DIVORZIO E SEPARAZIONE: CHIARIMENTI SULLE NOVITA' LEGISLATIVE
Nei mesi scorsi alcuni assistiti mi hanno domandato come si potesse accedere al divorzio breve di cui tanto sentivano parlare ritenendo che fosse stata approvata una legge per la quale era consentito loro di porre fine al legame coniugale in tempi rapidi e senza eccessivi oneri. Le espressioni contenute nei titoli di molte testate giornalistiche, in effetti, hanno indotto i lettori a credere che il tempo di riflessione tra separazione e divorzio non fosse più di tre anni ma si fosse ridotto. In realtà, però, le cose non stavano così! L’eccessiva necessità di semplificazione e la tentazione di stuzzicare la curiosità hanno indotto, in molte occasioni, i redattori delle note e degli articoli informativi sull’argomento ad utilizzare impropriamente la dizione divorzio breve. Tale espressione è stata infatti utilizzata per indicare la possibilità offerta dal legislatore, a partire dalla fine dello scorso anno, di ricorrere alla separazione ed al divorzio, sussistendone i requisiti, con una modalità semplificata e meno costosa ma che di fatto lasciava inalterati i tempi previsti dall’ordinamento giuridico per accedere al divorzio stesso, dopo aver ottenuto la separazione, consensuale o giudiziale che fosse. In sintesi, si è ingenerata confusione tra la possibilità, concessa dalla legge (L. 162/2014), di ricorrere alla separazione, ma anche al divorzio, attraverso l’accordo da manifestare davanti al Sindaco nella sua qualità di ufficiale di stato civile anziché davanti al giudice, con una procedura più snella, indipendentemente dall’assistenza o meno di un legale, con quanto invece era ancora al vaglio del parlamento in ordine alla possibilità di ridurre le tempistiche per dirsi definitivamente addio. Le norme in questione sono state finalmente approvate solo qualche giorno fa…
SOLO ORA SI PUÒ PARLARE CORRETTAMENTE DI DIVORZIO BREVE Per dirsi definitivamente addio e sciogliere il matrimonio che sia stato celebrato davanti al Sindaco o, quanto meno, far cessare gli effetti civili che conseguono al medesimo, nell’ipotesi di rito religioso (matrimonio che non può essere sciolto se non attraverso il ricorso al Tribunale ecclesiastico), basteranno sei mesi dalla separazione consensuale e dodici da quella giudiziale a prescindere dalla presenza o meno di figli. Questo è uno dei punti contenuti nella Legge varata definitivamente qualche giorno fa, ovvero il 22 aprile scorso, che contiene “Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra i coniugi”. Il Disegno di Legge concepito lo scorso anno ha, dunque, generato la Legge in questione non senza accese dispute e aspri dibattiti. Dalla Legge è stata, infatti, stralciata la disposizione che ha sollevato le critiche più forti che avrebbe consentito ai coniugi di sciogliere il vincolo matrimoniale passando immediatamente al divorzio (denominato, quindi, divorzio diretto), possibilità peraltro già ammessa in altri Paesi europei (tra cui Romania, Spagna, Finlandia e Norvegia) e che, almeno in alcuni casi (accordo tra i coniugi e assenza di figli), sarebbe stata auspicabile. Ma siamo in Italia e quindi certe evoluzioni del pensiero, dettate da nuove esigenze sociali, tardano ad attecchire. La Legge italiana sul divorzio risale, infatti, al 1970 (L. 898/1970) ed una prima timida modifica era stata attuata solo nel 1987 (L. 74/1987) quando è stata introdotta la norma che ha consentito di ridurre i tempi tra separazione e divorzio da cinque anni a tre.
LA LEGGE HA INFLUITO ANCHE SULLA COMUNIONE DEI BENI La normativa in parola oltre ad incidere sulle tempistiche minime tra separazione e divorzio, che decorreranno dalla data di comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale, ha dettato norme sulla comunione tra i coniugi che si scioglierà nel momento in cui il medesimo Presidente autorizzerà i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al Presidente, purché poi omologato. L’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati verrà, quindi, comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione sull’apposito registro. Sino a qualche giorno fa, invece, la comunione dei beni si scioglieva solo con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione, vale a dire quando tale pronuncia diventava definitiva perché ormai trascorso il termine per l’impugnativa, ovvero per l’appello.
E SI APPLICA ANCHE AI PROCEDIMENTI IN CORSO In pratica le nuove disposizioni consentiranno di applicare le norme sulla comunione dei beni e sui termini abbreviati anche ai procedimenti pendenti. Ciò significa che chi ne avesse interesse potrà ottenere una pronuncia di scioglimento del matrimonio o cessazione degli effetti civili dello stesso, magari parziale, anche se il procedimento di separazione, a questo punto giudiziale, sia ancora in corso. Naturalmente, perché ciò sia possibile, dovrà essere trascorso almeno un anno dalla comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale. Potranno, inoltre, avvantaggiarsi della riforma anche coloro che già separati consensualmente, da oltre sei mesi, vogliano ottenere anche il divorzio. Così come potranno fruire del termine breve dei dodici mesi, decorrente dalla comparizione innanzi al Presidente, coloro che hanno già ottenuto una sentenza di separazione.
