Indice argomentativo-sistematico

• Profili generali nelle s.p.a. e nelle s.r.l.

• Ratio e limiti dell’istituto: exit e situazioni soggettive inerenti al socio

• Segue. Exit e limiti alla circolazione della partecipazione

• Recesso nella s.r.l.: divisibilità della quota, recesso parziale

• Recesso per giusta causa

• Segue. Recesso ad nutum. Abuso del diritto di recesso

• Modalità di esercizio ed effetti

• Diritti patrimoniali del socio: criteri di liquidazione della quota


Inquadramento del problema

In ogni organizzazione collettiva i consociati, nel momento in cui sorge un contrasto con le scelte compiute dalla struttura alla quale appartengono (ovvero non desiderino continuare a farne parte), dispongono, in astratto, di strumenti di reazione sostanzialmente riconducibili a due principali paradigmi di condotta: la manifestazione del proprio dissenso (voice) ovvero l’abbandono dell’organizzazione (exit).

Nelle società di capitali, il socio, di fronte a scelte operative ed organizzative della società cui partecipa, ha la possibilità di ricorrere a strumenti di voice (vale a dire la permanenza nella struttura e l’esperimento di rimedi, formali e informali, a carattere inibitorio-invalidante o risarcitorio) ovvero all’exit (la liquidazione, in tutto o in parte, del proprio investimento nel capitale di rischio della società). Quest’ultima opzione può concretizzarsi, in primo luogo, nella cessione sul mercato, cioè attraverso uno scambio volontario, della partecipazione. Tuttavia, l’ordinamento prevede (ovvero consente all’autonomia statutaria di prevedere) che, al ricorrere di determinati presupposti, sia riconosciuta al socio la possibilità di liquidare la propria partecipazione attraverso procedimenti alternativi alla cessione sul mercato. Anzi, proprio in relazione alla maggiore o minore possibilità di cessione volontaria delle quote deve ricollegarsi una minore o maggiore tutela del socio attraverso un ampliamento del diritto di recesso.

Questa facoltà, che si potrebbe definire come diritto di disinvestimento del socio, viene assicurata con strumenti giuridici che si presentano fortemente eterogenei sotto il profilo strutturale. Di exit, in effetti, può parlarsi con riferimento a fenomeni assai mutevoli, che a loro volta riflettono gli interessi di soggetti diversi: in primo luogo, in relazione al profilo della circolazione della quota; inoltre, alla possibilità, per il socio, di dismettere (appunto, disinvestire) la sua partecipazione, tutelando il proprio interesse a non restare prisonnier, a prescindere dall’ipotesi della cessione ad un soggetto terzo. I distinti profili sono tra loro correlati, ancorché secondo modalità non lineari. In primo luogo, la libertà di circolazione della partecipazione non è di per sé idonea ad evitare la “prigionia”: ciò come riflesso della sostanziale coincidenza, nelle società chiuse, tra potenziali acquirenti e altri soci, coincidenza che può, in fatto, rendere impossibile la cessione. Conseguentemente, se la previsione di limiti alla circolazione sembra senz’altro richiedere un intervento a favore del socio, l’assoluta libertà di circolazione non assorbe, per converso, gli altri ipotizzabili meccanismi, proprio perché inidonea, da sola, a tutelare il socio.

Bisogna aggiungere, poi, che la possibilità di un rapido ed agevole disinvestimento costituisce un incentivo determinante al fine di aumentare la propensione all’investimento finanziario dei soggetti nelle imprese. Ciò, in perfetta armonia con uno dei principi cardini della riforma stessa, laddove si preoccupa di collegare la competitività delle imprese con l’accesso al mercato dei capitali di rischio (art. 1, comma 1, lett. a, legge n. 366/2001).

Il valore del singolo conferimento, inteso come strumento dell’attività comune, definisce la dimensione dell’investimento finanziario del socio al capitale e, ulteriormente, rappresenta il parametro per la commisurazione della sua partecipazione rispetto alle determinazioni dell’attività sociale. L’esigenza dell’effettività del capitale e, quindi, anche del singolo conferimento può leggersi come presidio della realtà di quel contributo, perciò come dell’effettiva corrispondenza di quell’entità della partecipazione del socio alla reale messa a disposizione di strumenti patrimoniali in misura equivalente a favore della società; come necessario riflesso, in ultima analisi, della correlazione tra potere e rischio nelle tipologie societarie capitalistiche, in cui il socio non corre altro rischio che di perdere definitivamente quanto conferito, e nelle quali pertanto l’effettività dell’apporto assume il significato di garanzia di effettività del rischio. Non sembra opportuno, in questa sede, approfondire il dibattito sulla natura giuridica (consensuale o reale dell’obbligazione) del conferimento: risulta oltre modo sostenuta, al contrario, una radicale inammissibilità della parificazione del conferimento alle prestazioni tipiche dei contratti di scambio, in favore della rinnovata consapevolezza del significato organizzativo dell’apporto e cioè della sua subordinazione alle esigenze dell’attività comune proprie del fenomeno associativo.

Il recesso, generalmente, si configura come strumento tendenzialmente volto allo scioglimento parziale del vincolo societario e, in quanto tale, è comune sia alle società a base personalistica sia a quelle a base capitalistica. Nelle società personali (art. 2285 c.c.), il rimedio de quo non presenta, dommaticamente, particolari problemi applicativi, laddove l’istituto è, in pratica, una specificazione della norma generale sui contratti. Al contrario, l’ordinamento si preoccupa di condizionare l’esercizio del diritto di recesso nelle società di capitali, alla presenza di determinate cause. La differente e maggiore rilevanza giuridica che il recesso ha nelle società di capitali si spiega, sostanzialmente, innanzitutto poichè con l’atto costitutivo si crea un ente (una struttura corporativa) che, con l’iscrizione nel registro delle imprese, acquista personalità giuridica, distinta dai soci e questi ultimi godono, tendenzialmente, del beneficio della responsabilità limitata; inoltre, con l’esercizio del recesso si va direttamente ad incidere sull’entità del capitale sociale. Così, si è ritenuto necessario un contemperamento tra l’interesse del socio al disinvestimento (anticipato ed individuale), alla liquidazione della propria partecipazione in situazioni strutturalmente, ma non necessariamente, ricollegate al mutamento del rischio nell’impresa sociale e l’interesse relativo alla tutela dell’integrità del capitale sociale, quindi, dei terzi. Da una parte, il rischio di depauperamento del patrimonio, dall’altra, l’interesse al finanziamento dell’impresa e la tutela del socio (di minoranza).

Nel sistema ante riforma, la disciplina del recesso ruotava intorno all’art. 2437 c.c. dettato per le s.p.a. Attraverso il meccanismo del rinvio (vecchio art. 2494 c.c.), le modifiche statutarie ed il diritto di recesso nelle s.r.l. erano disciplinate (con alcune varianti quanto all’aumento ed alla riduzione del capitale) dalla norma dettata per la s.p.a. La ratio della disposizione si concretizzava nella possibilità per i soci assenti e dissenzienti di porsi fuori dalla società mediante una dichiarazione unilaterale e di ottenere il rimborso in denaro del valore della propria quota. La norma prevedeva sia le ipotesi di modifica dell’atto costitutivo (alle quali l’art. 2437 faceva espresso riferimento), sia i soggetti legittimati al recesso stesso. A tenore della norma sembrava lecito ritenere tassative le ipotesi di recesso, nel senso di consentirne l’esercizio solo nei casi espressamente previsti. Si trattava dei casi in cui fosse stato deliberato, pur validamente, ma senza il concorso del voto del socio intenzionato a recedere, a) il cambiamento dell’oggetto sociale; b) il cambiamento del tipo; c) il trasferimento della sede all’estero. La questione, tuttavia, non trovava unanimi consensi. Mentre, infatti, una parte della dottrina propendeva per la soluzione restrittiva, altri ritenevano che l’atto costitutivo potesse prevedere specifiche ipotesi di recesso. Inoltre, se era pacifico il riconoscimento della legittimazione all’esercizio del diritto di recesso ai soci assenti e dissenzienti, non altrettanto valeva per i soci astenuti: questi ultimi, per alcuni, andavano equiparati ai dissenzienti, poiché con il loro comportamento dimostravano un chiaro intendimento in tal senso; per altri, di fronte a decisioni di così rilevante portata quali erano, appunto, le modifiche dell’atto costitutivo, l’atteggiamento di indifferenza proprio dell’astensione non era meritevole di tutela. A ciò si aggiungeva (e si aggiunge tuttora) la norma dell’ultimo comma dell’art. 2343 c.c., riguardante l’ipotesi del socio conferente beni in natura il cui valore, in seguito alla revisione della stima, fosse risultato inferiore di oltre un quinto rispetto a quello originario.

