ARTICOLO DELL?AVV. MARIA SCATTAGLIA ABUSI EDILIZI RUDERI ALLA LUCE DEL DECRETO DEL FARE
 
Non c’è dubbio e, pertanto, non si deve perdere di vista, che nella presente fattispecie,
punto focale e dirimente è l’esistenza di un rudere costruito certamente ante 1967, come certificato da notaio in un atto di donazione e da aereofotogrammetrie di cui si chiede la ricostruzine.
Tuttavia, l’esistenza dell’abuso, consistente nell’edificazione al posto del rudere di tettoia, di una casa rurale di modesta dimensione e di tre piccoli locali, è incontrovertibile, in seguito a tale circostanza, con la seconda integrazione tecnica documentale la ricorrente prevede in sostanza la demolizione di tutti tali manufatti, nonchè per quanto riguarda la casa rurale  l’abbattimento di tutti i muri perimetrali, con conservazione soltanto dei pilastrini in ferro per sorreggere la struttura di copertura,  riportando il manufatto alla sua destinazione originaria di tettoia (a norma dell’art. 30  del decreto legge n. 69/2013, convertito nella L. n. 98/2013 – legge del fare-) e tanto, non si può negare, in ossequio al principio di conservazione dei valori giuridici ed economici  (  infatti, è in contrasto con tale principio eseguire la demolizione di opere edilizie che, stanti gli strumenti urbanistici vigenti, potrebbero essere assentite e realizzate del tutto identiche, subito dopo. Da tale impostazione discende la possibile salvezza di opere realizzate sine titulo, purchè venga verificata dal Comune l’odierna conformità urbanistica, cfr. Cons. Stato Sez. V n. 6498/2003, nonché Cass. Pen. Sez. III N. 1492/1998 ) nonché dei principi di rilevanza costituzionale dell'efficienza e della semplificazione che escludono che si possa duplicare un procedimento allorché sia evidente che si otterrebbero gli stessi risultati,  e altresì in ossequio ad una prospettiva che deve tendere ad obliterare la visione meramente burocratica, retriva e non moderna del diritto amministrativo, nonché al principio di rilevanza comunitaria della proporzionalità, volto ad evitare che per realizzare un certo effetto giuridico si impieghino forme ed energie amministrative del tutto sproporzionate. ( cfr. Cons. Stato Sez. V, sent. n. 3671 del 21-06-2012 )” nonché del favor nei confronti del responsabile dell'abuso che pervade tutto il T. U. sull’edilizia n. 380/2001.
E’ palese, quindi, che nella fattispecie in esame si versi in una ipotesi di ristrutturazione edilizia (introdotto con il c.d. decreto del fare del 2013), in sostanza, di un manufatto costruito in epoca anteriore alla c. d. legge "ponte" n. 761 del 1967, con la quale l'obbligo di previa licenza edilizia venne esteso alle costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano ( come la presente fattispecie ) e ridotto a mero rudere, per la quale addirittura non ci sarebbe bisogno del permesso di costruire, bensì del titolo abitativo minore consistente nella SCIA, ma che la ricorrente ha chiesto di sanare, ad abundantiam, per motivi di maggiore legalità e trasparenza con la richiesta di permesso di costruire.
Con il "Decreto del fare", l’Esecutivo è tornato ancora sulla definizione di "ristrutturazione edilizia", nel tentativo di ampliarne la portata applicativa e agevolare, così, la realizzazione di determinati interventi edificatori.
In quest’ottica, la disposizione in commento è venuta a modificare l’ultimo periodo dell’art. 3, comma 1, lett. d), del T.U. edilizia, eliminando l’obbligo di rispettare la sagoma preesistente nei casi di ristrutturazione operata mediante l’integrale demolizione e la successiva ricostruzione.
Ad oggi, dunque, la norma così stabilisce: "Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica".
