Un marito propone ricorso dinnanzi al Tribunale dei minorenni di Roma desiderando adottare la figlia della moglie, con la quale aveva sempre convissuto sin dalla nascita e della quale il padre naturale si era sempre, a suo dire, disinteressato. Si costituisce in giudizio il padre naturale, opponendosi all'accoglimento della domanda e lamentando di non aver potuto svolgere la sua funzione di padre a causa del comportamento della madre, che sempre aveva ostacolato i suoi incontri con la figlia. In primo grado il Tribunale dei minorenni di Roma consente l'adozione della bambina (cinque anni), ritenendola corrispondente all'interesse della minore e ritenendo non decisiva l'opposizione del padre naturale, non convivente e, quindi, non esercente la potestà genitoriale sulla stessa. Di diverso avviso la Corte di Appello capitolina, che, in riforma alla decisione di primo grado: - respinge la domanda di adozione, stante il diniego di consenso manifestato al riguardo dal genitore naturale della minore; - evidenzia che la legge n. 54/06 attribuisce la potestà genitoriale ad entrambi i genitori, anche dopo la cessazione della convivenza; e detta regola deve valere anche nel caso in cui il padre non abbia mai convissuto con il minore. La Suprema Corte, con sentenza 10265 del 10 maggio 2011, conferma la decisione di secondo grado, integrandone la motivazione: A) L'interesse della prole assume maggior centralità a seguito dell’introduzione della legge n.54/06 sul tema dell’affido condiviso La legge n.54/06 costituisce una significativa innovazione, che, non solo evidenzia l'esigenza della condivisione del ruolo educativo anche nella crisi della coppia, ma consente di considerare l'istituto della potestà genitoriale come comune e costante assunzione di responsabilità nell'interesse esclusivo della prole. I cardini del nuovo assetto normativo (L. 54/06) vanno individuati nella maggiore centralità che assume l'interesse della prole rispetto alle conseguenze della disgregazione del rapporto di coppia. Di regola, la necessità per i figli di mantenere un rapporto costante ed assiduo con ciascuno dei genitori - gravida di risvolti affettivi, educativi, psicologici, materiali e morali - si riflette nell'istituto dell'affidamento condiviso, e, quindi, in una più intensa e comune attribuzione di responsabilità agli stessi nell'educazione della prole che prescinde, quando non ne subisca in misura rilevante le conseguenze negative, dalla crisi coniugale. Tale valorizzazione della posizione dei minori si esprime non solo nella richiamata affermazione della bi-genitorialità, ma anche nell'attribuzione del godimento della casa familiare, nella previsione del preventivo ascolto del minore, e, per quanto qui maggiormente interessa, nella disciplina della potestà dei genitori. B) La potestà genitoriale comporta, a carico di entrambi i genitori, una comune e costante assunzione di responsabilità nell'interesse esclusivo della prole. La disposizione contenuta nell'art. 155, comma 3, c.c., secondo cui "la potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori", costituisce un significativo quid novi, che, oltre ad evidenziare l'esigenza della condivisione del ruolo educativo anche nella crisi, in conformità a quanto stabilito dall'art. 18 della Convenzione di New York, consente di considerare l'istituto della potestà genitoriale non più come mero esercizio di un diritto-dovere in una posizione di supremazia, bensì di una comune e costante assunzione di responsabilità nell'interesse esclusivo della prole. C) La potestà sui figli, anche se naturali, è esercitata da entrambi i genitori tanto nell'affidamento condiviso, quanto in quello esclusivo. Nel quadro della nuova disciplina dei rapporti familiari è stata operata una vera e propria dicotomia fra l'esercizio della potestà genitoriale e l'affidamento della prole: come emerge chiaramente dalla previsione degli artt. 155, comma 3 e 317, c. 2, c.c., l'esercizio della potestà da parte di entrambi i genitori ricorre tanto nell'affidamento condiviso, quanto in quello esclusivo. La legge n. 54/2006 applicabile, grazie al richiamo effettuato all'art. 4, comma 2, anche ai procedimenti relativi ai figli minori di genitori non coniugati, fissa un importante principio: l'esercizio della potestà è esercitato da entrambi i genitori, indipendentemente da circostanze del tutto estrinseche ed eventuali, quali il rapporto di coniugio, la crisi della coppia, la convivenza del genitore con il minore. La tesi dell'esercizio della potestà