Applicabilità alla richiesta di ripetizione di interessi anatocistici del meccanismo di imputazione dei pagamenti ex art. 1194 c.c.?
Tribunale di Catania sentenza del 6 agosto 2010
Avv. Valerio Romano
di Napoli, NA
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Relativamente all'applicazione dell'art. 1194 c.c, si registrano due opposti orientamenti giurisprudenziali; l'uno che opta per il meccanismo dettato dalla norma suindicata, l'altro che ne ritiene la inapplicabilità anche alla luce del fatto che le varie operazioni di prelievo e di versamento, in esecuzione di un unico regolamento negoziale, non individuirebbero un credito certo liquido ed esigibile finoo alla chiusura del conto.
Il Tribunale di Catania ha sovente fatto applicazione del criterio dettato dall'art. 1194 c.c., per l'imputazione delle rimesse effettuate dal correntista sul conto corrente.
A siffatta conclusione il Tribunale è pervenuto non tanto sulla base della norma dell'art. 1194 c.c., inapplicabile alla subiecta materia per l'insussistenza dei presupposti cui l'ordinamento ne subordina l'applicazione, quanto piuttosto in considerazione, per un verso, dei principi che sovrintendono la disciplina dettata dal legislatore in tema di interessi e, per altro verso, della regolamentazione pattizia intercorsa tra le parti del rapporto contrattuale oggetto di causa.
La costante giurisprudenza della Corte regolatrice è, in vero, nel senso che la disposizione prevista dal citato art. 1194 c.c. - secondo cui il debitore non può imputare il pagamento al capitale piuttosto che agli interessi e alle spese senza il consenso del creditore - presuppone la simultanea esistenza della liquidità e della esigibilità sia del credito per capitale che del credito accessorio (per interessi o per spese), sicché fino a quando sia incerto, illiquido o inesigibile il credito per capitale o quello accessorio, il debitore non è soggetto al divieto di imputare il pagamento al capitale (cfr. Cass. civ. sez. III, 27 luglio 2001 n. 10281; Cass. civ. sez. III, 26 giugno 1997 n. 5707; Cass. civ. sez. lav., 1 luglio 1994 n. 6228; Cass. civ. sez. III, 18 ottobre 1991 n. 11014; Cass. civ. sez. III, 8 marzo 1988 n. 2352).
Ora, è ius receptum che i saldi passivi trimestrali (o anche a diversa cadenza temporale) in corso di rapporto e prima della chiusura del conto corrente bancario non possono qualificarsi quali debiti liquidi ed esigibili ad opera dell'istituto bancario, sì da potere ad essi imputare, alla stregua dei criteri indicati dall'art. 1194 c.c., le rimesse via via effettuate sul conto dal correntista.
Posta tale premessa in linea di principio, può, comunque, pervenirsi alla conclusione che le rimesse effettuate dal correntista debbano essere imputate prima agli interessi contabilizzati periodicamente nel corso del rapporto e poi al capitale.
Deve, infatti, evidenziarsi come nel contratto di conto corrente con apertura di credito, il correntista usufruisce di una certa somma di danaro messagli a disposizione dalla banca, sicché è ovvio che gli interessi maturati in relazione a tale disponibilità vanno ricompresi tra quelli cc.dd. corrispettivi o compensativi, ovverosia dovuti per il semplice godimento del capitale.
Devesi osservare che la regolamentazione pattizia del rapporto di conto corrente bancario, fino al mutato orientamento giurisprudenziale in materia di capitalizzazione trimestrale, contemplava all'art. 7 co. 2 n.u.b. la previsione della contabilizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal correntista: "i conti che risultino, anche saltuariamente, debitori vengono chiusi contabilmente, in via normale, trimestralmente ... applicando agli interessi dovuti dal correntista e alle competenze di chiusura valuta data di regolamento del conto...".
Ora, se è vero che la clausola summenzionata deve ritenersi affetta da nullità, per come sopra evidenziato, avuto riguardo, tra l'altro, alla parte in cui prevede il c.d. anatocismo bancario per violazione dell'art. 1283 c.c., vero è anche che la detta clausola nelle sue due articolazioni segnalate (commi 2 e 3) mantiene una sua rilevanza giuridica ai fini della ricostruzione della comune volontà negoziale delle parti, con particolare riferimento alla debenza degli interessi dovuti dal correntista sulle somme messegli a disposizione dalla banca.
Non può infatti seriamente dubitarsi del fatto che gli interessi in questione risultino dovuti, alla stregua della pattuizione citata, a cadenza trimestrale, in forza della chiusura contabile del conto prevista per l'appunto alla fine di ogni trimestre.
Il fatto, poi, che la clausola in esame non possa ritenersi operante ai fini della capitalizzazione trimestrale non toglie che essa valga ad individuare la debenza degli interessi alla fine di ogni trimestre.
Non appare configurabile nel sistema alcuna norma che precluda alle parti di prevedere una scadenza trimestrale della obbligazione da interessi per la messa a disposizione di somme di denaro da parte dell'istituto bancario.
Siffatta scadenza trimestrale risulta emergere dalla chiusura contabile con pari cadenza del conto.
La facoltà per il correntista di utilizzare del denaro messogli a disposizione dalla banca e, soprattutto, la facoltà allo stesso espressamente riconosciuta dal contratto di ripristinare l'originaria disponibilità non incide sulla debenza periodica degli interessi quale compenso del capitale messo a disposizione e si spiega semplicemente con la caratteristica strutturale dell'apertura di credito a tempo indeterminato che consente alle parti appunto di procrastinare la fine del rapporto contrattuale, nell'osservanza di quelle condizioni che assicurino la convenienza economica della continuazione nel tempo del rapporto: il ripristino della disponibilità è ovviamente una condizione di sicurezza per la banca.
Nella fattispecie in esame, l'assenza nel contratto di conto corrente di ogni previsione relativa alla capitalizzazione degli interessi rende inapplicabile il ragionamento fin qui esposto e, per conseguenza, l'adozione del criterio di imputazione dettato dall'art. 1194 c.c..
Inquadrata la fattispecie nei termini esposti, il saldo del conto corrente in esame risulta esattamente quantificato nella relazione di consulenza redatta dal ctu, in conformità al mandato conferitogli, pienamente condivisibile sia in merito ai criteri di calcolo applicati sia quanto alle conclusioni raggiunte (esposte alla voce "metodo B").
Alla stregua del ricalcolo eseguito, il credito della società attrice risulta pari ad euro 208.806,53.
La Banca spa va, dunque, condannata al pagamento della detta somma oltre interessi al tasso legale dalla domanda fino al momento del pagamento.
È, invece, infondata la domanda di risarcimento del maggior danno proposta dall'attrice per difetto di prova del maggior danno; l'attrice non ha, infatti, provato (ma neppure allegato) l'impiego del denaro che avrebbe fatto (ove ne avesse avuto la disponibilità) e che avrebbe consentito di lucrare somme maggiori rispetto alla remunerazione al tasso legale del capitale.
Le spese del giudizio, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
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