Sul punto merita ricordare che la formulazione originaria del Testo Unico richiedeva - affinché si potesse parlare di ristrutturazione edilizia - che la demolizione fosse seguita dalla "successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente", con ciò riprendendo l’insegnamento della giurisprudenza, che aveva introdotto in via pretoria l’ammissibilità della ristrutturazione realizzata mediante la demolizione dell’esistente purché seguita dalla fedele ricostruzione.
In seguito, con il D.Lgs. 27 dicembre 2002 n. 301, erano state notevolmente ampliate le possibilità di ristrutturare mediante demolizione e ricostruzione, in quanto era stato eliminato l’obbligo della fedeltà del ricostruito al preesistente, mantenendo solamente i vincoli di volumetria e sagoma, così da escludere, per esempio, il necessario mantenimento del medesimo sedime, anche se su questo profilo vi sono stati notevoli contrasti in giurisprudenza.
Cfr. T.A.R. Umbria, 28 gennaio 2005, n. 20, in Foro amm. TAR, 2005, 1, 102: "Dall’evoluzione legislativa (T.U. 6 giugno 2001 n. 380, come modificato dal D.Lgs. 27 dicembre 2002 n. 301), emerge un nuovo concetto di ristrutturazione edilizia che, diversamente da quanto previsto dalla legislazione precedente (art. 31 legge 5 agosto 1978 n. 457), può essere attualmente esteso fino al punto di ricomprendere anche il caso di un edificio che venga demolito e poi ricostruito senza rispettare con assoluta fedeltà le caratteristiche planovolumetriche e la posizione di sedime e, quindi, con trasformazione urbanistica del territorio".
T.A.R. Umbria Perugia, 28-01-2005, n. 20
Ristrutturazione edilizia - T.U. 380/2001 - Ristrutturazione c.d. pesante - Differenza con nuova costruzione - Criterio - Trasformazione urbanistica del territorio

“Il concetto giuridico di ristrutturazione edilizia, pur essendosi ampliato - ai sensi del T.U. n. 380/2001 come modificato dal D.Lgs. n. 301/2002 - fino al punto di ricomprendere anche il caso della demolizione e ricostruzione di un edificio senza che ne siano rispettate con assoluta fedeltà le caratteristiche planovolumetriche, tuttavia si distingue dalla nozione di nuova costruzione in quanto, la "ristrutturazione edilizia" è comunque da intendere come un intervento di recupero che come tale non comporta (e non deve comportare) una trasformazione "urbanistica" del territorio, mentre la "nuova costruzione" è tale perché comporta anche una trasformazione "urbanistica" del territorio.”
Ad oggi, la nuova formulazione della norma impone, come unico vincolo di continuità tra l’immobile originario demolito e/o crollato (rudere ) e quello ricostruito, che vi sia identità di cubatura
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E’ chiaro, dunque, che il testo normativo non sembra dare adito a dubbi: se l’unico vincolo rimasto è quello della identità di volumetria, va da sé che il nuovo edificio "ristrutturato" potrà essere completamente diverso da quello originario: in astratto, un piccolo manufatto lungo e ad un solo piano potrebbe diventare un edificio con base molto più piccola e notevole altezza (sempre compatibilmente con i limiti di altezza e di numero di piani previsti dallo strumento urbanistico locale).
Sotto altro profilo, la norma in esame ha introdotto e disciplinato la possibilità di porre in essere interventi sull’esistente anche sui ruderi o, comunque, sugli edifici già abbattuti.
In precedenza - giusto il costante insegnamento giurisprudenziale - si era sempre sostenuto che il concetto di ristrutturazione edilizia postulasse necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, con la conseguenza che la ricostruzione su ruderi o su un edificio che risultasse da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituiva a tutti gli effetti una nuova opera, che, come tale, era considerata soggetta alle comuni regole edilizie e paesaggistiche vigenti al momento della sua riedificazione .
