Con il patto di opzione tra venditore ed acquirente niente pagamento della provvigione al mediatore
CASS. CIV. SEZ III sentenza 21 settembre – 21 novembre 2011 n. 24445
Avv. Daniela Alviani
di Piano di Sorrento, NA
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La stipula di un patto di opzione, nel quale le parti convengono che una di esse rimanga vincolata alla propria dichiarazione, mentre l’altra resti libera di accettarla o meno, non fa sorgere un vincolo giuridico che abiliti ciascuna di esse ad agire per l’esecuzione in forma specifica del negozio ovvero per il risarcimento del danno, con la conseguenza che non matura il diritto del mediatore alla provvigione, in quanto l’affare può dirsi concluso solo allorquando tra le parti sorga il rapporto obbligatorio. Tale effetto può nascere anche negozi giuridici preparatori, ma alcuni di essi non sono idonei alla nascita di effetti obbligatori, quali appunto il patto di opzione. Dall’opzione non sorge un rapporto obbligatorio, ma per l’opzionario un diritto di potestativo e per il concedente una mera posizione di soggezione.
Con sentenza del 28/10/2005 la Corte di Appello di Genova, a modifica della sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda della Emmepi S.a.s. Studio Immobiliare di Anna Calabria e C. proposta nei confronti di Malatesta Annamaria, volta ad ottenere il pagamento della somma di lire 7.200.000 quale provvigione per l’attività di mediazione svolta per la compravendita di un immobile.
La Corte di Appello ha ritenuto che il documento del 13/02/1996, contenente una proposta irrevocabile di acquisto formulata da Malatesta Annamaria e sottoscritta per accettazione dalla proprietaria dell’immobile, non fosse qualificabile come contratto preliminare di vendita, né come patto di opzione o comunque come atto idoneo ad ottenere una pronuncia costitutiva ex art. 2932 c.c. sul rilievo che la regolamentazione contrattuale era incompleta, rappresentando solo una trasposizione dei termini dell’intesa sino a quel momento raggiunta tra le parti.
Di conseguenza il diritto alla provvigione richiesto dalla Società Emmepi non era maturato in quanto l’affare non poteva ritenersi concluso. Propone ricorso per cassazione la società Emmepi con due motivi. Resistono con controricorso Menso Pier Luigi e Menso Massimiliano, quali eredi di Malatesta Annamaria illustrato da memoria ex articolo 378 c.p.c.
Motivi della decisione1.Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3 per avere la Corte di Appello errato nel qualificare la proposta irrevocabile del 13/02/1996, accettata dalla venditrice, come puntuazione delle trattative, in quanto la stessa conteneva tutti gli elementi necessari per essere qualificata come contratto preliminare o, in subordine, come contratto di opzione, entrambi idonei ad integrare la nozione di conclusione dell’affare e a far maturare il diritto alla provvigione di cui all’art. 1755 c.c.
2.Il motivo è inammissibile. La Corte di Appello ha ritenuto che il documento del 13/02/1996 non costituiva né un contratto preliminare né un patto di opzione, sul rilievo che il documento non conteneva l’intero regolamento negoziale, mancando l’indicazione dei dati catastali dell’immobile, la data del passaggio del possesso del bene e della consegna del medesimo.
Ha ritenuto che nella fattispecie ricorresse l’ipotesi del cd. “contratto preparatorio” in senso stretto, che si ha quando i contraenti si accordano su taluni punti del futuro contratto, accordi che non producono effetto alcuno quanto all’obbligatorietà della stipula del contratto.
3.La ricorrente sostiene che la scheda del 13/02/1996 conteneva tutti gli elementi necessari a stipulare un accordo generatore di obbligazioni, essendovi indicate la parti contraenti, l’immobile oggetto del contratto individuato con l’indicazione del Comune, dell’indirizzo e del piano, e con la specificazione delle parti in proprietà esclusiva e di quelle in proprietà condominiale, il prezzo e le date per la stipulazione del preliminare e del contratto definitivo.
4.Come assolutamente pacifico secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte regolatrice, il vizio di “violazione e falsa applicazione di norme di diritto”, consiste nella deduzione di una erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre la allegazione di una erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna alla esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 1 marzo 2006, n. 4561).
