicals s.r.l. (in prosieguo la TEVA s.r.l.) denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, commi 4 e 5, e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 61, comma 3 bis, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3. 1.1. La contribuente ha, invero, premesso che - con l'avviso di accertamento, emesso ai fini IRPEG per l'anno di imposta 2000 - l'amministrazione finanziaria aveva ritenuto indeducibile da parte della TEVA s.r.l., ai fini della determinazione del reddito di impresa, la svalutazione della partecipazione da essa detenuta nella società portoghese Pharmaceutical Fine Chemicals Portuguesa Limitada (di seguito, società portoghese), controllata fiscalmente dalla società italiana. Tale svalutazione era stata, difatti, operata a seguito - ed in conseguenza - della svalutazione, a sua volta, effettuata da detta società portoghese della partecipazione che quest'ultima deteneva nella società controllata Pharmaceutical Fine Chemicals Bahamas (in prosieguo, società bahamense), a seguito di ingenti perdite verificatesi nella gestione dello stabilimento produttivo di Freeport nelle Bahamas, conferito a tale ultima società dalla controllante portoghese.
Il percorso motivazionale seguito dall'Ufficio, nell'atto impositivo impugnato dalla contribuente italiana, può essere ricostruito, nelle sue fasi essenziali, come segue:
a) la società portoghese, fin dall'anno 1998, aveva conferito lo stabilimento di Freeport nelle Bahamas alla controllata società bahamense, dismettendo - di conseguenza - qualsiasi iniziativa di natura industriale e/o commerciale, fino a ridursi ad una "scatola vuota priva di alcuna attività, nonchè (...) di autonomia decisionale";
b) il conferimento del suddetto stabilimento sarebbe stato effettuato, peraltro, sulla base di un rapporto fiduciario tra la TEVA s.r.l. e la controllata società portoghese, che si sarebbe interposta - come una sorta di "schermo giuridico" - al fine di consentire alla controllante italiana di evitare l'applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 61, comma 3 bis, che autorizza la svalutazione di azioni e titoli similari emessi da società non residenti nella CE, solo nel caso in cui siano in vigore accordi "che consentano all'amministrazione finanziaria di acquisire le informazioni necessarie per l'accertamento delle condizioni ivi previste";
c) la svalutazione operata dalla TEVA s.r.l. sarebbe, pertanto, indeducibile ai sensi del D.P.R. n. 91 del 1986, art. 61, comma 3 bis, poichè, stante il suindicato rapporto fiduciario esistente tra la società italiana e quella portoghese, siffatta svalutazione, men che riguardare la partecipazione della contribuente in tale ultima società, atterrebbe piuttosto alla partecipazione - dissimulata dalla società "paravento" portoghese - della TEVA s.r.l. nella società bahamense.
1.2. Tali essendo - in sintesi - le ragioni che avevano indotto l'Ufficio a rettificare la quota della perdita fiscale riportata dalla TEVA s.r.l. nell'esercizio 2000, corrispondente alla svalutazione operata dalla contribuente, rileva la ricorrente che il giudice di seconde cure si sarebbe dovuto limitare, stante il disposto dell'art. 112 c.p.c., a confermare o a negare siffatte ragioni, senza introdurre nel giudizio temi non specificamente dedotti dalle parti. La CTR avrebbe, per converso, sancito l'elusività dell'operazione, richiamandosi al principio - di origine giurisprudenziale - del divieto di abuso del diritto, laddove l'accertamento e la sentenza di prime cure avevano avuto ad oggetto l'asserita violazione, da parte della società contribuente, del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 61, comma 3 bis, (nel testo applicabile ratione temporis).
Siffatto modus procedendi integrerebbe, pertanto, a parere della TEVA s.r.l., un evidente vizio di extrapetizione, ovvero di mancata corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, ai sensi dell'art. 112 c.p.c., che inficerebbe - a suo dire - la validità dell'impugnata pronuncia di secondo grado. A tal riguardo si dovrebbe, invero, considerare il fatto che il processo tributario è strutturato dalla legge come un giudizio di impugnazione del provvedimento impositivo, con la conseguenza che al giudice tributario è normativamente imposto di mantenere il dibattito processuale nei limiti tracciati dalle domande e dalle allegazioni delle parti, senza poter estendere la propria indagine, in ordine alla fondatezza della pretesa fiscale, all'esame di circostanze nuove ed estranee a quelle ab origine dedotte dall'Ufficio.