Di qui, era stato spesso precisato che "Pur non esulando dal concetto normativo di ristrutturazione edilizia la demolizione del fabbricato, ove sia seguita dalla sua fedele ricostruzione, ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo come ristrutturazione, da un lato, non è sufficiente che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, essendo indispensabile a soddisfare il requisito della sua esistenza che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine, ruderi e macerie, e, dall’altro, che la ricostruzione di esso, oltre ad essere effettuata in piena conformità di sagoma, di volume e di superficie, venga eseguita in un tempo ragionevolmente prossimo a quello dell’avvenuta demolizione per cause naturali o ad opera dell’uomo".
Ad oggi, invece, la nuova definizione di ristrutturazione edilizia fa salvi anche gli interventi "… volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza".
Pare, dunque, che possa ricostruirsi anche un vecchio fabbricato pressoché interamente crollato da anni, purché il suo proprietario sia in grado di dimostrarne la consistenza originaria.
Sulle modalità di prova il legislatore nulla dice, e si ritiene, dunque, che possano essere utilizzati tutti gli atti descrittivi, dichiarativi, certificativi, iconografici ( immagini per aerofotogrammetrie certificate, come quelle redatte dal’IGM ) ecc., dai quali possa desumersi in via diretta e/o mediata quale volume aveva l’immobile che si intende sottoporre al rinnovato concetto di ristrutturazione edilizia enunciato dal legislatore. E, dunque, non solo disegni e relative allegazioni utilizzate per i vecchi assensi comunali; non solo perizie e relative allegazioni eventualmente utilizzate in sedi giudiziarie; non solo disegni e relative allegazioni utilizzate per accatastamenti e/o frazionamenti immobiliari, non solo, insomma, documenti tecnici di vario uso, ma anche attestazioni e/o certificazioni dalle quali emerga semplicemente che un determinato edificio possedeva, ad una certa data, un determinato volume (ad esempio: un certificato di collaudo; un certificato di destinazione urbanistica; una dichiarazione notarile; ecc., non escluse perizie giurate storico-immobiliari appositamente redatte/documentate da parte di professionisti abilitati).
A fronte di tali misure volte ad agevolare gli interventi di ristrutturazione, il legislatore ha però ritenuto di porre dei limiti, nel caso di edifici soggetti a vincolo, così stabilendo in maniera espressa: "Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente".
In buona sostanza, nelle ipotesi di edifici vincolati, la definizione di ristrutturazione e la possibilità di ricostruire vecchi ruderi mantiene l’imprescindibile vincolo dell’identità della sagoma originaria.
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Ma questo non è il caso di specie, qui si discute di un rudere di tettoia, sito in campagna e, pertanto, fuori dal centro urbano, non avendo alcun vincolo ai sensi del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni,
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Strettamente connesse con la rinnovata definizione di ristrutturazione edilizia sono anche le modifiche apportate in tema di titoli abilitativi necessari a realizzare i diversi interventi.
È noto che l’art. 10 del T.U. sull’edilizia disciplina quali siano le tipologie di intervento necessariamente assoggettate al permesso di costruire: le nuove costruzioni, gli interventi di ristrutturazione urbanistica e quelli di ristrutturazione edilizia c.d. "pesante"; ne consegue che - in via di esclusione - tutti gli altri interventi, che non siano liberi ex art. 6, del medesimo D.P.R. n. 380/2001, sono soggetti a semplice DIA (ora SCIA), ai sensi dell’art. 22, comma 1, del medesimo Testo Unico.
A tal proposito, la lettera c) del comma 1, del succitato art. 10 - per come modificata/integrata dal "Decreto del fare" - stabilisce che necessitano del previo rilascio del permesso di costruire "gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni".
In buona sostanza, la soppressione del pregresso riferimento alla sagoma - ad esclusione che nelle zone soggette alla disciplina vincolistica del Codice Urbani - fa sì che ricadano fra gli interventi di ristrutturazione c.d. "leggera" - quantomeno a livello teorico - anche quelli che modificano la sagoma del fabbricato originario, così da risultare realizzabili con semplice DIA (ora SCIA). E ciò - come detto - tranne l’ipotesi in cui l’intervento progettato incida su edifici vincolati ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004, nel qual caso, anche la sola modifica della sagoma richiede il previo permesso di costruire.