Più specificamente, riguardo al concetto di cambiamento dell’oggetto sociale, si sosteneva che il diritto di recesso spettasse solo quando la modifica dell’atto costitutivo provocasse un mutamento sostanziale dell’oggetto stesso, tale da determinare condizioni di rischio diverse, in ogni caso più onerose, da quelle in atto al momento in cui il socio aveva aderito alla società. La giurisprudenza, in proposito, sembrava orientarsi diversamente, ritenendo che essa andasse riconosciuta anche quando l’oggetto originario risultasse dilatato o esteso, ristretto o diminuito dalla modifica, in modo tale da eccedere le semplici esigenze di adattamento e completamento dell’oggetto stesso.

Relativamente alla liquidazione spettante al socio recedente, è da rilevare la diversità di valore da attribuire alle azioni a seconda che fossero o meno quotate in borsa: mentre per le prime il valore da considerare era quello di mercato, per le altre occorreva determinarlo sulla base dell’ultimo bilancio: ciò comportava una serie di problemi la cui soluzione presentava notevoli difficoltà.Vanno registrati, in proposito, gli sforzi della dottrina per superare il dettato della legge al fine di una valutazione più esatta possibile. Per alcuni, la valutazione suddetta doveva effettuarsi in ottemperanza all’art. 2425, ult. comma, c.c., apportando al bilancio tutte le modifiche necessarie a determinare il netto patrimoniale nella misura più prossima al reale; per altri, ogni deroga al disposto che imponesse, in caso di recesso, che la base di valutazione di società non quotate fosse costituita dall’ultimo bilancio, non appariva  giustificato alla luce della vigente normativa. Né mancava chi riteneva che una più esatta valutazione potesse partire solo da un bilancio straordinario, stilato per la circostanza del recesso.

Si riscontravano, inoltre, pareri discordanti in merito al momento di efficacia del recesso stesso. Per taluni era sufficiente che la comunicazione fosse spedita entro tre giorni dalla chiusura dell’assemblea o, comunque, nei quindici giorni dalla data di iscrizione della delibera, laddove per altri era necessario che la raccomandata pervenisse a destinazione nei termini di cui sopra.

Nel progetto riformatore come delineato dalla legge delega (per le s.r.l. art. 3, comma 2, lett. f e per le s.p.a. art. 4, ultimo comma, lett. d, legge 3 ottobre 2001 n. 366), il recesso nelle società di capitali ha subito una radicale revisione, attuata, in primis, mediante un ampliamento delle cause giustificative e, inoltre, attraverso la modifica dei criteri di liquidazione della quota di partecipazione. In attuazione della legge delega, con il nuovo art. 2473 c.c. il legislatore ha ampliato notevolmente le possibilità di recesso del socio di s.r.l.: da una parte, ha riconosciuto all’autonomia statutaria il potere di determinare le ipotesi nelle quali è consentito al socio di recedere dalla società, nonché le stesse modalità di esercizio di tale diritto; dall’altra, ha previsto ipotesi più numerose che in passato, in cui al socio è riconosciuto il diritto di recedere dalla società.

Le cause di recesso nella s.r.l. e nelle s.p.a.: profili generali

Rispetto alla mera elencazione delle cause di recesso previste dalla legge, conviene esaminare le principali problematiche sottese all’istituto de quo, con particolare riferimento alle s.r.l.

L’ampliamento delle ipotesi del diritto di recesso legale, nelle s.r.l. e nelle s.p.a., è effettuata operando, al loro interno, una distinzione in base al carattere di inderogabilità o meno e riconoscendo, altresì, alle sole società per azioni che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (cd. s.p.a. “chiuse”), la possibilità di prevedere statutariamente ulteriori ipotesi di recesso. Una disciplina più articolata e, sotto alcuni aspetti, rigida con la predisposizione di norme inderogabili, e rispondente alla stessa esigenza di fondo di apprestare un “efficace mezzo di tutela del socio avverso cambiamenti dell’operazione cui partecipa” (Relazione al d.lgs. n. 6/2003, § 9). L’autonomia contrattuale è temperata dalla previsione di specifiche ipotesi inderogabili volte a garantire una tutela minima degli interessi individuali.

Le analogie di disciplina tra i due tipi societari, peraltro, non si fermano all’ampliamento delle ipotesi di recesso, poiché, al di là delle specifiche modalità di determinazione del valore della partecipazione del socio recedente previste per le s.p.a., la tutela del socio è spinta fino allo scioglimento della società, in mancanza di acquisto della partecipazione da parte degli altri soci o di vendita a terzi e sempre che non sia possibile utilizzare le riserve disponibili ovvero diminuire il capitale sociale.

Non mancano tuttavia differenze. Alcune si collocano a livello delle cause, tra le quali figurano ipotesi ulteriori rispetto a quelle già previste per le s.p.a. Ad esempio, nella s.r.l. può recedere il socio che non abbia consentito alla fusione o alla scissione della società: ipotesi queste non previste in tema di s.p.a., anche se le stesse – almeno quanto alle s.p.a. chiuse – possono trovare spazio in clausole ad hoc, fra le cause statutarie di recesso ulteriori a quelle legali. Peraltro, la nuova disciplina contiene l’espressa previsione del recesso in caso di fusione o scissione eterogenea solo per le s.r.l. Sia per le s.p.a. sia per le s.r.l., la legge consente il recesso al socio che non abbia consentito alla trasformazione della società.  Dal punto di vista del tenore letterale della norma, nelle s.p.a. il socio ha diritto di recedere “per tutte o parte delle proprie azioni” (art. 2437, comma 1, c.c.), laddove nelle s.r.l. il socio può recedere “dalla società”, cioè, secondo parte della dottrina, necessariamente per l’intera quota, soprattutto per il carattere marcatamente personale della società e della partecipazione sociale. Solo nella s.p.a. il recesso potrebbe non incidere sulla Mitgliedschaft, conformandosi all’obiettivizzazione e suddivisione in autonome parti della partecipazione, caratteristiche della tecnica azionaria. La novità riguarderebbe, dunque, a rigore le sole s.p.a, e non le s.r.l., la cui disciplina rimarrebbe immutata rispetto al passato, nel senso dell’impatto del rimedio sull’intera partecipazione, e per questa via sulla qualità di socio.

Ma è evidente che la differenza di configurazione del rimedio così introdotto finisca per esaltare (solo) la contrapposizione letterale fra rilevanza centrale dell’azione e rilevanza centrale del socio (per s.r.l.), come affermato dalla Relazione.

Al contrario, l’iter storico-legislativo che ha portato, per ultimo, all’emanazione dei decreti del 2003, non sembra confortare l’ipotesi di una s.r.l. che si possa definire univocamente “personale”. La riforma, in linea con la legge delega n. 366/2001, costruisce la s.r.l. come un nuovo “tipo” di società, svincolando la sua disciplina dalla precedente tecnica del rinvio sistematico alle norme della società per azioni.

Il nuovo corpo normativo, tuttavia, nonostante gli intendimenti della legge delega, appare tutt’altro che organico ed esauriente, seppur più autonomo rispetto al passato. Anzi, questa “autentica ossessione di emancipazione della s.r.l. dalla s.p.a.” ha in realtà effetti innovativi senza precedenti soltanto se si fa riferimento alle possibili “varianti” concesse alle parti in sede di autonomia statutaria. Infatti, a ben vedere, alla sola stregua degli statuti legali, la nuova s.r.l. appartiene, come in passato, alla “classe” delle società di capitali seppure con organizzazione corporativa attenuata e residuale. Il diritto di recesso trova, dunque, naturale collocazione nell’ambito di una rilevanza assegnata al socio o, più genericamente, di una personalizzazione che non vulnera la connotazione capitalistica della s.r.l.

Tuttavia, se, da una parte, nella Relazione al decreto si riconnette l’esercizio del diritto ad ipotesi di comportamenti “oppressivi” della maggioranza e, più in generale, alla volontà del socio di “sottrarsi alle scelte della società che pregiudicano i suoi interessi” (Relazione, § 9), dall’altra, l’incipit della norma dell’art. 2473 c.c. lascia all’autonomia statutaria l’individuazione di ulteriori cause recesso, rendendo l’istituto funzionale all’esigenza (invero propria solo delle imprese fondate sulla considerazione dei soci e dei loro rapporti personali) di modellarne la disciplina in funzione degli interessi dei singoli partecipanti. In questo senso è lasciata alla valutazione dei soci la ponderazione della permanenza stessa all’interno della compagine sociale. Analogamente a quanto previsto dall’art. 2285, comma 2, c.c., la norma non limita l’esercizio del diritto ai casi di insanabile dissidio tra i soci, né a situazioni attinenti alla sfera personale del singolo, idonee a impedirgli la partecipazione diretta alla vita dell’ente (ossia, genericamente, una giusta causa): la disposizione in esame consente, ulteriormente, di prevedere anche ipotesi di scioglimento del vincolo non strettamente connesse a modificazioni delle condizioni di rischio inizialmente accolte relative alla struttura organizzativa e/o dei diritti partecipativi dei singoli, cioè ad un mutamento dei caratteri essenziali dell’operazione di investimento.