solo nell'ipotesi in cui vi sia stata convivenza, è, quindi, intrinsecamente contraddittoria, in quanto proprio quell'affermazione della sopravvivenza della potestà genitoriale alla crisi della coppia, e quindi alla cessazione della convivenza, dimostra che quest'ultima non costituisce il dato fondante della figura in esame. Né può invocarsi quell'esigenza di continuità dei rapporti che viene posta alla base dell'affidamento condiviso, dal momento che l'esercizio della comune responsabilità che caratterizza l'esercizio della potestà genitoriale non viene normalmente percepito da parte del minore. D) L’equiparazione tra figli legittimi e naturali. Altro imprescindibile punto di riferimento è costituito (salvo che per le ipotesi residuali previste dagli artt. 252, 537, comma 3, 542, c. 3 e 566, c. 2 c.c.) dalla ormai realizzata equiparazione, per ragioni che affondano le proprie radici nel fondamentale principio di uguaglianza (art. 3 cost.), fra le posizioni dei figli legittimi e di quelli naturali. A codesti principi è evidentemente ispirato l'art. 4, comma 2, della l. n. 54 del 2006, che, nell'affermare che le "disposizioni della presente legge", oltre che "in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio", si applicano anche "ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati", tende a disegnare uno scenario tendenzialmente uniforme, nel quale le posizioni dei figli nati fuori del matrimonio non possono non trovare la medesima tutela attribuita alla prole legittima. Alla sostanziale equiparazione fra figli legittimi e naturali deve quindi corrispondere un modello unitario di genitorialità. Con l'espressione "procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati", il legislatore ha inteso disciplinare tutti i rapporti fra genitori e figli naturali, senza alcuna limitazione - in relazione a una materia nella quale l'intervento del giudice non presenta i caratteri di imprescindibilità rinvenibili nella regolamentazione della crisi delle coppie coniugate ma è sempre dettato dalla finalità dell'interesse esclusivo del minore. E) La cessazione della convivenza tra i genitori naturali non conduce più alla cessazione dell'esercizio della potestà, salva la possibilità per il giudice di attribuire a ciascun genitore il potere di assumere singolarmente decisioni sulle questioni di ordinaria amministrazione Dal momento che le posizioni dei figli nati fuori dal matrimonio hanno la medesima tutela attribuita alla prole legittima e l'esercizio della potestà non può più dipendere da circostanze del tutto estrinseche ed eventuali, quali la sussistenza di una crisi di coppia, in quanto ciò contrasterebbe con l'intero nuovo assetto normativo, con la maggiore centralità assunta dall'interesse della prole rispetto alle conseguenze della disgregazione del rapporto di coppia, e con la necessità dei figli di mantenere significativi e costanti rapporti con ciascuno dei genitori, è evidente che la cessazione della convivenza tra i genitori naturali non conduce più alla cessazione dell'esercizio della potestà, perché la potestà genitoriale è ora esercitata da entrambi i genitori, salva la possibilità per il giudice di attribuire a ciascun genitore il potere di assumere singolarmente decisioni sulle questioni di ordinaria amministrazione. F) La conseguente abrogazione tacita dell’art. 317 bis c.p.c. La diversa regolamentazione dei rapporti fra genitori e figli, introdotta con la legge n. 54 del 2006, pur non interferendo sulla competenza del Tribunale per i minorenni, assume, anche per quanto concerne la filiazione naturale, efficacia pervasiva, e, pertanto, implicitamente abrogante di ogni contraria disposizione di legge, ivi compreso l’art. 317 bis. Pertanto: - la cessazione della convivenza tra i genitori naturali non conduce più alla cessazione dell'esercizio della potestà, poiché questa è ora esercitata da entrambi i genitori; - la tesi dell'esercizio della potestà solo nell'ipotesi in cui vi sia stata convivenza, è intrinsecamente contraddittoria. G) Ai sensi dell'art. 46 L. 184/83, il rifiuto dell'assenso all'adozione da parte dei genitori esercenti la potestà, anche se non conviventi con la prole, non consente l’adozione Non venendo quindi più meno l'esercizio della potestà genitoriale nelle ipotesi di cui all'art. 317 bis c.c., continua ad avere rilievo decisivo, ai sensi dell'art. 46 della L. 4 maggio 1983, n. 184, il rifiuto dell'assenso all'adozione da parte dei “genitori esercenti la potestà”, anche se non conviventi con la prole.