Ebbene, avendo l'avviso di accertamento, impugnato in sede giurisdizionale, fondato - come dianzi detto - la rettifica del reddito di impresa esclusivamente sulla diretta applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 61, comma 3 bis, alla svalutazione della partecipazione indiretta della società italiana a quella bahamense, ovverosia su un eva-sione diretta da parte della contribuente conseguente alla violazione della norma suindicata, l'impugnata sentenza di appello non avrebbe potuto introdurre nel giudizio di seconde cure un fatto costitutiva della pretesa tributaria, diverso da quello dedotto dall'amministrazione stessa.
Tanto più che, ad avviso della TEVA s.r.l., il suddetto principio del divieto di abuso del diritto non avrebbe potuto neppure trovare, nella specie, concreta applicazione, in forza della ritenuta - quanto meno da un consistente indirizzo interpretativo - rilevabilità d'ufficio da parte del giudice tributario. Tale rilevabilità officiosa - a parere della contribuente - sarebbe, difatti, esclusa in presenza di una specifica norma antielusiva, come quella contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, essendo stata la figura dell'abuso del diritto elaborata dalla giurisprudenza, proprio per sopperire alla mancanza, nel sistema tributario, di norme antielusive espresse (generali o specifiche).
1.3. In ogni caso, ed in via subordinata, l'impugnata sentenza sarebbe stata comunque - ad avviso della TEVA s.r.l. - invalidamente emessa, per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 4, che prevede - a pena di nullità - un contraddittorio amministrativo preventivo sull'elusività della fattispecie, mediante richiesta di chiarimenti avanzata dall'amministrazione al contribuente, e nella quale l'amministrazione stessa evidenzi - in maniera espressa - le ragioni per le quali ritenga applicabili le disposizioni di cui ai primi due commi della stessa norma. Ed il successivo atto di impositivo dovrà, poi, tenere specificamente conto, in motivazione, delle giustificazioni esposte, al riguardo, dal contribuente, ai sensi del comma 5, della medesima disposizione.
E tuttavia, tali garanzie procedimentali sarebbero state, nella specie, pretermesse dall'amministrazione finanziaria, non avendo quest'ultima rispettato - ancorchè l'operazione contestata rientrasse tra quelle elencate dall'articolo succitato - la procedura di cui al menzionato art. 37 bis, comma 4, (richiesta al contribuente, anche con lettera raccomandata, di chiarimenti da inviare per iscritto).
1.4. Ad ogni buon conto, quand'anche - in via di mera ipotesi - nella motivazione dell'impugnata sentenza fosse desumibile un qualsiasi riferimento all'indeducibilità della svalutazione D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 61, comma 3 bis, e non alla fattispecie dell'abuso del diritto, la violazione di tale disposizione sarebbe, peraltro, da escludere - a parere della TEVA s.r.l. - atteso che l'oggetto della svalutazione in discussione, era costituito dalla partecipazione della contribuente italiana nella società portoghese (situata, cioè, in uno Stato appartenente alla CE), e non in quella bahamense, società residente in uno Stato non appartenente alla Comunità Europea e con il quale non vi erano accordi che consentissero la predetta svalutazione, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 61, comma 3 bis. Il testo della norma non consentirebbe, per vero, ad avviso della contribuente, l'estensione del suo ambito di applicazione anche all'ipotesi in cui la partecipazione alla società non avente sede nella CE fosse, come nel caso concreto, indiretta, passando per la supposta intermediazione fiduciaria della società portoghese.
2. Premesso quanto precede, osserva la Corte che le suesposte censure sono manifestamente infondate, e non possono, pertanto, trovare accoglimento.
2.1. Per quanto concerne, infatti, il preteso vizio di extrapetizione, va osservato che il principio secondo cui le ragioni poste a fondamento dell'atto impositivo segnano i confini del processo tributario, che è un giudizio di impugnazione dell'atto, sicchè l'Ufficio finanziario non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse e modificare la motivazione dell'atto nel corso del giudizio, va coordinato con il potere che ciascun giudice ha - in quanto connaturale all'esercizio stesso della giurisdizione, quand'anche abbia ad oggetto il mero riesame di atti - di qualificare autonomamente la fattispecie demandata alla sua cognizione, a prescindere dalle allegazioni delle parti in causa.