Problemi applicativi potrebbero prospettarsi in relazione all’esercizio abusivo del diritto di recesso e dell’ammissibilità cd. recesso parziale nelle s.r.l.

Divisibilità e recesso parziale

La nuova disciplina della s.r.l. non riproduce la norma contenuta nel vecchio testo dell’art. 2482 c.c. in merito alla divisibilità della quota. Nel sistema previgente, dall’art. 2482 si ricavava la regola della generale divisibilità derivante da successione mortis causa ovvero in caso di alienazione. Peraltro, alla stessa regola si opponevano fondamentalmente due eccezioni: la prima, di matrice contrattuale, faceva salva la possibilità di rendere la quota indivisibile; l’altra, derivante dal vecchio (e non più vigente) art. 2474, secondo cui la quota non poteva essere di valore inferiore ad un certo minimo e, in caso di valore superiore, doveva costituire un multiplo del minimo stesso. Dal momento che nella riforma del 2003, la disposizione dell’art. 2474 c.c. non è stata riportata, la norma dell’art. 2482, non ricoprendo più la funzione originaria, è venuta anch’essa meno. Tuttavia, la mancanza di una espressa previsione non sembra ostacolo insormontabile alla possibilità di una divisibilità della quota, dunque ad una sua trasferibilità, anche solo parziale in capo ad altri soggetti, sia inter vivos sia mortis causa. Si noti che nel caso di preclusione del trasferimento per causa di morte della partecipazione, la norma dell’art. 2469, comma 2, c.c. sembrerebbe legittimare gli eredi all’esercizio del diritto di recesso ex art. 2473 c.c., senza però che essi siano mai diventati soci.

Si potrebbe affermare, al contrario, che l’art. 2462, comma 2, n. 6, c.c., nel prescrivere che l’atto costitutivo deve indicare “la quota di partecipazione di ciascun socio”, voglia ribadire il carattere unitario della quota stessa, in armonia con la presunta caratterizzazione personalistica voluta dalla legge delega e sottolineata dalla Relazione ministeriale. In quest’ottica, il recesso potrebbe essere esercitato, come accennato, dal socio per l’intera quota e non per una parte di essa, interpretando come volontà negativa del legislatore al riguardo il silenzio dell’art. 2473 c.c. in contrapposizione all’esplicito riferimento dell’analoga disposizione dell’art. 2437 c.c. per la società azionaria. Tuttavia, autorevole dottrina ha affermato che la cedibilità parziale della partecipazione individuale rispecchia soltanto l’attitudine normale delle azioni alla circolazione: attitudine che può essere pesantemente compressa con l’introduzione di clausole limitative della circolazione e attraverso la fissazione di un elevato valore nominale delle azioni, fino addirittura al valore complessivo della partecipazione individuale. Questa cedibilità parziale della partecipazione azionaria rappresenta perciò solo una regola di frequenza. Così, una analisi approfondita della disciplina consente di ricavare argomenti per ribadire che la quota di partecipazione, salvo diversa disposizione statutaria tale da favorire un assetto tipicamente personalistico, è liberamente trasferibile e divisibile, in quanto essa rappresenta la forma giuridica di un valore economico. Le parti potranno, comunque, prevedere una clausola di indivisibilità, sia della quota comune che della quota in capo al singolo socio. Ulteriore (e connesso al precedente) problema è quello relativo all’ammissibilità del recesso parziale nelle s.r.l.

La dottrina maggioritaria anteriore alla riforma del 2003, seppur con riferimento alle società per azioni, considerava meritevole di tutela l’interesse concreto del socio a recedere solo per parte della propria partecipazione, riducendo, dunque, il suo investimento patrimoniale, senza, però, poter esprimere il voto in modo finalizzato al raggiungimento del risultato.

Altra dottrina, invece, partendo da una concezione “essenzialmente contrattuale” dell’istituto, riteneva possibile solamente il recesso per l’intera quota di partecipazione. Con la nuova formulazione dell’art. 2437 c.c., i soci che non hanno concorso a determinate deliberazioni “hanno diritto di recedere per tutte o parte delle loro azioni”. Tale disposizione non è contenuta nell’art. 2473 c.c. per le s.r.l. Si deve, tuttavia, rilevare come la configurazione del recesso parziale non possa considerarsi una conseguenza del principio di autonomia delle azioni, quanto piuttosto una implicazione dell’istituto del recesso, il quale costituisce uno strumento di reazione ad una decisione organizzativa fondamentale imputabile alla società, teso a provocare, come effetto della decisione del socio, ed al termine di un procedimento organizzativo, l’uscita dello stesso dalla compagine sociale o la riduzione della sua quota di partecipazione al capitale e l’attribuzione di una somma determinata secondo criteri legali.

Infatti, anche con riferimento al maggiore rilievo personale dei soci, valorizzando gli aspetti patrimoniali della partecipazione, l’interesse al disinvestimento parziale può ricorrere anche nel caso di s.r.l. ed il recesso sicuramente rappresenta una tra le diverse forme di smobilizzo della ricchezza. Solo nelle ipotesi in cui lo statuto preveda quote intrasferibili e/o indivisibili, il recesso potrà esercitarsi per l’intera partecipazione. Inoltre, quando il legislatore ha voluto escludere il recesso parziale, lo ha stabilito in maniera esplicita, come risulta dalle norme degli artt. 2497 quater, lett. b), in tema di gruppi (che peraltro richiama la disposizione degli artt. 2437 e 2473 c.c.) e 2532 c.c. per le cooperative.

Le modifiche “indirette” dell’oggetto sociale e dei diritti particolari dei soci

Interessanti appaiono le specifiche ipotesi di recesso della s.r.l. nel caso di mancato consenso del socio al compimento di operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale, o una rilevante modificazione dei  diritti attribuiti ai soci a norma dell’art. 2468, comma 4, c.c.

E’ importante notare che il diritto di recesso si connette qui al difetto di consenso del socio; non ad una diretta decisione di modifica dell’oggetto sociale o degli eventuali diritti particolari dei soci, bensì ad una decisione di compiere una operazione che ha come effetto ulteriore una modifica dell’oggetto o dei diritti particolari dei soci.

E, va sottolineato, che si tratti pur sempre del mancato consenso all’adozione di una deliberazione, parrebbe a prima vista evidenziarlo il fatto che la decisione riguardante operazioni come quelle in questione (che comportino, cioè, modifiche dell’oggetto sociale o dei diritti particolari dei soci) è espressamente prevista fra quelle riservate alla competenza dei soci (dall’art. 2479, n. 5, c.c.) con metodo inderogabilmente assembleare (art. 2479, comma 4, c.c.).

La distinzione fra “decisione di modifica” e “decisione di compiere un’operazione che comporti una rilevante modificazione” è, peraltro, cruciale per quel che riguarda i diritti particolari dei soci, diritti per i quali la diretta decisione di modifica” richiede l’unanimità dei consensi, salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo.

In tal senso, con riferimento, in particolare, alle modifiche di tali situazioni soggettive dei soci, la causa di recesso in questione sembra poter riguardare non solo i casi di diretta modifica dei diritti particolari decisa a maggioranza, in quanto autorizzata da apposita clausola statutaria in tale senso, bensì anche i casi di modifica indiretta, ovvero di decisione di compiere un’operazione da cui consegua la modifica quale ulteriore effetto.

Una decisione, perciò, assunta comunque a maggioranza, cui il rimedio del recesso soccorre nel senso di offrire comunque tutela al socio pur non ricorrendo i presupposti per attivare il rigoroso sistema di tutela assicurato dalla regola legale dell’unanimità.

Si ritiene, peraltro, necessario interpretare la causa di recesso in questione come applicabile “ai soci che non hanno consentito… al compimento di operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale o una rilevante modificazione dei diritti attribuiti ai soci” anche nel senso del mancato consenso direttamente al compimento (anziché soltanto alla decisione) di simili operazioni; pure, cioè, là dove tali operazioni risultino compiute direttamente dagli amministratori, anziché previamente decise dai soci, e, perciò, come mancato consenso anche all’azione degli amministratori diretta a compiere un’operazione con gli effetti accennati.

