Indennità di espropriazione su suoli edificabili. Evoluzione storico - giuridica.

Non capita spesso di leggere sentenze illuminanti ed aventi notevoli ricadute sul tessuto economico sociale pur se quasi mai è riconosciuta loro la giusta attenzione. Era dal 1865 che si attendevano, nuovi, seri e non punitivi criteri di calcolo dell’indennità di espropriazione. Vorrei pertanto, soffermarmi sinteticamente, sulla sentenza della Corte Costituzionale 24 ottobre n°. 348 del 2007 che, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 5-bis del D.L. 11 luglio 1992, n. 333 convertito dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, nella parte in cui, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione dei suoli edificabili, prevedeva il criterio di calcolo fondato sulla media tra il valore dei beni e il reddito dominicale rivalutato, disponendone altresì l'applicazione ai giudizi in corso alla data dell'entrata in vigore della legge n°. 359 del 1992. La norma censurata – la quale prevedeva un'indennità oscillante, nella pratica, tra il 50 ed il 30 per cento del valore di mercato del bene – non ha superato il controllo di costituzionalità in rapporto al «ragionevole legame» con il valore venale, prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il principio del «serio ristoro» richiesto dalla giurisprudenza consolidata della Consulta. La suddetta indennità risultava essere inferiore alla soglia minima accettabile di riparazione dovuta ai proprietari espropriati, anche in considerazione del fatto che la pur ridotta somma spettante ai proprietari veniva ulteriormente falcidiata dall'imposizione fiscale, la quale si attestava su valori di circa il 20 per cento. Il legittimo sacrificio che poteva essere imposto in nome dell'interesse pubblico non poteva giungere sino alla pratica vanificazione dell'oggetto del diritto di proprietà. Conseguentemente, veniva dichiarato costituzionalmente illegittimo, anche l'art. 37, commi 1 e 2, del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, (D.P.R. 8 giugno 2001, n°. 327).

Evoluzione storico - giuridica. La Corte ha evidenziato l'illegittimità costituzionale dell'art. 5-bis del decreto-legge n°. 333 del 1992, norma applicata ai fini della quantificazione dell'indennità, per contrasto con gli artt. 42, terzo comma, 24 e 102 Cost., in quanto il criterio ivi previsto non garantiva un serio ristoro ai proprietari dei suoli espropriati. A questo proposito si ricorda come la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo abbia costantemente rilevato il contrasto del menzionato art. 5-bis con l'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione Europea. La censura è stata estesa all'art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), disposizione, oggi vigente, che ha perpetuato il criterio di calcolo censurato. La Corte di Strasburgo ha rilevato la strutturale e sistematica violazione, da parte del legislatore italiano, dell'art. 1 del primo Protocollo della Convenzione Europea, osservando che la quantificazione dell'indennità in modo irragionevole rispetto al valore del bene ha determinato, appunto, una situazione strutturale di violazione dei diritti dell'uomo. Nell'occasione la Corte di Strasburgo ha sottolineato come, ai sensi dell'art. 46 della Convenzione, lo Stato italiano abbia il dovere di porre fine a siffatti problemi strutturali attraverso l'adozione di appropriate misure legali, amministrative e finanziarie. La stessa giurisprudenza CEDU ha identificato nel valore venale dei beni l’unico criterio indennitario ammissibile alla luce dell'art. 1 del primo Protocollo. Già nel 1993, la Corte Costituzionale (con la sentenza n°. 283) aveva invitato il legislatore ad elaborare una legge atta ad assicurare un serio ristoro, ritenendo l'art. 5-bis compatibile con la Costituzione solo in ragione del suo carattere urgente e provvisorio, desumibile anche dall'incipit della disposizione che recitava: «fino all'emanazione di un'organica disciplina per tutte le espropriazioni».                  