Ne discende che, nel processo tributario, la suddetta necessità di perimetrare l'ambito del giudizio entro i confini posti dalle ragioni poste a base dell'atto impositivo, non impedisce al giudicante di operare una diversa qualificazione giuridica della fattispecie concreta, che abbia dato luogo all'esercizio della pretesa fiscale sottoposta al suo esame. E neppure può ritenersi precluso, allo stesso giudice, l'esercizio di poteri cognitori d'ufficio, non potendo ritenersi che i poteri del giudice tributario siano più limitati di quelli esercitabili in qualunque processo di impugnazione di atti, come quello amministrativo di legittimità (v., in tal senso, Cass. 20398/05, 21221/06).
2.2. Ebbene, è evidente che l'esplicazione officiosa di siffatti poteri di qualificazione e cognitori - come detto, funzionali allo stesso corretto esercizio della giurisdizione - non può non dispiegarsi anche con riferimento al tema, particolarmente delicato, relativo all'esistenza, alla validità e all'opponibilità all'amministrazione finanziaria del negozio dal quale si assume che derivino determinate minusvalenze. E' di tutta evidenza, infatti, che il tema in parola deve ritenersi acquisito al giudizio per effetto dell'allegazione, da parte del contribuente, sul quale incombe l'onere di provare i presupposti di fatto per l'applicazione della norma dalla quale discende l'invocata diminuzione del reddito di impresa imponibile. Con la conseguenza che eventuali cause di invalidità o di inopponibilità del negozio stesso, anche in considerazione dell'indisponibilità della pretesa tributaria, ben possono essere rilevate dal giudice tributario anche d'ufficio (cfr. Cass. 20398/05, S.U. 30055/08).
Il che concerne, in particolare, la ravvisabilità o meno, nella singola fattispecie concreta, del principio relativo al divieto di abuso del diritto. Va osservato, invero, al riguardo, che l'ordinamento tributario è ispirato all'esigenza di contrastare il c.d. abuso del diritto, individuato dalla giurisprudenza comunitaria come lo strumento essenziale, finalizzato a garantire la piena applicazione del sistema comunitario di imposta. In materia tributaria, invero, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, sebbene non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio di imposta, in assenza di ragioni economiche apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici (cfr., tra le tante, Cass. 6800/09, 4737/10, 20029/10, 1372/11).
2.3. Ebbene, stante l'origine sovranazionale del principio in esame e la sua connotazione nel diritto interno - come subito si dirà - anche come principio di diretta derivazione costituzionale, ritiene la Corte del tutto non condivisibile l'assunto della ricorrente, secondo la quale il rilievo officioso di tale principio, da parte della CTR, avrebbe integrato il vizio di extrapetizione, e sarebbe stato comunque impedito dalla presenza nell'ordinamento di una clausola generale antielusiva, costituita dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis.
2.3.1. A tal riguardo va osservato, infatti, che nel nostro ordinamento il principio del divieto di abuso del diritto trova la sua derivazione, per quel che concerne i tributi armonizzati (l'IVA, le accise ed i diritti doganali), da un principio generale del diritto comunitario, secondo cui i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme di tale diritto.
L'applicazione delle stesse non può - per vero - essere estesa fino a comprendere pratiche abusive, ossia operazioni effettuate, non nell'ambito di normali transazioni commerciali, ma esclusivamente allo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto comunitario (cfr, tra le tante, C. Giust CE, 9.3.99, causa C -212/97, Centros, C. Giust. CE, 21.2.06, causa C - 255/02, Halifax, C. Giust. CE, 6.4.06, causa C - 456/04, Agip Petroli, C. Giust. CEr 12.9.06, causa C - 196/04, Cadbury Schweppes, C. Giust. CE, 5.7.07, causa C - 321/05). Ed anche nella giurisprudenza di questa Corte si è affermato, in relazione ai tributi armonizzati (e segnatamente all'IVA), che le pratiche abusive consistenti nell'impiego di una forma giuridica, o di un regolamento contrattuale, al fine di realizzare quale scopo principale, ancorchè non esclusivo, un risparmio di imposta, consistono in abusi di diritti fondamentali garantiti dall'ordinamento comunitario e, pertanto, assumono rilievo normativo primario in tale ordinamento, indipendentemente dalla presenza di una clausola generale antielusiva nell'ordinamento fiscale italiano (cfr. Cass. 25374/08).
2.3.2. Per quanto concerne, poi, i tributi non armonizzati (imposte dirette) che - come quello oggetto della presente controversia (imposta sui redditi) - esulano dai tributi comunitari, il principio del divieto di abuso del diritto trova, invece, fondamento nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell'imposizione, dettati dall'art. 53 Cost. Nè tale principio contrasta con quello di riserva di legge in materia tributaria (art. 23 Cost.), atteso che - lungi dal tradursi nell'imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge - esso si concreta esclusivamente nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo, o prioritario, scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali.
