Diritto di recesso
Cassazione civile, sez. III, 12 dicembre 2008, n. 29186
Avv. Pier Luigi Cappello
di Agrigento, AG
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Nell’ambito dei rapporti tra consumatore e commerciante, non si può prescindere dal diritto di recesso se questo è stato esplicitamente espresso della volontà delle parti (nella controversia vertente sul diritto di recesso dell'acquirente nei riguardi del contratto avente ad oggetto la proposta di fornitura di un capo su misura, la Corte ha mostrato totale indifferenza rispetto al parametro normativo di riferimento ed alla pretesa applicazione di una norma (d.lg. n. 50
contro B.A., elettivamente domiciliata in ROMA, C.NE CLODIA 36, presso lo studio dell'avvocato OREFICE MARIA, rappresentata e difesa dagli avvocati CHIAPPALONE Pietro, PETRONE GIUSEPPE giusta procura a margine del controricorso; - controricorrente - avverso la sentenza n. 175/2004 del TRIBUNALE di VIBO VALENTIA, sezione civile, emessa il 17/03/2004, depositata il 25/03/2004, R.G. 515/02; udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 23/09/2008 dal Consigliere Dott. CAMILLO FILADORO; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso. Fatto Con sentenza 17 marzo - 25 marzo 2004 il Tribunale di Vibo Valentia accoglieva l'appello proposto da B.A. avverso la decisione del giudice di pace di Pizzo del 2 febbraio 2002 e dichiarava che il diritto di recesso dell'acquirente - nei riguardi del contratto avente ad oggetto la proposta di fornitura di una pelliccia di visone - era stato legittimamente esercitato, dichiarando sciolto il relativo contratto e ordinando alla Pellicce Safari srl di restituire alla originaria attrice la merce di cui alla permuta, del valore di L. 600.000. Il Tribunale, rilevata l'applicabilità del D.Lgs. n. 50 del 1992, al caso di specie - relativo ai contratti negoziati fuori dai locali commerciali - sottolineava che la B. aveva fornito la prova di avere inviato la raccomandata, con la quale manifestava la volontà di recedere dal contratto di acquisto della pelliccia, entro il termine di giorni sette dall'ordine, con la conseguenza che (ai sensi dell'art. 4, comma 9 del citato D.Lgs.) la proposta di commissione sottoscritta il giorno 11 marzo 2002 doveva considerarsi priva di effetto. Osservava ancora il giudice di appello che ricorrendo le condizioni previste dall'art. 8 dello stesso decreto - le parti sono sciolte dalle rispettive obbligazioni derivanti dal contratto - o, come nel caso di specie, dalla proposta contrattuale - con le conseguenti obbligazioni restitutorie. Poichè nel caso di specie non vi era stata la consegna della merce al consumatore, l'operatore commerciale aveva l'obbligo di restituire immediatamente all'altra parte i capi in pelle ricevuti, in parziale permuta ed a titolo di caparra. Quanto al capo di domanda relativo al risarcimento del danno per la omessa riconsegna del capo in pelliccia consegnato in permuta, lo stesso era rigettato dal Tribunale, in mancanza di qualsiasi prova del danno. Avverso tale decisione la Safari Pellicce s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione basato su tre distinti motivi, cui resiste la B. con controricorso. Diritto Con il primo motivo il ricorrente deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia e vizio del procedimento. Il Tribunale di Vibo Valentia (investito del gravame proposto dalla B. avverso la decisione con la quale il giudice di pace di Pizzo aveva declinato la propria competenza per territorio e per valore a favore del Tribunale di Firenze) aveva dichiarato la propria competenza per territorio. Il valore della causa , ad avviso del ricorrente, era superiore alla competenza attribuita al giudice di pace per effetto del cumulo delle domande. Il Tribunale avrebbe dovuto dunque dichiarare inammissibile l'appello dovendo pronunciare quale giudice di primo grado. Infatti, come giudice di appello, avrebbe potuto pronunciarsi anche nel merito solo se specificamente