ALTRE PROCEDURE PER OTTENERE SEPARAZIONE E DIVORZIO Il Decreto Legge n. 132 del 2014, poi convertito nella Legge 162 del 2014, contenente disposizioni in materia di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile, aveva già introdotto delle procedure alternative al ricorso al giudice per ottenere la separazione, il divorzio ed anche la modifica delle condizioni di separazione e divorzio. Tali procedure sono state impropriamente denominate, talvolta, come “separazione e divorzio lampo”, ma in realtà non sono altro che modalità alternative di soluzione delle controversie di separazione e divorzio introdotte per deflazionare il carico di lavoro dei Tribunali. Mi riferisco alla possibilità di ricorrere alla procedura di negoziazione assistita (art. 6 della medesima Legge), innanzi ad uno o più avvocati per ogni parte, e alla modalità prevista, invece dall’art. 12 in base alla quale, in presenza di determinate situazioni, si può ottenere il medesimo risultato manifestando tale volontà innanzi al Sindaco del Comune ove è stato trascritto l’atto di matrimonio o dove risiede uno dei due coniugi.
DAVANTI AL SINDACO, SOLO SEPARAZIONI E DIVORZI FACILI Nel dettaglio, l’art. 12 della Legge in parola ha introdotto la possibilità per i coniugi, senza obbligo di patrocinio da parte di un avvocato (assistenza, peraltro, sempre consigliabile vista la delicatezza della materia), che non abbiano figli o che avendoli siano divenuti maggiorenni e siano autosufficienti economicamente e non siano incapaci o portatori di handicap gravi, di separarsi, divorziare o modificare le condizioni di separazione e divorzio, attraverso dichiarazioni rese innanzi al Sindaco, nella sua qualità di ufficiale dello stato civile. Oltre a tali limiti va sottolineato che l’accordo manifestato davanti al Sindaco non può contenere patti di trasferimento patrimoniale. Ricevute, quindi, le dichiarazioni, l’accordo compilato dal Sindaco, o dal suo facente funzioni, produce gli stessi effetti dei provvedimenti giudiziari che concludono i procedimenti aventi il medesimo oggetto, senza bisogno di omologazione giudiziale. Sulla base di tale accordo verranno, quindi, fatte le annotazioni di rito a margine dell’atto di matrimonio. È chiaro che la mancanza di figli o, pur in presenza di questi, la loro autosufficienza economica e piena capacità e salute, nonché l’assenza di condizioni regolatrici gli aspetti economici, quasi sempre presenti anche nelle ipotesi più semplici, riduce moltissimo la possibilità di fare ricorso a tale procedura. Questa è, pertanto, relegata ai pochi casi di separazione, divorzio e modifica delle condizioni in cui praticamente non vi è nulla da regolamentare, e vi sia semplicemente la necessità di recepire la dichiarazione di volersi separare, divorziare o modificare le condizioni che non abbiano però contenuti patrimoniali.
MA CON POSSIBILITÀ DI RIPENSARCI NEI TRENTA GIORNI SUCCESSIVI In sede di conversione in legge del decreto n. 132, infatti, è stata prevista una sorta di cautela a favore del diritto di ripensamento di uno o di entrambi i coniugi, che abbiano manifestato innanzi al Sindaco la volontà di separarsi o divorziare. Al legislatore non è parso, peraltro, utile allargare tale cautela anche alle ipotesi di modifica delle condizioni di separazione e divorzio. Così, una volta manifestata la volontà di separarsi o divorziare, il Sindaco invita i coniugi a confermare le loro dichiarazioni dopo trenta giorni. La loro eventuale assenza al successivo incontro, fissato non prima che sia trascorso tale periodo, verrà interpretata come rinuncia. Se, quindi, permane l’interesse in capo ad uno soltanto dei due coniugi, a questo non rimarrà altra via che fare ricorso all’autorità giudiziaria per ottenere un provvedimento che abbia il medesimo oggetto. Il procedimento è dunque applicabile solo in caso di totale accordo tra le parti. Qualora, invece, entrambi si ripresentassero e confermassero la loro volontà di separarsi o far cessare gli effetti civili del matrimonio o sciogliere il medesimo o, ancora, modificare le condizioni di una separazione o di un divorzio già ottenuto, gli effetti decorrerebbero dalla data dell’atto contenente l’accordo e non dalla data di conferma.
IL MINISTERO CHIARISCE IL SIGNIFICATO DEL DIVIETO DI PATTI PATRIMONIALI L’infelice ricorso all’espressione “patti di trasferimento patrimoniale” ha indotto qualche interprete a ritenere che l’esclusione fosse limitata a quei patti che avrebbero regolamentato la cessione di beni immobili consentendo, invece, l’inserimento di altre condizioni con contenuto economico. Il Ministero dell’Interno è, però, intervenuto a fare chiarezza, precisando che la ratio della norma, è volta ad escludere qualunque valutazione di natura economica o finanziaria nella redazione dell’atto di competenza dell’ufficiale dello stato civile. Il Ministero ha dunque evidenziato che “in assenza di specifiche indicazioni normative, va pertanto esclusa dall’accordo davanti all’ufficiale qualunque clausola avente carattere dispositivo sul piano patrimoniale, come, ad esempio, l’uso della casa coniugale, l’assegno di mantenimento, ovvero qualunque altra utilità economica tra i coniugi dichiaranti” (Ministero dell’Interno, circolare del 28 novembre 2014, n. 19).