5.Pacifico quanto precede, si osserva che, ancorché nella intestazione del motivo viene denunziata la violazione di legge, non è in alcun modo specificato, né quale sia – in punto di diritto – la interpretazione data dalla sentenza delle disposizione normative, e segnatamente dell’art. 1755 c.c. a cui la ricorrente fa riferimento nella parte espositiva del motivo, né le ragioni per cui le stesse devono ritenersi “violate” o “falsamente applicate”. Non contestando parte ricorrente quanto affermato dalla Corte di Appello in diritto, vale a dire che astrattamente la conclusione di un contratto preliminare o di un patto di opzione integrano la nozione di conclusione dell’affare di cui all’articolo 1755 c.c., ma limitandosi a contestare la qualifica dell’atto del 13/02/1996 come “puntuazione delle trattative”.
Oggetto di critica, dunque, non sono le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, ma l’apprezzamento espresso dal giudice a quo delle risultanze di causa.
6.Con il secondo motivo si denunzia vizio di motivazione ex articolo 360 c.p.c., n. 5, per avere la Corte di Appello omesso di interpretare la scheda del 13/02/1996 secondo i principi ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c.
Sostiene la ricorrente che dalla interpretazione letterale del documento e dalla comune volontà in esso espressa risultava chiaro che le parti avevano convenuto la compravendita dell’immobile, interpretazione confermata anche dalla lettera del 14/05/1996 con la quale la Malatesta aveva richiesto il differimento del contratto preliminare.
7.Il motivo è inammissibile.
L’atto del 13/02/1996, della cui interpretazione si richiede a questa Corte di valutare la correttezza o meno non risulta riportato, come dovuto, non solo nell’ambito delle censure attinenti al preteso vizio d’interpretazione, ma neppure nelle precedenti esposizioni in fatto, ciò che costituisce una ragione d’inammissibilità delle censure stesse in quanto per il principio d’autosufficienza del ricorso per cassazione, desunto dall’esegesi dell’articolo 366 c.p.c., ove applicato all’ipotesi di censura della pronuncia del giudice del merito per violazione dei canoni legali d’ermeneutica e per vizio di motivazione nell’indagine sulla comune volontà contrattuale delle parti, è indispensabile che il ricorrente riporti nell’atto introduttivo – nell’esposizione in fatto o nello svolgimento del motivo – il testo integrale della regolamentazione patrizia del rapporto nella sua originaria formulazione, o della parte di esso in contestazione, diversamente non ponendosi il giudice di legittimità in condizione di svolgere il suo compito istituzionale e dandosi luogo all’inammissibilità del motivo (Cass. 24/07/2001 n. 10041, 19/03/2001 n. 3912, 30/08/2000 n. 11408, 13/09/1999 n. 9734, 29/01/1999 n. 802).
8.Dalla sentenza impugnata emerge una questione di particolare rilevanza per una molteplicità di controversie.
Si tratta di stabilire se matura o meno il diritto alla provvigione quando l’attività di mediazione si conclude con la stipula di un contratto di opzione.
Il Collegio reputa opportuno affrontare l’esame della questione per giungere a enunciare ex articolo 363 c.p.c. nell’interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi. La sentenza impugnata ha ritenuto che il diritto alla provvigione compete al mediatore anche nell’ipotesi in cui l’attività mediatoria porti alla conclusione di un patto di opzione.
Sul punto l’unico precedente di legittimità è costituito dalla sentenza Cass. 21 luglio 2004, n. 13590, a cui fa riferimento la stessa sentenza impugnata, che ha affermato che “al fine di riconoscere al mediatore il diritto alla provvigione, l’affare deve ritenersi concluso quando, tra le parti poste in relazione dal mediatore medesimo, si sia costituito un vincolo giuridico che abiliti ciascuna di esse ad agire per la esecuzione specifica del negozio o per il risarcimento del danno, con la conseguenza che anche la conclusione di un’opzione, contratto nel quale vi sono due parti che convengono che una di esse resti vincolata dalla propria dichiarazione mentre l’altra resta libera di accettarla o meno, può far sorgere tale diritto”.
9.Questa Corte ritiene discostarsi da tale precedente alla luce delle seguenti considerazioni.