Di analogo tenore è la modifica apportata al comma 2 dell’art. 22, T.U. edilizia, che regolamenta gli interventi assoggettati a DIA (ora SCIA).
In tal caso, nella disposizione in esame, dopo le parole: "non alterano la sagoma dell’edificio" sono state aggiunte le seguenti: "qualora sottoposto a vincolo ai sensi del D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni", così liberalizzando la possibilità di utilizzare la SCIA anche per le varianti ai permessi di costruire che incidono sulla sagoma del fabbricato già assentito, a meno che l’intervento non incida su immobili vincolati ai sensi del Codice Urbani.
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In conclusione, si può dire che la modifica della sagoma originaria non rappresenta più il discrimen per passare necessariamente dal titolo abilitativo - diciamo così - minore, la SCIA, alla necessità del permesso di costruire, tranne i casi in cui l’edificio oggetto dell’intervento sia sottoposto a vincolo ai sensi del D.Lgs. 42/2004.
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Appare utile, in questa sede fare alcune riflessioni sul significato di sanatoria.
La sanatoria, in generale, può definirsi come quel fenomeno giuridico per cui un fatto o uno stato di cose contrario alla legge viene a perdere il proprio carattere di illegalità. Di conseguenza, un'opera realizzata in assenza di titolo concessorio, ma non in contrasto con lo strumento urbanistico, viene a perdere il suo carattere di illegittimità per effetto di un provvedimento amministrativo emanato successivamente al compimento della predetta attività materiale.
Fondamento dell'istituto è di non sanzionare quei comportamenti che, sotto un profilo sostanziale, non arrecano danno dal punto di vista urbanistico, consentendo il recupero mediante l'emanazione di un provvedimento successivo (appunto la sanatoria).
L'istituto della concessione in sanatoria è stato previsto dall'art. 13 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, il quale consente la possibilità di sanare le opere eseguite in assenza di concessione (ovvero in caso di variazioni essenziali e di difformità totale o parziale) ed in assenza di autorizzazione, purché l'opera abusiva sia conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non sia in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda.
Condizione della sanatoria, pertanto, è la conformità dell'opera sia alle norme vigenti al momento della sua realizzazione, sia a quelle vigenti al momento del rilascio.
La nozione di "strumenti urbanistici generali e di attuazione" si estende anche ai regolamenti edilizi .
Nelle ipotesi di difformità parziale, il confronto con gli strumenti urbanistici dovrà riguardare solo le singole parti difformi.
La concessione in sanatoria ex art. 13 della legge n. 47 del 1985 non deve essere confusa con il condono ex art. 31 della legge n. 47 del 1985.
Ed invero l'istituto del cosiddetto condono edilizio differisce da quello della concessione in sanatoria in quanto mentre il primo (istituto di carattere temporaneo) ha un meccanismo che si conclude con un controllo meramente documentale da parte del Comune, salvo eventuali accertamenti (es. ex art. 35, comma 9, della legge n. 47 del 1985), l'altro è destinato ad essere un ordinario strumento di recupero e sanatoria delle opere abusive ed è caratterizzato da un accertamento di conformità agli strumenti urbanistici generali e di attuazione, oltre che da sbarramenti temporali ed amministrativi, l'uno e gli altri ben più rigorosi - per spessore ed intensità del controllo - rispetto al controllo eminentemente documentale che caratterizza il primo istituto.
La sanatoria è ora prevista dall'art. 36 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, che riproduce l'art. 13 della legge n. 47 del 1985 citata, prevedendo:
"1. In caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1 (4), 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
2. Il rilascio del permesso in sanatoria è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall'articolo 16. Nell'ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l'oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso.
3. Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata."
Gli effetti amministrativi della certificazione di conformità sono costituiti dall'interruzione della procedura sanzionatoria iniziata.”