Invero, sostenere l’opinione contraria e circoscrivere il recesso al solo dissenso a decisioni dei soci sul compiere simili operazioni, significherebbe rendere quanto meno problematica la tutela del socio a fronte di una sempre possibile violazione della riserva legale ai soci delle decisioni in oggetto, stante il vuoto di disciplina in tema di s.r.l. circa la legittimazione del socio ad impugnare le decisioni degli amministratori. Ovviamente, va poi concretizzato il generico disposto della causa di recesso in esame, precisando il tipo di operazioni tali da comportare una sostanziale modificazione dell’oggetto o una rilevante modificazione dei diritti particolari dei soci.

In relazione alla sostanziale modificazione dell’oggetto, si potrebbe pensare, innanzitutto, all’assunzione di partecipazioni in altre imprese, di cui al vecchio (e nuovo) art. 2361 c.c., ma anche alla cessione di un ramo fondamentale dell’azienda che importi un radicale mutamento della posizione di mercato della società, e in genere a tutte quelle incisive operazioni, per le quali autorevole dottrina rivendica(va) come doverosa quanto alle s.p.a. –  pur ferma la competenza in capo agli amministratori – la richiesta da parte di questi di idonea autorizzazione assembleare, ai sensi dell’art. 2364 n. 4 c.c. prima vigente.

Quanto, poi, alle rilevanti modificazioni dei diritti ex art. 2468, comma 4, c.c., con particolare riferimento ai diritti riguardanti l’amministrazione della società, un esempio di operazione riconducibile alla categoria in esame potrebbe essere individuato nella costituzione di joint ventures con altre imprese, con cui si programmi un coordinamento o una combinazione delle rispettive azioni amministrative tali da ridurre significativamente l’autorità espressa dal socio amministratore nell’esercizio del suo diritto particolare al riguardo. Rimettendo ai soci la decisione sulle operazioni che comportano una sostanziale modifica dell’oggetto sociale o una rilevante modifica dei loro diritti, unitamente all’art. 2479, comma 2, n. 5, c.c., l’art. 2473 ha inteso porre rimedio all’indubbio pregiudizio che derivava – nel sistema precedente – dall’impossibilità di recedere in presenza di modifiche “di fatto” dell’attività sociale, nel senso di un comportamento degli amministratori tale da realizzare programmi economici diversi rispetto all’attività originaria, ponendo in essere attività idonee ad alterare in maniera rilevante le condizioni di rischio dell’investimento.

Il recesso per giusta causa.

Un interessante ambito di confronto tra s.r.l. e s.p.a. chiuse, da una parte, e società personali, dall’altra, è quello relativo all’ammissibilità della previsione statutaria di una causa generale di recesso cioè, in altri termini, l’ammissibilità di un recesso per giusta causa. Invero, sia le s.r.l. che le s.p.a. chiuse sono attualmente accomunate alle società personali (art. 2285 c.c.) quanto all’ipotesi legale di recesso ad nutum da società contratta senza termine di durata. Nelle società contratte a tempo indeterminato, infatti, l’esercizio del diritto di recesso compete al socio in ogni momento, salvo un preavviso di almeno sei mesi, e salvo che lo statuto non preveda un termine maggiore, non superiore, però, ad un anno.

Si ha qui una espressione della sostanziale liberalizzazione dell’istituto del recesso, ma la previsione appare criticabile per la continua e incontrollabile minaccia all’integrità del patrimonio sociale, del resto bene intesa da quanti individuano in essa il pericolo di un sostanziale indebolimento delle imprese costrette ad un forzoso accantonamento di risorse nella prospettiva di subire onerosi e frequenti esborsi per far fronte al recesso dei soci.

La formulazione dell’art. 2473 sembra consentire (ovvero non escludere la validità di) una previsione dell’atto costitutivo che non àncori la facoltà di recesso a circostanze predefinite, ma faccia esclusivamente riferimento alla clausola generale della “giusta causa”, senza ulteriori specificazioni circa gli elementi che integrano tale fattispecie. Quest’ultimo aspetto, in relazione al disposto dall’art. 2473-bis (il quale disciplina la fattispecie dell’esclusione per giusta causa), potrebbe far concludere che anche la clausola di recesso di tal fatta sia consentita solo nel caso in cui vi siano indicate le “specifiche ipotesi” che integrano la “giusta causa”. Ad una più attenta lettura, la diversa ratio sottesa all’esclusione per giusta causa, non consente di porre le due norme sullo stesso piano di indagine. Infatti, la citata clausola statutaria si può ritenere lecita in considerazione di una interpretazione sistematica che consenta di individuare ex ante il criterio (o i criteri) in base al quale la società (ed eventualmente il giudice) può (e deve) valutare se una pretesa di recesso sia da ritenere “giusta”. La peculiarità funzionale del recesso “per giusta causa”, nell’ambito dell’assetto di interessi, assume rilievo giuridico nella disciplina della s.r.l. proprio per tali motivazioni. La causa di recesso in questione, pertanto, assolverebbe ad una funzione, si potrebbe dire, residuale rispetto alle altre “cause di recesso”, nel senso che essa servirebbe quale strumento di composizione e di negoziazione di eventuali divergenze nell’ambito della compagine sociale che sono non prevedibili ex ante, ma rispetto alle quali l’organizzazione societaria avverte l’esigenza di approntare una tecnica di soluzione ulteriore rispetto ai comuni strumenti risarcitori o inibitori dei quali i soci si possono avvalere. Ne consegue che, in un modello in cui i rapporti personali tra soci possono assumere rilievo giuridico sul piano partecipativo, sembra coerente che i soci si vedano riconosciuto il diritto di recedere “per giusta causa”, se ciò sia espressamente previsto dall’atto costitutivo, al verificarsi di vicende endosocietarie (ad esempio la mancata e ingiustificata distribuzione dei dividendi – pur in presenza di utili – per un numero prolungato di esercizi; una condanna al risarcimento dei danni a carico del socio di maggioranza ex art. 2476, comma 7, c.c.; la revoca senza giusta causa dalla carica di amministratore-socio o, comunque, espressione di una parte della compagine) le quali rivelino essersi consumata una irreparabile lacerazione di quel particolare “vincolo fiduciario”, anche contemplando un profilo sanzionatorio rispetto ai comportamenti irregolari dei gestori o dei soci sovrani che risulti, nella fattispecie concreta, essere stato un elemento costitutivo dell’organizzazione societaria (e dunque un fattore determinante per l’investimento nella società).

Anzi, proprio il verificarsi di vicende implicanti una modificazione dell’investimento e che consentono un disinvenstimento anticipato, si pone, da sè, come causa sufficiente a giustificare l’ammissibilità del recesso per giusta causa. Al contrario, una giusta causa attinente ad eventi esterni alla società, ovvero relativa a condizioni meramente soggettive dei soci, non sembrerebbe compatibile con la fattispecia capitalistica.

Il diritto di recesso ad nutum.

Rispetto alla disciplina dettata per la s.p.a. (si noti, chiusa, stante il limite posto dall’art. 2437 comma 3, c.c. per le s.p.a. quotate), la lettera dell’art. 2473, comma 1, c.c. prescrive sia l’atto costitutivo a indicare “quando il socio può recedere”.

Una così ampia formulazione, ha portato parte della dottrina ad una ricostruzione dell’istituto informata ad una accentuata libertà organizzativa. Tuttavia, alcuni hanno osservato che la formulazione letterale indurrebbe a propendere per l’invalidità, piuttosto che per la validità, del recesso ad nutum. Ciò in quanto la disposizione che richiede la determinazione del “quando” si possa recedere si dovrebbe interpretare come l’imposizione di un obbligo di specificazione che, si continua, non potrebbe ritenersi soddisfatto attraverso il rinvio al mero arbitrio del soggetto recedente. In altri e più diretti termini, rispetto all’interrogativo “quando?”, la risposta “in qualsiasi momento” equivarrebbe, per la sua indeterminatezza, ad un’evasione dalla domanda. In realtà, tale conclusione non appare fondata: la norma non esclude a priori l’ammissibilità del recesso ad nutum nella s.r.l. perché, restando aderenti al dato linguistico, l’avverbio “quando” richiede, in assenza di altre indicazioni, di fare riferimento, quanto meno, al momento di una determinata decisione, ma non necessariamente alle condizioni in presenza delle quali la decisione può essere assunta.