L’articolo 1755 c.c. prevede che il diritto alla provvigione sorge quando l’affare è concluso per effetto dell’intervento del mediatore.
Il concetto di “conclusione dell’affare” è stato oggetto di intensa opera interpretativa da parte della dottrina e della giurisprudenza al fine di delimitare con maggiore puntualità i confini dell’espressione usata dal legislatore, che è propria più del linguaggio economico che di quello giuridico.
La giurisprudenza più risalente nel tempo ha interpretato la nozione di conclusione dell’affare in senso ampio, ritenendo che rientrasse in tale concetto qualsiasi rapporto economico sociale, anche in assenza di vincoli giuridici per le parti, mentre la dottrina ha legato sempre il diritto alla provvigione quanto meno alla conclusione di un negozio giuridico che producesse vincoli giuridici per le parti.
La giurisprudenza nel tempo si è consolidata nel ritenere che la nozione di “affare” va intesa come un’operazione di natura economica che si risolva in un’utilità patrimoniale suscettibile, peraltro, di conseguenze giuridiche.
In sostanza, al fine di riconoscere al mediatore il diritto alla provvigione, l’affare deve ritenersi concluso ogni volta che, tra le parti poste in relazione dal mediatore medesimo, si sia conclusa una “operazione di natura economica generatrice di un rapporto obbligatorio tra le parti”, “di un atto in virtù del quale si sia costituito un vincolo che dia diritto di agire per l’adempimento dei patti stipulati o, in difetto, per il risarcimento del danno” (Cass. 19 ottobre 2007, n. 22000; Cass. 9 aprile 1984, n. 2277; Cass. 18 maggio 1977, n. 2030).
10.Si ritiene che l’interesse economico cui le parti tendono può realizzarsi attraverso diversi strumenti giuridici, non limitati al solo contratto, e può realizzarsi anche quando l’attività del mediatore porti alla conclusione di un atto che precede la conclusione del contratto definitivo, ma che sia comunque idoneo a concretizzare lo scopo economico cui tendono le parti.
Fra gli atti “prodromici” alla conclusione del contratto definitivo, dottrina e giurisprudenza concordi riconoscono tale idoneità al contratto preliminare, a meno che nel conferimento dell’incarico al mediatore non sia stato previsto che il diritto alla provvigione spetti solo alla stipula dell’atto definitivo di trasferimento dell’immobile. Ex plurimis cass. 9 giugno 2009, n. 13260 ; cass. 2/4/2009, n. 7994.
Infatti, stipulato un valido contratto preliminare, immediatamente produttivo degli effetti suoi propri, di obbligare i contraenti alla stipula del successivo contratto definitivo, ciascuna delle parti può agire per l’adempimento ottenendo l’esecuzione in forma specifica e la sentenza pronunciata ex articolo 2932 c.c. tiene luogo del contratto definitivo, realizzando l’interesse economico cui era finalizzata la mediazione.
È possibile anche ottenere il risarcimento del danno nell’ipotesi di risoluzione del preliminare per inadempimento.
11.Contrasti interpretativi sono sorti in relazione alla idoneità del patto di opzione ad integrare la nozione di “conclusione dell’affare” di cui all’articolo 1755 c.c., salva l’ipotesi che le parti abbiano previsto espressamente il diritto alla provvigione per il mediatore alla stipula di un contratto di opzione.
Il patto di opzione è (articolo 1331 c.c.) un negozio giuridico bilaterale che presuppone una convenzione in virtù della quale una delle parti avanza una proposta tesa alla formazione di un contratto impegnandosi a tenerla ferma per un certo periodo di tempo, e l’altra si riserva di accettarla (Cass. 3339/87).
L’opzione è quindi uno degli elementi di una fattispecie a formazione successiva, costituita inizialmente da un accordo avente ad oggetto l’irrevocabilità della proposta e, successivamente, dall’accettazione definitiva del promissorio che, saldandosi con la proposta, perfeziona il contratto.
Pertanto, la proposta deve contenere tutti gli elementi del futuro contratto (definitivo o preliminare) di modo ché la semplice accettazione dell’altra parte è sufficiente a determinare la conclusione senza necessità di ulteriori pattuizioni.