Il principio in parola comporta, dunque, l'inopponibilità del negozio stesso all'amministrazione finanziaria, per qualsivoglia profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall'operazione elusiva, anche diversi da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche disposizioni antielusive (cfr. Cass. S.U. 30055/08, Cass. 4737/10, 1372/11).
2.3.3. Da quanto suesposto consegue, pertanto, che il rango comunitario e costituzionale del principio di divieto di abuso del diritto comporta la sua applicazione d'ufficio da parte del giudice tributario, a prescindere, dunque, da qualsiasi allegazione, al riguardo, ad opera delle parti in causa (Cass. S.U. 30055/08, Cass. 1372/11). Sicchè, è di tutta evidenza come sia del tutto impossibile configurare, al riguardo, il dedotto vizio di extrapetizione, ai sensi dell'art. 112 c.p.c.
Nè siffatto rilievo officioso del principio in parola potrebbe essere precluso - come assume la società ricorrente - per effetto dell'esistenza nell'ordinamento della specifica norma antielusiva di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis. Ed invero, osserva la Corte che i termini del ragionamento effettuato, in proposito, dalla contribuente devono essere, giocoforza, invertiti. Non può affermarsi, infatti, che il principio del divieto di abuso del diritto sia stato elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte per sopperire alla mancanza, nell'ordinamento finanziario italiano, di una clausola antielusiva generale, come sostenuto dalla TEVA s.r.l.;
si che, nelle ipotesi in cui tale disposizione espressa sussista, il principio generale di divieto di abuso del diritto non sarebbe configurabile. Al contrario, invero, siffatto principio esiste in ambito comunitario e costituzionale, ovverosia a livello normativo primario, ben prima ed a prescindere dall'esistenza di norme elusive espresse nell'ordinamento italiano, di rango legislativo. Sicchè, quando - come nella specie - tale disposizione espressa antielusiva esiste, sarebbe del tutto illogico escludere dall'operatività del divieto di abuso del diritto proprio i comportamenti diretti ad eludere tale specifica norma antielusiva, per il solo fatto che il giudicante di merito si sia limitato a richiamare espressamente solo il prioritario e pozione principio suindicato, di derivazione comunitaria e costituzionale.
Nel caso di specie, la società ricorrente appare avere fatto ricorso - secondo la ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito - ad un'operazione negoziale (conferimento dello stabilimento nelle Bahamas dalla società portoghese alla società bahamense, con l'effetto di svalutare la partecipazione della TEVA s.r.l. nella prima, quale effetto della concatenata svalutazione della partecipazione della società portoghese in quella bahamense), palesemente diretta a determinare un decremento di valore del reddito imponibile della società italiana. Pertanto, alla stregua delle considerazioni di principio suesposte, l'avere la CTR richiamato il principio generale del divieto di abuso del diritto, anzichè la norma antielusiva espressa di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, di fatto comunque elusa dalla contribuente, è pienamente corretto e non vale ad integrare i dedotti vizi dell'impugnata sentenza.
2.4. Alla stregua dei rilievi che precedono, peraltro, non appare fondato neppure l'ulteriore rilievo della società ricorrente, secondo la quale la CTR avrebbe illegittimamente esteso l'ambio di applicazione del succitato disposto dell'art. 61, comma 3 bis (nel testo temporalmente applicabile alla fattispecie), facendovi rientrare anche l'ipotesi dell'indiretta partecipazione della contribuente italiana a società non aventi sede nella CE. Il giudice di appello non ha, difatti, confermato l'indeducibilità della svalutazione di siffatta partecipazione applicando direttamente la disposizione che non consente tale operazione, se non in presenza di taluni specifici presupposti.
La CTR, attraverso il ricorso al principio di divieto di abuso del diritto, è - per vero - pervenuta al risultato di censurare il comportamento di evasione di imposta, mediante la riduzione del reddito tassabile conseguente alla riduzione del valore della suddetta partecipazione, non già ipotizzando una violazione diretta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 61, comma 3 bis, bensì mediante la costruzione di una fattispecie fiscalmente atipica, del tutto equiparabile a quella tipica prefigurata dalla norma summenzionata.
Per tale via, dunque, all'ipotesi concretantesi in una fattispecie elusa (violazione diretta della norma succitata), è stata in concreto equiparata quella della fattispecie elusiva, conseguente all'avere il contribuente dato vita ad un'operazione negoziale che - seppure in via indiretta - ha prodotto lo stesso risultato, in termini di risparmio di imposta, della fattispecie tipica di evasione fiscale.
