La riforma del diritto societario del 2003 (entrata in vigore dal 01 gennaio 2004), con la modifica apportata all’art. 2495 c.c., sembra aver dato una soluzione espressa all’annosa e dibattuta questione se la cancellazione della società dal registro delle imprese comporti l’estinzione della società oppure se questa, come sostenuto dalla giurisprudenza maggioritaria, sopravviva finché vi siano dei rapporti giuridici pendenti facenti capo ad essa. 

Questa giurisprudenza maggioritaria ha infatti costantemente ritenuto, sulla scorta dell’interpretazione che veniva data alla disciplina dell’estinzione delle società nel codice di commercio del 1865, che la cancellazione di una società dal registro delle imprese non ne comporti l’automatica estinzione, e che la società sopravviva invece fino alla completa definizione di tutti i rapporti giuridici ad essa facenti capo, sia sostanziali che processuali (cfr. G. Zagra, Commento a sent. C. Appello di Milano 29 novembre 2002, in Le società, n. 6/2003 p. 844)
La ratio di questa interpretazione è da ricercarsi nell’intenzione di salvaguardare i creditori della società da una possibile liquidazione fraudolenta della stessa, mirata cioè a far venir meno i rapporti passivi esistenti.
Sulla scorta di questa “intenzione protettiva” si è quindi considerata la cancellazione della società dal registro delle imprese come una semplice formalità, avente natura solo dichiarativa, che non può quindi prevalere sulla realtà sostanziale del perdurare di rapporti giuridici, attivi o passivi che siano.
Conseguenza di tale interpretazione è anche che gli organi societari debbano considerarsi ancora in vita pur dopo la cancellazione dal registro delle imprese, ed in particolare il liquidatore mantiene quindi la rappresentanza legale, e quindi anche quella processuale, della società stessa.
In caso quindi di sopravvenienza di crediti dopo la cancellazione, spetterebbe al liquidatore di agire per il loro recupero, redigendo poi un bilancio finale integrativo di quello precedentemente approvato. 

La dottrina maggioritaria si è però costantemente discostata da questa interpretazione giurisprudenziale, criticata per aver sottovalutato la portata innovativa del codice del 1942 rispetto al vecchio codice di commercio, che non conteneva alcuna disposizione riguardo all’estinzione della società né ne prevedeva la cancellazione dal registro delle imprese, e per non aver dato abbastanza peso all’esigenza di certezza dei rapporti giuridici cui hanno interesse tutte le parti coinvolte nel processo di liquidazione ed estinzione della società.
Secondo tale dottrina quindi la cancellazione della società dal registro delle imprese ha efficacia costitutiva (parallelamente all’efficacia costitutiva che è attribuita all’iscrizione) e provoca l’estinzione della società stessa.
Questa diversa interpretazione porta quindi a ritenere che con la cancellazione gli organi sociali, in primis il liquidatore, perdano ogni potere di rappresentanza e quest’ultimo potrà quindi continuare ad agire in nome e per conto della società esclusivamente sulla base di un mandato conferitogli da tutti gli ex soci (v. G. Zagra, cit., p. 846).
Nel caso in cui vi siano delle sopravvenienze attive a favore della società estinte, queste dovrebbero quindi essere distribuite pro quota tra gli ex soci, secondo le norme sulla comunione ed in proporzione alla quota di riparto attribuita a ciascun socio (cfr. M. Vaira, Art. 292-2496, in Il Nuovo diritto societario, Zanichelli, p. 2146).
In contrasto con il consolidato orientamento giurisprudenziale si è di recente pronunciata la Corte d’Appello di Milano, che in una sentenza del 29 novembre 2002 ha statuito che “la cancellazione della società dal registro delle imprese determina la definitiva estinzione della stessa” e che pertanto la carica di liquidatore cessa in concomitanza con la cancellazione della stessa società ed una proroga dei suoi poteri di rappresentanza sarebbe possibile solo in base ad una procura espressa rilasciata dagli ex soci della società estinta.
La Corte d’Appello nell’assumere tale decisione si richiama, ricalcandone la ratio, alla precedente sentenza della Corte Costituzionale (sent. n. 319 del 21 luglio 2000) che dichiarava l’incostituzionalità per violazione dell’art. 3 Cost. dell’art. 10 R.D. 16 marzo 1942 n. 267 (c.d. l. fallimentare) “nella parte in cui non prevede che il temine di un anno dalla cessazione dell’esercizio dell’impresa collettiva per la dichiarazione di fallimento della società decorre dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese”.
Con tale decisione si era di fatto reso inoperante il consolidato orientamento della Cassazione che, proprio partendo dall’assunto della sopravvivenza della società alla cancellazione dal registro delle imprese, traeva la conseguenza che si potesse dichiararne il fallimento senza limiti temporali.
Conclude pertanto la Corte d’Appello citata che la società cancellata dal registro delle imprese, e quindi estinta, non ha alcuna capacità processuale ad agire per il recupero di un credito esistente fin da epoca anteriore alla chiusura della liquidazione, per il quale nel caso trattato non era dato sapere se fosse stato o meno iscritto nel bilancio finale di liquidazione, e che di conseguenza anche l’ex liquidatore non ha più la capacità di rappresentare in giudizio la società stessa. 

Ne discende quindi, in relazione alla questione che ci occupa, che il credito sopravvenuto possa essere azionato solo dagli ex soci della società estinta, i quali se lo divideranno pro quota in base alle quote finali di liquidazione.
A definire la questione dell’effetto estintivo o meno della cancellazione dal registro delle imprese, come si accennava all’inizio, è infine intervenuto il legislatore delegato che nel nuovo art. 2495 c.c. (che ha sostituito la disciplina del vecchio art. 2465), dopo aver disposto che i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese, ha inserito un inciso per cui “ferma restando l’estinzione della società” i creditori sociali dopo la cancellazione possano far valere i loro crediti nei confronti dei soci fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse.
È quindi stato espressamente previsto, tramite il suddetto inciso, che la cancellazione della società dal registro delle imprese comporti inevitabilmente l’estinzione della società.
Il legislatore delegato però, pur disciplinando nel comma secondo del suddetto articolo il rimedio concesso ai creditori per ottenere il pagamento dei debiti societari direttamente dai soci, nulla dice sul destino di eventuali crediti o poste attive della società che sopravvengano all’estinzione stessa, non risolvendo quindi esplicitamente questa ulteriore problematica.
Ne deriva quindi che bisogna ritenere valida l’interpretazione data alla questione dalla dottrina e dalla giurisprudenza sopra citate, per cui, una volta stabilito senza più ombra di dubbio che la società cancellata è definitivamente estinta e che quindi non può più avere alcuna capacità giuridica e processuale per agire per il recupero dei crediti, spetterà solamente agli ex soci la legittimazione ad agire in giudizio e ad ottenere pro quota, secondo le norme sulla comunione, il soddisfacimento dei crediti di cui era titolare la società estinta.