La Corte osservava come il censurato art. 5-bis si poneva in contrasto anche con l'art. 117, primo comma, Cost., alla luce delle norme della Convenzione Europea, come interpretate dalla Corte di Strasburgo. Infatti, la nuova formulazione della norma costituzionale, introdotta dalla legge di riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, avrebbe colmato «una lacuna dell'ordinamento». Si osserva che la tutela del diritto di proprietà prevista nell'art. 1 del primo Protocollo non differisce nel contenuto dalla tutela apprestata dall'art. 42 Cost., posto che entrambe le norme richiedono un giusto bilanciamento tra interessi del singolo e interesse della comunità.     La norma censurata derivava dall'art. 39 della legge n°. 2359 del 1865, che faceva riferimento al valore di mercato, con l'unica eccezione costituita dalla legge 15 gennaio 1885, n°. 2892 (Risanamento della città di Napoli). Peraltro, si sarebbe trattato di un'eccezione solo apparente, poiché la legge n°. 2892 del 1885 riguardava essenzialmente l'espropriazione di edifici, sicché l'indennità era determinata «sulla media del valore venale e dei fitti coacervati dell'ultimo decennio, purché essi abbiano data certa corrispondente al rispettivo anno di locazione», ed era assistita da una logica legata alla contingente situazione della città di Napoli (fabbricati di scarso valore perché degradati, che però producevano un reddito alto per la condizione di sovraffollamento e di canoni elevati). Il criterio previsto nel 1885 non conduceva, pertanto, a risultati penalizzanti per gli espropriati, ai quali, se si fosse applicato il criterio generale del valore venale, avrebbero percepito un'indennità minore. Il criterio previsto nel censurato art. 5-bis, invece, non ha attuato (sino al 2007) «il necessario ed imprescindibile giusto equilibrio tra il diritto umano del singolo e l'interesse della collettività», assumendo, pertanto, un «carattere sostanzialmente “punitivo”». L'art. 5-bis del decreto-legge n°. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n°. 359 del 1992, prescriveva, al primo comma, i criteri di calcolo dell'indennità di espropriazione per pubblica utilità delle aree edificabili, che consistono nell'applicazione dell'art. 13, terzo comma, della legge 15 gennaio 1885, n. 2892 (risanamento della città di Napoli), «sostituendo in ogni caso ai fitti coacervati dell'ultimo decennio il reddito dominicale rivalutato di cui agli articoli 24 e seguenti del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917». L'importo così determinato era ridotto del 40 per cento. Il secondo comma aggiungeva che, in caso di cessione volontaria del bene da parte dell'espropriato, non si applicava la riduzione di cui sopra. La norma censurata è stata oggetto di questione di legittimità costituzionale, definita con la sentenza n°. 283 del 1993. La Corte ha richiamato la sua pregressa giurisprudenza, consolidatasi negli anni, sul concetto di «serio ristoro», particolarmente illustrato nella sentenza n°. 5 del 1980. Quest'ultima pronuncia stabiliva già negli anni ottanta che, «l'indennizzo assicurato all'espropriato dall'art. 42, comma terzo, Cost., se non doveva costituire una integrale riparazione della perdita subita – in quanto occorreva coordinare il diritto del privato con l'interesse generale che l'espropriazione mirava a realizzare – non poteva essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica ma doveva rappresentare un serio ristoro. Perché ciò poteva realizzarsi, occorreva far riferimento, per la determinazione dell'indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge. Il principio del serio ristoro è stato violato, secondo tale pronuncia, quando, «per la determinazione dell'indennità, non si consideravano le caratteristiche del bene da espropriare ma si adottava un diverso criterio che prescindeva dal valore di esso». L'effetto della sentenza da ultimo richiamata (e della successiva n°. 223 del 1983) è stato quello di rendere nuovamente applicabile il criterio del valore venale, quale previsto dall'art. 39 della legge 25 giugno 1865, n°. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica) sino all'introduzione, nel 1992, della norma censurata. La Corte, con la già ricordata sentenza n°. 283 del 1993, confermava il principio del serio ristoro, precisando che, da una parte, l'art. 42 Cost. «non garantiva all'espropriato il diritto ad un'indennità esattamente commisurata al valore venale del bene e, dall'altra, l'indennità stessa non poteva essere (in negativo) meramente simbolica od irrisoria, ma doveva essere (in positivo) congrua, seria e adeguata». In altri termini, l'adeguatezza dei criteri di calcolo doveva essere valutata nel contesto storico, istituzionale e giuridico esistente al momento del giudizio. Né il criterio del valore venale (pur rimasto in vigore dal 1983 al 1992), né alcuno dei criteri «mediati» prescelti dal legislatore potevano avere i caratteri dell'assolutezza e della definitività. Si deve rilevare che l'art. 1 del primo Protocollo della CEDU è stato oggetto di una progressiva focalizzazione interpretativa da parte della Corte di Strasburgo, che ha attribuito alla disposizione un contenuto ed una portata ritenuti dalla stessa Corte incompatibili con la disciplina italiana dell'indennità di espropriazione. In esito ad una lunga evoluzione giurisprudenziale, con la decisione del 29 marzo 2006, nella causa Scordino contro Italia, si sono fissati alcuni principi generali: a) un atto della autorità pubblica, che incide sul diritto di proprietà, deve realizzare un giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui; b) nel controllare il rispetto di questo equilibrio, la Corte riconosce allo Stato «un ampio margine di apprezzamento», tanto per scegliere le modalità di attuazione, quanto per giudicare se le loro conseguenze trovano legittimazione, nell'interesse generale, dalla necessità di raggiungere l'obiettivo della legge che sta alla base dell'espropriazione c) l'indennizzo non è legittimo, se non consiste in una somma che si ponga «in rapporto ragionevole con il valore del bene»; se da una parte la mancanza totale di indennizzo è giustificabile solo in circostanze eccezionali, dall'altra non è sempre garantita dalla CEDU una riparazione integrale d) in caso di «espropriazione isolata», pur se a fini di pubblica utilità, solo una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il valore del bene e) «obiettivi legittimi di utilità pubblica, come quelli perseguiti da misure di riforma economica o di giustizia sociale possono giustificare un indennizzo inferiore al valore di mercato effettivo». 