Ed è del tutto evidente che siffatta equiparazione tra i due fenomeni suindicati è imposta dalla logica intrinseca al sistema tributario, nel quale è preminente e va salvaguardata in ogni caso - per una regola di rango costituzionale - l'esigenza della parità di trattamento nella ripartizione delle spese pubbliche, quale si ricava dal combinato disposto degli artt. 3 e 53 Cost.
2.5. Neppure può ritenersi, infine, configurabile, a giudizio della Corte, la dedotta pretermissione, da parte del giudice di appello, delle garanzie procedimentali (richiesta di chiarimenti, instaurazione di un contraddittorio con il contribuente) previste dalla norma di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 4.
Ed invero, va rilevato al riguardo che la norma succitata non richiede particolari formalità per la preventiva richiesta di chiarimenti al contribuente, prima dell'emanazione dell'avviso di accertamento, limitandosi a prevedere che la stessa possa essere fatta "anche per lettera raccomandata", senza escludere, pertanto, altre modalità, ivi compresa la richiesta orale da parte dei verbalizzanti, dovendo la sola risposta del contribuente essere necessariamente formulata per iscritto (cfr. Cass. 351/09).
Ebbene, nel caso di specie, deve ritenersi che siffatta esigenza garantistica sia stata pienamente rispetta dall'amministrazione, atteso che dallo stesso ricorso della TEVA s.r.l. (pp. 1 e 2) si evince che alla contribuente, all'esito della verifica fiscale operata nei suoi confronti, fu notificato (in data 6.5.05) il processo verbale di constatazione, nel quale i verificatori contestavano alla società italiana la suddetta indeducibilità della svalutazione della partecipazione, dalla stessa detenuta, nella controllata società portoghese. Per il che, essendo del tutto evidente che un contraddittorio con la contribuente - a conoscenza della quale erano stati portati, prima dell'emissione dell'avviso di accertamento, tutti i rilievi operati dai verificatori - è stato regolarmente instaurato dall'amministrazione, prima dell'emanazione dell'atto impositivo, il proposto ricorso appare del tutto infondato anche in relazione a tale profilo.
3. Con il terzo motivo di ricorso, la TEVA s.r.l. deduce l'insufficiente ed illogica motivazione su fatti decisivi della controversia, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5.
3.1. Osserva, invero, la ricorrente che il giudice di appello non avrebbe adeguatamente motivato in ordine alle difese avanzate dalla società contribuente, circa il fatto che, quand'anche non vi fosse stato il conferimento dello stabilimento nelle Bahamas da parte della società portoghese - considerato elusivo dall'amministrazione finanziaria - le perdite originate dallo stabilimento avrebbero comunque consentito alla TEVA s.r.l. di dedurre ai fini fiscali la partecipazione nella società portoghese.
Inoltre, ad avviso della ricorrente, la motivazione dell'impugnata sentenza sarebbe del tutto insufficiente, per quanto concerne la ritenuta assenza di organizzazione propria in capo alla società portoghese, che ha indotto la CTR a concludere che la medesima costituisse un mero schermo giuridico per consentire alla società italiana la descritta elusione di imposta.
3.2. La censura si palesa inammissibile, per i motivi che si passa ad esporre.
3.2.1. Va osservato, al riguardo, che la deduzione di un vizio di motivazione della decisione impugnata con ricorso per cassazione conferisce alla Corte, non già il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, al fine di rivedere il ragionamento decisorio poichè non conforme alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi presi in considerazione. E', per vero, fin troppo evidente che, in siffatta ipotesi, il motivo di ricorso si tradurrebbe in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice stesso, volta ad ottenere una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione.
La denuncia del vizio di motivazione può comportare, dunque, soltanto una verifica, da parte del giudice di legittimità, della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale dell'iter argomentativo seguito dal giudice di merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento, scegliendo - dopo avere valutato l'attendibilità e la concludenza delle prove assunte - tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a comprovare i fatti in discussione (cfr, ex plurimis, Cass. 2272/07, 27162/09, 6694/09, 6288/11).
3.2.2. Orbene, rileva la Corte che sui due punti suesposti la CTR ha motivato ampiamente, ed in modo del tutto convincente.