Dalla disposizione in esame, dunque, non si potrebbe desumere che non sia consentito recedere senza motivazione: in realtà, ciò potrebbe significare che lo statuto debba indicare, piuttosto, le modalità temporali con cui si può recedere ad nutum. La portata prescrittiva della disposizione va apprezzata in relazione a quanto è chiaramente disposto all’art. 2437: mentre in questo caso il legislatore ha richiesto espressamente che l’eventuale clausola statutaria sia ancorata ad una causa predefinita, con l’art. 2473 il legislatore ha voluto optare per una formulazione che lasciasse aperta la strada persino alla previsione statutaria di un diritto di recesso astratto.

La possibilità di recesso ad nutum, proprio per la s.r.l., soprattutto in caso di circolazione esclusa o limitata delle quote, appare ulteriormente giustificata in considerazione della tendenziale assenza di un mercato delle partecipazioni. Sarà da verificare se la maggiore rilevanza tendenzialmente assegnata al socio nella nuova s.r.l. possa giustificare, anche in quest’ultima, una previsione generale di facoltà di recesso per giusta causa, accentuando, così, ulteriormente la vicinanza al regime del recesso nella società personale. Tale possibilità non sembra possa ammettersi per le s.p.a. chiuse, per le quali la nuova disciplina consente allo statuto di prevedere ulteriori cause di recesso (art. 2437, comma 4, c.c.). Soluzione, questa, in sintonia con il dato letterale ed, inoltre, conforme al principio generale della tendenziale rilevanza dell’azione, anziché del socio, cui è improntata la disciplina delle s.p.a., anche se chiuse. Tale soluzione ben si informerebbe al principio della “rilevanza del socio”. In tal senso, stringente è il collegamento con il regime delle società personali: recesso ad nutum da società a tempo indeterminato; recesso per giusta causa in tutti gli altri casi.

L’abuso del diritto di recesso ad nutum

Ammessa la possibilità nelle s.r.l. di una clausola statutaria che permetta di recedere ad nutum, ulteriore questione è quella della ammissibilità di un controllo da parte del giudice sulle sue modalità di esercizio.

Infatti, se il nostro ordinamento non sembra riconoscere valore generale alla figura dell’“abuso del diritto”, perlatro, non mancano specifici dati normativi che, in contesti diversi, consentono il ricorso alla medesima (v. artt. 833, 1175, 1375, 2598, n. 3, c.c.). Recentemente, giurisprudenza e dottrina hanno giustamente sottolineato, seppur con argomentazioni e prospettive diverse, che l’operatività del precetto di correttezza, nei rapporti che scandiscono la vita dell’organizzazione societaria, sembra potersi delineare anche con riguardo al nuovo modello di s.r.l. Ad una attenta analisi, anzi, l’adozione per la s.r.l. di una disciplina che riconosce il carattere personale della partecipazione all’organizzazione sociale, e accentua lo spazio lasciato all’autonomia statutaria, sembra amplificare l’importanza della correttezza quale parametro di valutazione di carattere “residuale” che, per quanto imponga al giudice/interprete un’analisi delle circostanze del caso concreto, quanto mai difficile e incerta negli esiti, può, tuttavia, rivelarsi in taluni casi l’unico strumento idoneo ad evitare il perpetrarsi di abusi che possano scaturire dall’incompletezza del contratto sociale.

Deve, perciò, ritenersi sussistente un vincolo di correttezza anche nei rapporti societari, ed occorre ricordare come la giurisprudenza di legittimità riconosca che, persino per un diritto il cui esercizio è lasciato alla decisione arbitraria del titolare, è ipotizzabile una valutazione del suo esercizio ex bona fide.

Riconoscere, in sostanza, la possibilità di un sindacato giurisdizionale sulle modalità di un diritto esercitabile ad nutum, non significa trasformare il medesimo in un diritto “causale”, ma solamente consentire che si possa dimostrare in giudizio che l’esercizio di tale diritto sia stato direttamente finalizzato alla lesione dell’interesse della controparte e sia, pertanto, qualificabile come illecito per violazione del principio di correttezza che deve presiedere al comportamento delle parti di un (qualsiasi) rapporto obbligatorio (art. 1175 c.c.). Non viene meno, così, l’assoluta discrezionalità che caratterizza i diritti esercitabili senza alcun obbligo di motivazione, sussistendo un onere della prova per il soggetto passivo del diritto esercitato circa la violazione del precetto di correttezza. Le considerazioni appena svolte inducono a concludere che anche il recesso ad nutum da una s.r.l. possa essere giudicato abusivo laddove sia provato che il medesimo sia stato esercitato al solo fine di danneggiare la società, così violando il vincolo di correttezza che presiede ogni comportamento sociale.

Ulteriore e distinto problema sarà quallo relativo ai rimedi, inibitorio ovvero risarcitorio, ai quali la società potrà ricorrere. Non pare ammissibile una situazione in cui la società si opponga alla dichiarazione di recesso eccependo la sua nullità per illiceità dei motivi ex artt. 1324 e 1345 c.c. Infatti, la violazione del vincolo di correttezza che presiede ai rapporti sociali non può costituire un “motivo illecito” ex art. 1345 poiché non in contrasto con norme imperative poste a tutela di interessi generali, salvo che non si ritenga che il vincolo di correttezza sia posto direttamente a tutela di interessi che trascendono dalle posizioni dei soci in quanto tali.

In proposito, senza entrare nel merito della contrapposizione tra teorie istituzionaliste e teorie contrattualiste, ci si limita qui a rilevare che, se è vero che la violazione del vincolo di correttezza può avere ripercussioni negative anche sugli interessi di soggetti terzi, quali i creditori e i lavoratori dipendenti della società (si pensi ad esempio al caso in cui il recesso conduca allo scioglimento della società), occorre nondimeno osservare che tale esito è del tutto eventuale e strettamente dipendente dalle circostanze del caso concreto. Sembra, dunque, corretto asserire che il vincolo di correttezza nei rapporti sociali tutela solo in via indiretta le ragioni dei terzi che interagiscono con la società.

L’eventuale carattere abusivo del recesso ad nutum potrebbe, al limite, legittimare il rifiuto della società di procedere alla liquidazione della partecipazione del socio recedente. Infatti, se si conviene con l’impostazione secondo la quale il “principio di conformità” sancito dall’art. 2377, comma 2, c.c. (e ora riprodotto anche nel novellato art. 2388, comma 4, c.c.) è espressione di un principio generale dell’ordinamento societario in base al quale è la rispondenza del singolo comportamento con la regola portata dalla legge e dall’atto costitutivo a determinare la validità nella sfera societaria di detto comportamento, sembra corretto concludere che è invalido, in quanto non idoneo a superare il giudizio di conformità, il recesso ad nutum che sia stato esercitato in violazione del vincolo di correttezza. Ciò in quanto, come è stato autorevolmente rilevato, il principio di conformità (e il parallelo vizio di non conformità), inteso come principio di positivo adeguamento del procedimento alle regole legali o convenzionali di organizzazione dello svolgimento di un’attività comune, sembra pienamente idoneo a ricomprendere e sanzionare, oltre alle ipotesi di non conformità ad espresse disposizioni legali e convenzionali, le ipotesi di non conformità ai principi generali dell’organizzazione dell’attività comune, ipotesi tra le quali certamente figura il caso in cui il socio recede esclusivamente per danneggiare la società.

Muovendo dall’assunto dell’invalidità per non conformità con il principio generale di correttezza del recesso ad nutum esercitato in maniera abusiva, si potrebbe allora sostenere che la società possa legittimamente rifiutarsi di procedere alla liquidazione della partecipazione del socio, così come – nella dinamica dello scambio – il legislatore consente che l’annullabilità sia “opposta dalla parte convenuta per l’esecuzione del contratto” (art. 1442, comma 4, c.c.).

Ciò non esclude che la società, nell’ipotesi in cui i fatti che rendono abusivo il recesso ad nutum emergano successivamente alla liquidazione della quota, possa comunque denunziare il carattere abusivo dello stesso ponendolo a fondamento di una richiesta di risarcimento del danno dalla medesima subito.

Termini e modalità di esercizio del recesso nella s.r.l.