richiestone da una delle parti. Il motivo è infondato. In conseguenza della scelta, operata dal legislatore ordinario, di escludere il regolamento di competenza avverso le sentenze del giudice di pace dai rimedi ammessi contro tali pronunce, sulla base delle disposizioni di legge applicabili al caso di specie, la parte che intenda denunziare la statuizione di quel giudice sulla sola competenza deve individuare il legittimo regime impugnatorio alla stregua delle disposizioni ordinarie di cui agli artt. 339 e 360 cod. proc. civ., e, per l'effetto, azionare il rimedio dell'appello quando il valore della causa superi i L. due milioni, ovvero ricorrere per cassazione quando detto valore sia inferiore (Cass. 24 settembre 2002 n. 13880, 23 novembre 2001 n. 14858, 26 ottobre 2000 n. 14099; Cass. S.U. 23 settembre 1998 n. 9493). Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme in diritto e violazione del principio del doppio grado di giurisdizione. Decidendo nel merito, il Tribunale era incorso nella violazione del principio del doppio grado di giurisdizione che non può ritenersi soppresso con la intervenuta abrogazione dell'art. 353 cod. proc. civ., comma 4. In effetti, con tale motivo, la società ricorrente non contesta la competenza del giudice di appello, ma piuttosto i poteri da lui esercitati. La ricorrente sostiene che, poichè il giudice di pace aveva deciso una causa che non rientrava nella sua competenza per valore, il giudice di appello non avrebbe dovuto pronunciarsi nel merito, ma rimettere la causa al giudice di primo grado - competente per valore - per evitare che la causa fosse decisa nel merito una sola volta. Si tratta, in effetti, dell'adattamento alla fattispecie di una vecchia tesi dottrinale, secondo la quale l'avvenuta abolizione del regolamento di competenza per le sentenze del giudice di pace ed il permanere dell'appello per queste stesse decisioni, imporrebbe la rimessione della causa al giudice di pace competente nei casi di riforma della decisione di primo grado. Deve preliminarmente ricordarsi quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 3 ottobre 1995 n. 10389) circa l'assenza, nel nostro ordinamento, di una garanzia costituzionale del principio di doppio grado di giurisdizione, nonchè il carattere eccezionale del potere del giudice di appello di rimettere la causa al primo giudice, stante la tassatività delle ipotesi contemplate dall'art. 354 cod. proc. civ. (v. Cass. 30 maggio 2000 n. 7227). Come questa Corte ha già' chiarito (Cass. 16 marzo 1996 n. 2205, 8 agosto 1997 n. 7346, 24 giugno 2003 n. 10020, 27 agosto 2003 n. 12584). 18 agosto 2004 n. 15430), l'erronea dichiarazione di incompetenza da parte del giudice di primo grado non rientra in nessun caso fra le ipotesi di rimessione al primo giudice, tassativamente previste dagli artt. 353 e 354 c.p.c., poichè l'art. 353 c.p.c., comma 3, che quella rimessione prevedeva nel solo caso in cui il pretore, in riforma della sentenza del conciliatore, avesse dichiarato l'incompetenza di quest'ultimo, (già1 inoperante per la prevista ricorribilità in cassazione delle sentenze del Conciliatore a seguito della nuova formulazione dell'art. 339 cod. proc. civ., introdotta dalla L. 30 luglio 1984, n. 399, art. 5) è stato esplicitamente abrogato dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 89, a decorrere dal 1 gennaio 1993. Pertanto, quando il giudice d'appello risolva positivamente, in riforma della sentenza impugnata, la questione di competenza del giudice di primo grado, deve pronunziare nel merito in secondo grado, così esercitando ritualmente e correttamente - anche in assenza di domanda delle parti - la propria "potestas decidendi", essendogli preclusa la possibilità di rimettere la causa al primo giudice. Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione delle disposizioni del D.Lgs. n. 50 del 1992. La qualificazione giuridica data dal Tribunale, ad avviso della società ricorrente, non poteva dirsi corretta. Rileva la società ricorrente che - nel caso di specie - avrebbe dovuto trovare applicazione non già il D.Lgs. n. 50 del 1992, bensì il successivo D.Lgs. n. 185 del 1999, che, regolando appositamente la ipotesi del confezionamento su misura (art. 5, punto 3, lett. c), nega in radice la possibilità di esercitare il diritto di recesso. La B. non solo aveva adeguatamente controllato il capo ma aveva dato specifiche istruzioni perchè la pelliccia di visone, oggetto del contratto di compravendita, fosse personalizzato. Il confezionamento su misura, effettuato mediante una operazione irreversibile di adattamento alle caratteristiche antropometriche della attuale resistente, aveva reso il capo non più "commercializzabile per la taglia standard, per cui le pelli erano state assemblate. La circostanza che nel contratto, contenente la proposta di commissione, fosse previsto l'esercizio del diritto di recesso, invocato dalla B., doveva ritenersi del tutto irrilevante (infatti tale previsione riguardava solo la vendita di capi standard che la società propaganda quotidianamente e pubblicizza sulle TV private e dunque non era invocabile nel caso di specie, trattandosi di capo personalizzato). Anche questo ultimo motivo è del tutto privo di fondamento. La società ricorrente ha affermato, da un lato, che la B. aveva adeguatamente controllato il capo già confezionato al proprio domicilio, dall'altro, che la stessa aveva dato istruzioni perchè la pelliccia di visone fosse personalizzata secondo le sue esigenze (p. 8 del ricorso). Il giudice di appello ha spiegato le ragioni per le quali doveva trovare applicazione il decreto del 1992, in luogo del D.Lgs. n. 185 del 1999, invocato dalla attuale ricorrente. Anche a voler ritenere, comunque, applicabile il decreto del 1999, doveva necessariamente concludersi che il diritto di recesso era stato legittimamente esercitato dalla acquirente, in considerazione della espressa volontà manifestata dalle parti, che aveva voluto l'inserimento della clausola, in calce alla proposta di acquisto, con la quale rimandavano ai casi ed alle modalità di recesso di cui al D.Lgs. n. 50 del 1992, art. 4 e segg., il quale stabilisce che: "1. Per i contratti e per le proposte contrattuali soggetti alle disposizioni del presente decreto è attribuito al consumatore un diritto di recesso nei termini ed alle condizioni indicati negli articoli seguenti". L'unica condizione apposta nella nota d'ordine 11 marzo 2001 era che il recesso fosse comunicato entro sette giorni (secondo la previsione degli artt. 4 e 6 del Decreto del 1992). E tale condizione si era realizzata nel caso di specie, come ha riconosciuto il giudice di appello, con accertamento insindacabile in questa sede. In conseguenza di ciò, le parti dovevano considerarsi sciolte dalle rispettive obbligazioni derivanti dal contratto o dalla proposta contrattuale (D.Lgs. n. 50 del 1992, art. 8, comma 1). Tale rilievo, ad avviso del Collegio, è assorbente di qualsiasi altra questione. Contro di esso, in effetti, la società ricorrente si limita a proporre una diversa interpretazione della clausola contrattuale, in contrasto con la espressa indicazione delle parti, sostenendo che nel caso di specie non poteva trovare applicazione il decreto del 1992 ma il successivo D.Lgs. n. 185 del 1999 (art. 5, punto 3, lett. c), che nega il diritto di recesso per quei contratti che abbiano ad oggetto la fornitura di beni confezionati su misura o chiaramente personalizzati. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, con la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese, liquidato come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese che liquida in Euro 800,00 (ottocento/00) di cui Euro 700,00 (settecento/00) per onorari di avvocato, oltre spese generali ed accessori di legge. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 settembre 2008. Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2008
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