Poiché i criteri di calcolo dell'indennità di espropriazione previsti dalla legge italiana porterebbero alla corresponsione, in tutti i casi, di una somma largamente inferiore al valore di mercato (o venale), la Corte Europea ha dichiarato che l'Italia ha il dovere di porre fine ad una violazione sistematica e strutturale dell'art. 1 del primo Protocollo della CEDU, anche allo scopo di evitare ulteriori condanne dello Stato italiano in un numero rilevante di controversie seriali pendenti davanti alla Corte medesima. L'indennità dovuta al proprietario espropriato, secondo la citata norma  (sino al 2007), era  pari alla media del valore venale del bene e del reddito dominicale rivalutato riferito all'ultimo decennio, con un'ulteriore sottrazione del 40 per cento dalla cifra così ottenuta. Si deve, in primo luogo, osservare che è stato modificato l'originario criterio previsto dalla legge n°. 2892 del 1885, che, essendo mirata al risanamento della città di Napoli, prevedeva coerentemente il ricorso, ai fini della media, alla somma risultante dai «fitti coacervati» dell'ultimo decennio. C'era l'evidente e dichiarata finalità di indennizzare i proprietari di fabbricati ricadenti nell'area urbana napoletana, tenendo conto che gli stessi erano per lo più degradati, ma densamente abitati da inquilini che pagavano alti canoni di locazione. Si intendeva, in tal modo, indennizzare i proprietari per il venir meno di un reddito concreto costituito dai fitti che gli stessi percepivano. L'indennizzo così calcolato poteva essere anche più alto del valore venale del bene in sé e per sé considerato. La sostituzione dei fitti coacervati con il reddito dominicale ha spostato verso il basso l'indennità rispetto a quella prevista dalla legge per il risanamento di Napoli, con il risultato pratico che, nella generalità dei casi, la somma ottenuta in base alla media prevista dalla legge era di circa il 50 per cento del valore venale del bene. A ciò si aggiungeva l'ulteriore decurtazione del 40 per cento era evitabile solo con la cessione volontaria del bene. Sia la giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana sia quella della Corte Europea concordano nel ritenere che il punto di riferimento per determinare l'indennità di espropriazione dovrà essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato. Si deve notare che il criterio dichiaratamente provvisorio previsto dalla norma censurata è divenuto oggi definitivo, ad opera dell'art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), che  conteneva una norma identica, conformemente, del resto, alla sua natura di atto normativo compilativo. Mentre il reddito dominicale mantiene un sia pur flebile legame con il valore di mercato (con il risultato pratico però di dimezzare, il più delle volte, l'indennità), l'ulteriore detrazione del 40 per cento è priva di qualsiasi riferimento, non puramente aritmetico, al valore del bene. D'altronde tale decurtazione veniva esclusa in caso di cessione volontaria e quindi risultava essere non un criterio, per quanto “mediato”, di valutazione del bene, ma l'effetto di un comportamento dell'espropriato.

In conclusione si può solo notare che livelli troppo elevati di spesa per l'espropriazione di aree edificabili destinate ad essere utilizzate per fini di pubblico interesse potrebbero pregiudicare la tutela effettiva di diritti fondamentali previsti dalla Costituzione (salute, istruzione, casa, tra gli altri) e potrebbero essere di freno eccessivo alla realizzazione delle infrastrutture necessarie per un più efficiente esercizio dell'iniziativa economica privata. Valuterà il legislatore all’atto della riformulazione della nuova legge se l'equilibrio tra l'interesse individuale dei proprietari e la funzione sociale della proprietà debba essere fisso e uniforme, oppure, in conformità all'orientamento della Corte Europea.  Certamente, l'eccessivo livello della spesa per espropriazioni renderebbe impossibili o troppo onerose iniziative di sviluppo; esiste la possibilità di arrivare ad un giusto equilibrio.

                                                                                                   Avv. Umberto  Diffidenti