Forma e termini per l’esercizio del diritto sono rimessi all’autonomia contrattuale: nella regolamentazione legale dell’istituto, e diversamente da quanto previsto dall’art. 2437 bis c.c. manca, infatti, qualsiasi indicazione in merito. Vero è che, in mancanza di indicazioni in proposito anche nell’atto costitutivo della s.r.l., sorge il problema dell’applicazione analogica della disciplina dettata dall’art. 2437 bis c.c., ovvero rimettersi ai principi dettati in tema di società personale. Tale ultima soluzione avrebbe il pregio di svincolare il recesso dal rispetto di forme particolari avendo, tuttavia, come risvolto negativo, quello della necessità di una comunicazione personale a tutti i soci. Parte della dottrina suggerisce di attingere analogicamente, per integrare eventuali lacune del regime legale e convenzionale, alla disciplina delle società personali oppure delle società azionarie, a seconda della strutturazione personalistica oppure capitalistica della singola s.r.l. in questione (stante l’attuale notevole elasticità del nuovo modello di s.r.l.). Altri, invece, sostengono che, in difetto di regole convenzionali il socio potrebbe legittimamente esercitare la comunicazione nelle forme che riterrà più opportune. La maggior parte della dottrina, peraltro, propende per l’applicazione analogica della disciplina dei termini e modalità di recesso dettata per la s.p.a. dall’art. 2437 bis c.c., oltretutto non particolarmente onerosa, prevedendo solo la spedizione di una lettera raccomandata entro 15 giorni all’iscrizione della decisione nel registro delle imprese (o dalla conoscenza del fatto che legittima il recesso). Con particolare riferimento al termine di esercizio del diritto di recesso, peraltro, v’è chi ritiene applicabile analogicamente l’art. 2437 bis solo limitatamente ad alcuni principi che sembrano avere portata generale, con esclusione dei termini previsti dall’articolo medesimo ove dalla loro inosservanza si vogliano far derivare effetti di decadenza per il socio recedente.

In particolare, in mancanza di previsioni statutarie, tale dottrina ritiene che potrà assumersi come criterio generale quello che fa coincidere la data di esercizio del recesso con la data di spedizione della dichiarazione alla società, così come previsto dal 1° comma nel nuovo art. 2437 bis, stante la chiara volontà del legislatore (confermata dalla modifica apportata al testo originario nel corso dei lavori preparatori) di attribuire rilievo alla data di spedizione e non già a quella di ricezione, come invece avveniva in precedenza in relazione alla diversa disposizione contenuta nel 2° comma dell’art. 2437 c.c. Per l’ipotesi prevista dall’art. 34, ultimo comma, d.lgs. n. 5/2003, relativa alla introduzione o soppressione di clausole compromissorie (tuttavia, solo per le società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio), il termine è fissato in 90 giorni.

Tale termine, che pur in assenza di specifica previsione dovrebbe farsi decorrere dalla iscrizione della delibera nel libro delle decisioni dei soci, è molto più lungo rispetto a quello previsto dall’art. 2437 bis in materia di recesso nelle s.p.a., e sembra essere stato modellato sul termine di impugnazione delle decisioni dei soci previsti dall’art. 2479 ter. Si è osservato che, al di là dell’evidente difetto di coordinamento tra i due decreti legislativi, l’indicazione contenuta nel citato art. 34, offra lo spunto per ritenere che, in mancanza di previsioni statutarie, il recesso possa essere esercitato entro il termine di impugnazione della delibera che lo rende legittimo.

Il problema resta invece aperto per le ipotesi di recesso non necessariamente connesse all’adozione di una delibera, ipotesi certamente non residuali, tenuto conto in particolare dell’ampia possibilità di prevedere in sede costitutiva cause di recesso convenzionali. Seguendo la dottrina che argomentava dal principio della subordinazione del recesso alla clausola rebus sic stantibus, nonché dalla revocabilità della delibera di liquidazione della società, l’ultimo comma dell’art. 2473 risolve la questione della sorte della comunicazione del socio nell’ipotesi di revoca (ma non anche di annullamento) della delibera che ha legittimato l’esercizio del diritto e di scioglimento volontario dell’ente, dichiarandone l’inefficacia. La norma, oltre a non fissare il limite temporale entro il quale la delibera possa essere revocata, non risolve il problema della posizione del socio a seguito della dichiarazione di recesso, né chiarisce se lo stato di liquidazione precluda lo scioglimento volontario del vincolo sociale e, inoltre, se l’inefficacia della dichiarazione di recesso operi anche nelle ipotesi di scioglimento coattivo dell’ente.

Risoluzione dell’efficacia: revoca della delibera e scioglimento della società.

L’ultimo comma dell’art. 2473 preclude la possibilità di esercitare il recesso, e lo rende privo di effetti ove già esercitato, se la società revoca la delibera che lo legittima ovvero viene deliberato lo scioglimento della società. Si tratta di conseguenze intuitive: nel primo caso è lo stesso presupposto del recesso che viene rimosso, nel secondo caso sono invece gli altri soci che decidono di liquidare la società nel suo complesso, la qual cosa fa venire meno l’interesse del recedente al diritto alla liquidazione separata, anticipata ed individuale della sua quota.

La revoca della delibera sostanzialmente costituisce lo strumento a disposizione della maggioranza per ovviare a conseguenze non previste, o non sufficientemente valutate, nei loro effetti di ricaduta sul patrimonio sociale o in genere sugli assetti societari. Alternativa alla revoca della delibera, lo scioglimento della società consente alla maggioranza di rinunciare alle proprie scelte economiche e alle proprie strategie di sviluppo e pervenire al disinvestimento collettivo. Tenuto conto dell’ampliamento delle cause di recesso, non tutte connesse all’adozione di una delibera, la possibilità di rendere inefficace la dichiarazione di recesso mediante lo scioglimento della società costituisce una extrema ratio, ma sarà assolutamente opportuna, soprattutto nel caso in cui si ritenga non più conveniente la continuazione dell’impresa collettiva, vuoi per la qualità vuoi per il numero dei soci recedenti.

Alla luce del dettato normativo appare ammissibile anche una volontà di revoca da parte del socio recedente rispetto ad una dichiarazione di recesso già effettuata. Sebbene tale potere non venga espressamente concesso dalla norma, il silenzio non può considerarsi come divieto. Tuttavia, la “revoca della dichiarazione di recesso”, in contrapposizione all’interesse della società, non potrebbe essere efficacemente esercitata laddove siano iniziati gli atti conseguenti al recesso stesso.

Infine, anche l’annullamento della delibera che ha dato causa al recesso provocherebbe una perdita di efficacia dello stesso, sempre che la pronuncia (giudiziale ovvero arbitrale) non sia successiva all’avvenuta liquidazione della quota.

I diritti patrimoniali del socio recedente

L’esercizio del recesso attribuisce al socio recedente il diritto di ottenere il rimborso della partecipazione in proporzione del patrimonio sociale, ma la liquidazione non avviene in base al patrimonio netto risultante dal bilancio dell’ultimo esercizio (sia pure non approvato), come in passato, bensì tenendo conto del valore di mercato della quota al momento della dichiarazione di recesso.

In particolare, il preciso riferimento alla dichiarazione di recesso consente di non tener conto delle perdite verificatesi successivamente, ovviandosi in tal modo a sottovalutazioni artificiose penalizzanti per il socio recedente; il bilancio, che avrà carattere straordinario, perché non coincidente con la data di chiusura dell’ultimo esercizio, dovrà essere redatto con riferimento alla data della dichiarazione di recesso, tenendo anche conto dell’avviamento ed, in genere, di tutti gli elementi del patrimonio, in quanto la quota deve essere valutata secondo il suo valore di mercato. La norma indica ora chiaramente le modalità di rimborso della partecipazione al recedente, ordinandole nel tentativo di evitare la riduzione del capitale.

In mancanza (o in alternativa all’impiego) di liquidità – conseguibili anche mediante liquidazione del patrimonio sociale non strumentale all’esercizio dell’attività sociale, o ricorso al prestito bancario – o di utili distribuibili – la quota del recedente potrà essere offerta in opzione agli altri soci, proporzionalmente alle rispettive partecipazioni. La regola della subordinazione della vendita a terzi alla mancanza di offerte d’acquisto “interne”, analoga a quella contenuta nella disciplina relativa al socio moroso (art. 2466 c.c.), è coerente con carattere “chiuso” del modello in esame; e l’inciso secondo il quale l’eventuale terzo acquirente deve essere “concordemente individuato dai soci” appare invece pleonastico, salvo che lo si interpreti nel senso di legittimare la vendita della partecipazione a estranei anche in presenza di clausole contrattuali che limitano o escludono il trasferimento delle partecipazioni a terzi: il che sarebbe peraltro conforme al tentativo di evitare la riduzione del capitale.

L’ulteriore previsione secondo la quale “il rimborso è effettuato utilizzando riserve disponibili o, corrispondentemente, riducendo il capitale” non è chiara, atteso il divieto assoluto di acquisto di partecipazioni proprie enunciato nell’art. 2474 c.c. Le due norme andrebbero pertanto coordinate prevedendo una deroga al citato divieto: al contrario, la riduzione del capitale – benché prevista come ipotesi residuale – è inevitabile ogni volta che il rimborso non possa avvenire mediante riscatto della quota da parte dei soci o di terzi. D’altra parte, lo scopo del divieto – giustificato nel sistema previgente con la necessità di impedire una sorta di recesso mascherato – non avrebbe più ragion d’essere nel sistema attuale. Disponendo l’applicazione dell’art. 2482 c.c. all’ipotesi dell’eventuale riduzione del capitale nominale, il legislatore riconosce ai creditori sociali il diritto di opporsi al rimborso della quota al socio uscente e, in caso di accoglimento dell’opposizione, di essergli preferiti nel soddisfacimento.