Il nesso strumentale esistente tra contratto preliminare e contratto definitivo non ha nulla in comune con il legame strutturale che intercorre tra il momento iniziale (proposta resa vincolante per accordo tra le parti) ed il momento finale (accettazione) nel fenomeno della formazione progressiva del contratto (opzione), in quanto nell’ipotesi di del contratto preliminare unilaterale o bilaterale gli effetti definitivi si producono solo a seguito di un successivo incontro di dichiarazioni tra le parti contraenti, mentre nel caso dell’opzione gli effetti finali si producono in virtù della semplice dichiarazione unilaterale di accettazione della parte non obbligata (Cass. 14 novembre 1978 n. 5236; cass. 26 marzo 1997, n. 2692).
A seguito del patto di opzione, solo il concedente rimane assoggettato al vincolo di mantenere ferma la sua proposta, mentre l’opzionario non ha alcun obbligo di accettarla.
L’opzione determina in capo all’opzionario la nascita di un diritto potestativo che se esercitato conclude automaticamente il contratto di vendita, mentre la posizione del concedente si concreta in una soggezione a mantenere ferma la sua proposta contrattuale, senza ricevere alcuna tutela giuridica che assicuri la effettiva conclusione dell’affare oggetto della sua proposta.
12.Delineata la struttura dell’opzione come contratto strumentale alla conclusione di un altro contratto, devono esaminarsi le conseguenza del comportamento delle parti che impedisca la stipulazione del contratto finale.
A carico di entrambe le parti deve ravvisarsi una responsabilità precontrattuale ex articolo 1337 c.c.
Fino a quando l’opzionario non esercita la sua facoltà di scelta, egli avrà diritto al risarcimento dei danni relativi al suo interesse negativo, vale a dire ai danni subiti per essere stato coinvolto in trattative inutili e, se non si tratta di opzione gratuita, avrà diritto alla restituzione del prezzo.
Da parte sua l’opzionario è libero di esercitare o non esercitare la sua facoltà di scelta, ma se con il suo comportamento ingenera nel concedente l’affidamento incolpevole circa l’esercizio e poi non lo esercita, risponderà anch’egli di culpa in contraendo.
In presenza di patto di opzione relativo alla vendita di un immobile, il proprietario del bene rimane libero di alienare a terzi l’immobile, anche in pendenza del termine per l’accettazione, e la controparte non ha diritto ad ottenere l’esecuzione specifica del contratto finale a cui è strumentalmente volta l’opzione, in quanto l’obbligo di concludere il contratto finale non è la causa del contratto di opzione, né ottenere il risarcimento del danno da inadempimento rispetto al contratto finale, nella specie compravendita di immobile, che non è stato ancora stipulato, rimanendo la sua tutela nella sfera della responsabilità precontrattuale (Cass. 11 aprile 1994, n. 10649).
13.Quindi dal patto di opzione non sorgono vincoli giuridici che diano diritto a ciascuna delle parti di agire per l’adempimento del patto stipulato o, in difetto, per il risarcimento del danno, requisito individualizzante per giurisprudenza costante la nozione “conclusione dell’affare” ex articolo 1755 c.c.
La struttura del contratto di opzione, la cui funzione è quella di mantenere ferma la irrevocabilità della proposta per un certo tempo, non è idonea a realizzare l’interesse economico cui tendono le parti che ha come oggetto il trasferimento della proprietà dell’immobile.
Né vale a far ritenere sorto a carico dell’opzionario un valido obbligo giuridico in tal senso, la riconosciuta possibilità per il concedente di azionare una pretesa di risarcimento per danno precontrattuale, legato alla prova della contrarietà a buona fede della condotta dell’opzionario.
14.Appare quindi opportuna la pronuncia di ufficio del seguente principio di diritto: “la stipula di un patto di opzione, nel quale vi sono due parti che convengono che una di esse resti vincolata alla propria dichiarazione mentre l’altra resti libera di accettarla o meno, non fa sorgere un vincolo giuridico che abiliti ciascuna delle parti ad agire per l’esecuzione specifica del negozio o per il risarcimento del danno, con la conseguenza che non matura il diritto del mediatore alla provvigione”.
Il ricorso è inammissibile. La complessità della questione, non a caso oggetto di due difformi decisioni dei giudici di merito, giustifica la integrale compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
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