Ed infatti, il giudice di appello ha anzitutto evidenziato - sulla scorta di una serie di elementi (l'importanza delle società internazionali, l'ammontare e la rapidità con la quale le perdite erano state rilevate, la loro maturazione in epoca immediatamente successiva all'atto di conferimento, le particolari modalità dell'operazione, ecc.) - non soltanto che al momento del conferimento dello stabilimento di Freeport alla società bahamense - avvenuto nell'anno 1998 - le ingenti perdite, poi effettivamente verificatesi, erano previste ed attese, ma anche "che il disegno societario era stato preordinato per assicurarne la deduzione in capo alla TEVA PFC s.r.l., società di diritto italiano, senza ostacoli". Inoltre, la CTR ha adeguatamente motivato anche in ordine alla circostanza relativa all'assenza di organizzazione propria in capo alla società portoghese - che ha indotto la Commissione a considerarla una sorta di "paravento" dietro al quale si celava la TEVA s.r.l. - desumendo tale deficit organizzativo da una serie di elementi. Tra questi:
l'assenza di un'organizzazione, sia pur minima, di impresa, essendo detta società dotata solo di un mero recapito; la mancanza, nel bilancio della stessa, degli oneri tipici di una holding; la comunanza di ben sei su nove consiglieri di amministrazione delle due società (italiana e portoghese); l'assenza di qualsivoglia attività. Di guisa che del tutto legittima, ad avviso della CTR, si paleserebbe l'ipotesi secondo cui la società portoghese non rivestiva, nella vicenda, altro ruolo che quello di un "mero strumento per semplificare la canalizzazione delle perdite".
3.3.3. Ebbene a fronte di tali diffuse argomentazioni, appare del tutto evidente - a giudizio della Corte - che il motivo di doglianza avanzato dalla TEVA s.r.l., si traduce in un'istanza di riesame del merito della controversia, in quanto risolto dalla CTR in maniera non conforme alle aspettative della contribuente, del tutto inammissibile in questa sede di legittimità. Per cui il motivo in esame va considerato inammissibile.
4. Con il quinto, ed ultimo, motivo di ricorso, la TEVA s.r.l. denuncia l'omessa pronuncia su un capo di domanda, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 4.
4.1. Assume, invero, la ricorrente che il giudice di appello avrebbe illegittimamente omesso di pronunciarsi - pur dando atto, nello svolgimento del processo dell'impugnata sentenza (pp. 4 e 5 ), della proposizione di tale domanda subordinata della contribuente - sulla richiesta della TEVA s.r.l. di operare la compensazione tra la svalutazione della partecipazione nella società portoghese e la minusvalenza realizzata nel 2002, a seguito della successiva cessione della suddetta partecipazione a terzi.
4.2. Il motivo è palesemente infondato.
Correttamente, invero, la CTR non si è pronunciata in ordine a tale domanda, atteso che la perdita nella cessione della partecipazione in oggetto, che la contribuente avrebbe voluto compensare con il disconoscimento della deducibilità della svalutazione di tale partecipazione effettuata nel 2000, avrebbe finito con l'incidere sul reddito imponibile dell'anno 2002.
Per cui su tale questione il giudice di merito non avrebbe potuto, comunque, pronunciarsi, atteso che il giudizio verteva su un'annualità di imposta diversa (2000) da quella (2002) nella quale si sarebbe verificata siffatta perdita di cessione.
5. Per tutte le ragioni esposte, pertanto, il ricorso proposto dalla TEVA Pharmaceutical Fine Chemicals s.r.l. non può che essere rigettato, con conseguente condanna della società ricorrente alle spese del presente giudizio, nella misura di cui in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione;
rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 20.000,00, oltre alle spese prenotate a debito.
CONDIVIDI
Commenta questo documento
L'avvocato giusto fa la differenza
Avv. Giuseppe Vollaro
Studio Legale Vollaro & Partner - San Pietro al Tanagro, SA
Cerca il tuo avvocatoFiltra per
Argomenti correlati
-
difesa avvocato libero foro agenzia entrate nullita'
[New]
Letto 0 volte
Altri 462 articoli dell'avvocato
Angelo Forte
-
Società estinte e debiti fiscali: decreto "semplificazioni" non è retroattivo
Letto 222 volte dal 17/04/2015
-
Estratto di ruolo: alle Sezioni Unite la questione sull’impugnabilità
Letto 371 volte dal 17/10/2014
-
Cartella esattoriale deve sempre essere motivata
Letto 364 volte dal 10/07/2014
-
Diritti camerali: la società non cancellata rimane obbligata
Letto 445 volte dal 04/01/2014
-
Esproprio prima casa: i nuovi limiti sono retroattivi
Letto 332 volte dal 11/12/2013