La novità dell’istituto è rappresentata dagli effetti dell’accoglimento dell’opposizione dei creditori alla riduzione del capitale, laddove, nella vigenza della disciplina precedente, la dottrina si divideva tra la tesi della preclusione dell’eseguibilità della delibera, del sacrificio del diritto di recesso e contestuale asservimento del socio al mutamento “dissentito”, dell’insolvenza della società nei confronti del receduto. Oggi, invece, la società deve essere posta in liquidazione. La Relazione giustifica la scelta in considerazione della presunzione assoluta di inefficienza della impresa cui nessuno, soci compresi, ha inteso fornire i mezzi finanziari idonei a consentirne la sopravvivenza. Si è osservato, peraltro, che tale previsione avrebbe almeno potuto essere limitata ai casi legali di esercizio del diritto, impedendo l’operatività del recesso convenzionale nei casi in cui il rimborso della quota richieda la riduzione del capitale, analogamente, peraltro, a quanto previsto in tema di esclusione dall’art. 2473 bis c.c.

Il diritto di recesso nei gruppi di società. (art. 2497 quater c.c.)

Un accenno merita la disciplina del recesso nei gruppi di società. Il legislatore ha previsto specifiche ipotesi in cui i soci delle società soggette ad attività di direzione e coordinamento sono legittimati ad esercitare il diritto di recesso, rinviando per le modalità e i termini di esercizio di tale diritto alle disposizioni previste per le società per azioni e alle disposizioni per le società a responsabilità limitata.

Al di là dei generali problemi applicativi, la dottrina ha sollevato alcune questioni di carattere pratico ed interpretativo. Infatti, nel caso in cui la società o l'ente che esercita attività di direzione e coordinamento si trasformi, mutando il proprio scopo, o modifichi il proprio oggetto sociale in modo tale da provocare una sensibile alterazione nell'esercizio della nuova attività in relazione alle condizioni economiche e patrimoniali della società controllata, occorrerà stabilire se il diritto di recesso del socio di società soggetta ad attività di direzione e coordinamento sorga immediatamente, a seguito di tali deliberazioni, oppure solo quando è possibile accertare le conseguenze negative sul patrimonio e sul reddito della società assoggettata a direzione e coordinamento. Inoltre, per quanto riguarda l'ipotesi di recesso in caso di inizio o cessazione dell'attività di direzione e coordinamento, non è semplice definire il momento dal quale far decorrere il termine entro cui il socio può esercitare il diritto di recesso, in quanto il recesso trae origine non da una deliberazione, ma da un fatto concreto. Occorrerà, pertanto, individuare con esattezza il momento di inizio o cessazione dell'attività di direzione e coordinamento e verificare, altresì, la sussistenza delle altre condizioni indicate dalla legge: a) non si deve trattare di una società con azioni quotate in mercati regolamentati; b) l'inizio o la cessazione dell’attività non deve provocare un’alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento della società controllata; c) non deve essere promossa un’offerta pubblica di acquisto.


Considerazioni conclusive

In ultima analisi, il diritto di recesso si inserisce nel sistema delle società quale espressione di autonomia negoziale e quale strumento di composizione e negoziazione, cioè di bargaining chip, dei conflitti tra soci, allorquando l’unico ambito concreto di circolazione della partecipazione risulta essere quello endosocietario. Un mezzo che, in considerazione della tutela dell’efficienza e dell’integrità patrimoniale della società, prevede lo scioglimento della stessa nel caso in cui non si possa liquidare il recedente: in questa ipotesi, il socio avrà diritto alla quota di liquidazione (anzichè alla liquidazione della quota).

Il diritto di recesso costituisce una garanzia di disinvestimento della partecipazione, laddove la volontà di liquidare (ed il valore della quota) non è lasciata all’arbitrio di un sistema chiuso ad un mercato esterno (in cui, ulteriormente, la circolazione della partecipazione può essere limitata o, addirittura, esclusa, sia inter vivos sia mortis causa) e si ridurrebbe a mere trattative private: con il diritto di recesso, il disinvestimento prescinde dalle suddette trattative, consentendo ed incentivando un investimento da parte del socio.

          Aurelio Tricoli


Normativa:

Legge 3 ottobre 2001 n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario)

D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6 (Riforma organica della disciplina delle società di capitali e cooperative)

Art. 34, d.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario: clausola compromissoria)

Art. 1175 c.c. (Comportamento secondo correttezza)

Art. 1372 c.c. (Efficacia del contratto)

Art. 1373 c.c. (Recesso unilaterale nei contratti in generale)

Art. 2285 c.c. (Recesso nelle società personali)

Art. 2355 bis c.c. (Limiti alla circolazione delle azioni)

Artt. 2437-2437 quinquies c.c. (Disciplina del diritto di recesso nelle s.p.a.)

Art. 2468, comma 4, c.c.  (Modifica dei diritti particolari e recesso)

Art. 2469 c.c. (Trasferimento delle partecipazioni nelle s.r.l.)

Art. 2473 c.c. (Diritto di recesso nella s.r.l.)

Art. 2497 quater c.c. (Recesso nei gruppi di società)

Dottrina:

Per un inquadramento generale delle problematiche si rinvia a B. Libonati, Diritto commerciale. Impresa e società, Milano, 2005; G. Ferri, Manuale di diritto commerciale, Torino, 2006; Aa.Vv., Diritto delle società. Manuale breve, Milano, 2006; C. Angelici, La riforma delle società di capitali. Lezioni di diritto commerciale, Padova, 2003; M. Sandulli-V. Santoro (a cura di), La riforma delle società, Torino, 2003.

Sulla società a responsabilità limitata, G.C.M. Rivolta, La società a responsabilità limitata, nel Trattato di diritto civile e commerciale diretto da A. Cicu e F. Messineo e continuato da L. Mengoni, XXX, Milano, 1982; G. Santini, Della società a responsabilità limitata, Art. 2472-2497 bis, nel Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna, 1992; G. Zanarone, La società a responsabilità limitata, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. dell’econ., diretto da F. Galgano, VII, Padova, 1975; V. Santoro, (a cura di), La nuova disciplina della società a responsabilità limitata, Milano, 2003; G. Zanarone, Introduzione alla nuova società a responsabilità limitata, in Riv. soc., 2003; Associazione D. Preite, Il nuovo diritto delle società, a cura di G. Olivieri, G. Presti, F. Vella, Bologna, 2003; C. Caccavale, F. Magliulo, M. Maltoni, F. Tassinari, La riforma della società a responsabilità limitata, Milano, 2003.

Nel vigore del codice civile del 1942, la tematica del recesso è stata oggetto di approfondita analisi: in generale, v. D. Galletti, Il recesso nelle società di capitali, Milano, 2000, che si caratterizza per l’adozione di una prospettiva orientata in senso organizzativo. Sul tema, inoltre, v. G. Grippo, Modificazioni dell’atto costitutivo: recesso e variazioni del capitale sociale, in Giur. comm., 1975, I, p. 100; Id., Il recesso del socio, in Tratt. soc. per az. diretto da G. E. Colombo e G. B. Portale, 6*, Torino, 1993, p. 133 ss.; G. C. Frè, Società per azioni, in Comm. del cod. civ., sub art. 2437, cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, 1982, p. 755 ss.; G. Presti, Questioni in tema di recesso nelle società di capitali, in Giur. comm., 1982, I, p. 100 ss.

Il tema del recesso del socio nelle società di capitali è stato ampiamente dibattuto in dottrina: tra gli altri, si rinvia, dopo la riforma del 2003, a L. Delli Priscoli, L’uscita volontaria del socio dalle società di capitali, Milano, 2005; V. Salafia, Il recesso dei soci nelle società di capitali, in Società, 2006, p. 417; C. Angelici, La tutela delle minoranze, in Società, 1999, p. 787; G. Ferri jr., Fattispecie societaria e strumenti finanziari, in Profili patrimoniali e finanziari della riforma, Atti del convegno di Cassino, 9 ottobre 2003, a cura di C. Montagnani, Milano, 2004; C. Granelli, Il recesso del socio nelle società di capitali alla luce della riforma societaria, in Società, 2004, p. 143; L. Lanzio, Il recesso del socio di s.r.l., in Società, 2004; M. Maltoni, Il recesso e l’esclusione nella nuova società a responsabilità limitata, in Riv. not., 2003, p. 311; M. Perrino, La “rilevanza del socio” nella s.r.l.: recesso, diritti particolari, esclusione, in Giur. comm., 2003, p. 810 ss.; R. Rosapepe, Appunti su alcuni aspetti della nuova disciplina della partecipazione in s.r.l., in Giur. Comm., 2003, p. 479 ss.; R. Rordorf, Il recesso del socio di società di capitali: prime osservazioni dopo la riforma, in Società, 2003, p. 923 ss.; S. Cappiello, Recesso ad nutum e recesso per giusta causa nelle s.p.a. e nelle s.r.l., in Riv. dir. comm., 2004, p. 497; M. Rossi, Il diritto di recesso dalla società per azioni prima della riforma del diritto societario (Art. 2437 c.c.), ivi, 2004, p. 549; M. Stella Richter jr., Diritto di recesso e autonomia statutaria, ivi, 2004, p. 389; A. Toffoletto, L’autonomia privata e i suoi limiti nel recesso convenzionale del socio di società di capitali, ivi, 2004, p. 347; A. Daccò, Il diritto di recesso: limiti dell’istituto e limiti all’autonomia privata nella società a responsabilità limitata, ivi, 2004, p. 471; M. Notari, Il recesso per esclusione dalla quotazione nel nuovo art. 2437-quinquies, ivi, p. 529; P. Spada, Classi e tipi di società dopo la riforma organica (guardando alla “nuova” società a responsabilità limitata), in Riv. dir. civ., 2003, p. 491 ss.

In una prospettiva finanziaria dell’investimento societario (recesso come “diritto al disinvestimento, anticipato ed individuale”), per tutti G. Ferri jr., Investimento e conferimento, Milano, 2001, p. 154 ss.; Id., Finanziamento dell’impresa e partecipazione sociale, in Riv. dir. comm., 2002, p. 119 ss.; A. Paciello, La struttura finanziaria della società per azioni e tipologia dei titoli rappresentativi del finanziamento, in Riv. dir. comm., 2002, p. 155 ss.; nello stesso senso, A. M. Dentamaro, Il diritto al disinvestimento nelle società per azioni, in Riv. dir. comm., 2004, p. 441 ss.; Id., Il diritto dell’azionista al disinvestimento. Alienazione e recesso tra riforma del diritto societario e testo unico della finanza, in La riforma delle società di capitali. Aziendalisti e giuristi a confronto, a cura di N. Abriani e T. Onesti, Milano, 2004, p. 331-358. Sia consentito rinviare, inoltre, a A. Tricoli, Sull’ammissibilità di quote di s.r.l. dotate di particolari diritti, in Riv. dir. comm., 2005, p. 1029 ss.

Per l’eterogeneità dei rimedi sottesi al disinvestimento, seppur allora in una prospettiva de jure condendo, v. S. Cappiello, Prospettive di riforma del diritto di recesso dalle società di capitali: fondamento e limiti dell’autonomia statutaria, in Riv. dir. comm., 2001, I, p. 260.

Per la natura tassativa delle ipotesi di recesso nella disciplina del 1942, cfr. G. Cottino, Diritto commerciale, I, 2, Padova, 1987, p. 731; G. Pellizzi, Sui poteri indisponibili della maggioranza assembleare, in Riv. dir. civ., 1967, p. 202; F. Galgano, Le società per azioni, Padova, 1984, p. 367. In senso opposto, ossia consentendo all’atto costitutivo di prevedere specifiche ipotesi di recesso, v. G. Ferri., Manuale di diritto commerciale, Torino, 1988, p. 468; G. Tantini, Le modificazioni dell’atto costitutivo nella società per azioni, Padova, 1973, p. 160; F. Ferrara jr. e F. Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, 2001, p. 567.

L’abuso del diritto è stato affrontato, tra gli altri, da F. Galgano, Abuso del diritto: l’arbitrario recesso ad nutum della banca, in Contr. e impr., 1998, p. 23; U. Morera, Il fido bancario, Milano, 1998, p. 217; G. Santoro, L’abuso del diritto di recesso ad nutum, in Contr. e impr., 1986, p. 766.

Sulle problematiche inerenti alla liquidazione della quota del recedente, prima del 2003, da una parte G.B. Portale, In tema di nullità di bilancio di esercizio per la determinazione della quota del socio che recede ai sensi dell’art. 2494 e 2437, in Foro it., 1972, 92; G. Ferri, Recesso del socio e speciali ragioni di deroga ai criteri legali di valutazione nel bilancio di esercizio, in Riv. dir. comm., 1975, II, p. 136, sostenevano che al bilancio dovessero apportate tutte le modifiche necessarie per rendere la valutazione della quota più vicina al reale; dall’altra, critiche in tal senso venivano mosse da P.G. Jaeger, Dell’art. 2425 ultimo cpv. e delle ragioni speciali, in Giur. comm., 1977, I, p. 901; L. De Angelis, Sui criteri di valutazione delle azioni del socio recedente, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1977, p. 1251; B. Libonati, Bilancio delle società, in Noviss. dig. it., Appendice, Torino, 1980, p. 8. Non è mancato chi ha proposto la redazione di un bilancio straordinario: Adami, Rimborso di azioni espropriate e art. 2437 c.c.: profili di incostituzionalità, in Giur. comm., 1982, II, 519.

In tema di s.r.l., la nuova disposizione (art. 2473 c.c.), che corrisponde, in sostanza, al previgente art. 2494 c.c., non figura più, come in precedenza, nella Sezione relativa alle modificazioni dell’atto costitutivo (Sezione V, Capo VII, Titolo V, Libro V del c.c.), ma è stata inserita tra le norme in materia di conferimento e di quote (“Dei conferimenti e delle quote”: Sezione II, Capo VII, Titolo V, Libro V del c.c.): in tale rinnovata ottica, si è voluto sottolineare il carattere primario del diritto di recesso, coerentemente sul piano logico e sistematico, potendo operare lo stesso anche in ipotesi non necessariamente collegate a modificazioni dell’atto costitutivo.

Giurisprudenza

La dottrina e la giurisprudenza dominante nel sistema ante riforma ritenevano inammissibile l’introduzione di cause statutarie di recesso: cfr. Trib. Ancona 5 dic. 1977, in Foro pad., 1978, I, p. 59; Cass. 28 ott. 1980 n. 5790, in Giur. it., 1981, I, 1, p. 432; anche in Foro it., 1981, I, 747; in Giust. civ., 1981, I, 1736, con nota di G. Iudica; App. Milano 12 marzo 2002, con nota di M. Rossi, Sulla legittimazione all’esercizio del diritto di recesso dalla società per azioni, in Riv. dir. comm., 2003, p. 143; anche il Giur. it., 2002, 2103; Trib. Milano 9 settembre 1991, con nota di G. Niccolini, Recesso per giusta causa del socio di società di capitali?, in Riv. dir. comm., 1992, II, p. 71.

Aderiva ad una visione sostanzialmente restrittiva di legittimazione, Cass. 29 ott. 1971 n. 3050, in Giur. it., 1972, I, 1, p. 852; 13 luglio 1972 n. 2364, in Rep. Foro it., 1972, voce Società, 2747, p. 172-173.

In tema di titolarità del diritto di recesso, v. Cass. 12 luglio 2002 n. 10144, in Foro it., 2003, I, 1194; anche in Giur. comm., 2004, II, p. 39 con nota di P. Menti, Il recesso da s.p.a. tra art. 2353, surrogazione civile e sostituzione fallimentare. Cfr., inoltre, Cass. 2 giugno 1983 n. 3770, in Giur. comm., 1985, II, p. 39; Trib. Torino 26 gennaio 1999, in Giur. it., 1999, p. 2350.

Più recentemente, Cass. 19 marzo 2004 n. 5548, in Società, 2004, p. 1364, con nota di L. De Angelis.

Critiche al riferimento all’ultimo bilancio ai fini della liquidazione della quota del recedente, Cass. 10 sett. 1974 n. 2454, in Riv. dir. comm., 1975, II, 39.

In tema di abuso, v. Cass. 11 febbraio 1980, n. 960, in Giust. Civ., 1980, p. 1947; Cass., 21 maggio 1997, n. 4538, in Banca borsa tit. cred., 1997, II, p. 648; Cass., 14 luglio 2000, n. 9321, in Corr. giur., 2000, p. 1479; Cass., 22 novembre 2000, n. 15066, in Banca borsa tit. cred., 2002, II, 109, con commento di M. Spada, A proposito del recesso ad nutum dall’apertura di credito. Brevi note.