Nel corso degli anni l’evoluzione della scienza medica ha consentito di scoprire e definire sempre meglio diverse patologie causate dal contagio con sangue infetto.
È, in particolare, il caso dell’epatite B, dell’epatite C e dell’HIV. La loro scoperta ufficiale risale alla fine degli anni ’70, ma già da oltre un decennio la comunità scientifica aveva compreso come il sangue costituisse un veicolo di trasmissione di malattie.

Nella letteratura medica, addirittura, si ritiene che già negli anni ‘30 vi fosse piena consapevolezza della idoneità del sangue a veicolare infezioni[1].
La giurisprudenza, a sua volta, ha recepito questi studi affermando che la Legge del 1958 è la norma primaria del neminem leadere, da cui ricavare l’esistenza di doveri in capo al Ministero della Sanità e alle strutture ospedaliere[2].
Questa ricostruzione temporale è molto importante poiché non tutti i Tribunali concordano in modo unanime su quale sia il momento da cui ritenere responsabili il Ministero della Sanità e le strutture ospedaliere.

Ad ogni buon conto, è molto importante tener presente che questi due soggetti, dinanzi ad una richiesta di risarcimento danni, rispondono in modo diverso. Infatti, il Ministero è tenuto a vigilare sulla corretta somministrazione di sangue e derivati (responsabilità extracontrattuale)[3], mentre gli ospedali sono tenuti a rispettare gli obblighi imposti dalla normativa vigente quali quelli relativi all'identificabilità del donatore e del centro trasfusionale di provenienza (tracciabilità del sangue) e agli obblighi più generali di cui all'art. 1176 c.c. nell'esecuzione delle prestazioni (responsabilità contrattuale)[4].

Da questa differenza scaturiscono diverse conseguenze sul piano processuale.
Infatti, quando si parla di responsabilità extracontrattuale (quella del Ministero)[5] l’azione è soggetta ad un termine di prescrizione di cinque anni ed è necessario fornire la prova che la malattia contratta derivi effettivamente dalla trasfusione indicata.
Invece, quando si parla di responsabilità contrattuale (quella della struttura sanitaria) l’azione è soggetta ad un termine di prescrizione di dieci anni ed è sufficiente fornire la prova che vi sia stato un trattamento sanitario, restando a carico dell’ospedale l’onere di dimostrare che il sangue trasfuso fosse controllato e non infetto[6].

Di solito, entrambi i soggetti possono essere chiamati a rispondere dinanzi al Tribunale per il risarcimento del danno subito dalla persona emotrasfusa, poiché il fatto lesivo (la trasfusione) costituisce un evento comune sia al Ministero che all’ospedale. In questi casi, si parla di responsabilità solidale[7] e, in conseguenza di ciò, la prescrizione interrotta nei confronti di uno solo degli obbligati ha effetto anche nei confronti dell’altro (art. 1310 c.c.)[8].

Infine, per interpretazione ormai pacifica, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento inizia a decorrere dal momento in cui la persona danneggiata ha piena consapevolezza che il danno biologico subito sia diretta conseguenza delle trasfusioni subite[9].
Ciò vuol dire che il termine non decorre dal momento in cui un soggetto scopre di essere affetto da HCV o HIV, ecc., bensì dal momento in cui è in grado di comprendere che il virus sia stato contratto per effetto delle trasfusioni ricevute.
Molto spesso, qualora il danneggiato, prima di iniziare un giudizio per il risarcimento del danno biologico, abbia già esperito la procedura per vedersi riconoscere il l’indennizzo previsto dalla Legge 210 del 1992, il termine prescrizionale viene fatto decorrere dal giorno in cui è stata depositata la domanda amministrativa presso la ASL competente visto che, per lo meno in quel momento, ha avuto coscienza della correlazione tra infezione e trasfusione. 

[1] «Nel 1936 i giudici del Regno d’Italia affermavano che è “… di comune conoscenza che la trasfusione del sangue, rimedio prezioso per casi clinici talvolta disperati, è anche il mezzo diretto e sicuro per comunicare infezioni da soggetto a soggetto …” (Cass. Civ. S.U. 19 giugno 1936). Rileva considerare che se i giudici del tempo erano evidentemente al corrente che il sangue poteva veicolare infezioni, v’è ragione d’esser certi che anche e soprattutto la comunità scientifica dell’epoca fascista ne fosse edotta e, c’è da crederlo, a maggior ragione, la comunità scientifica più prossima all’epoca in cui si scrive (volendosi intendere per essa quella preposta a prevenire e a vigilare sulla salute umana negli ultimi cinquanta anni del secolo scorso)» (Indennizzo e risarcimento da prelievi e trasfusione di sangue, R. Mattarelli, R. Mezzini, pag. 260 – 284, Bologna, 2007).

[2] “Il fenomeno si è manifestato a seguito dell’importazione di sangue umano da paesi stranieri. In particolare la “materia prima” veniva reperita in larga parte da donatori pagati, provenienti dall’America o dall’Africa, in quanto le sole donazioni nazionali non erano in grado di soddisfare il fabbisogno corrente e non erano disponibili le tecnologie per la creazione artificiale del plasma. E perciò dal 1967 che si parla di importazione e precisamente si fa riferimento all’art. 21 della legge 1967 n. 592 il quale prevede l’importazione ed esportazione del sangue umano e dei suoi derivati per uso terapeutico e diagnostico dietro autorizzazione del Ministero della Sanità.
Non è però all’epoca disponibile un piano sangue a livello nazionale, che possa destinare risorse allo scopo di realizzare, all’interno del paese, la raccolta  e la lavorazione di un quantitativo di sangue e di farmaci derivati sufficienti a coprire il fabbisogno corrente.
Questo piano, auspicato fin dai primi anni ’70, viene poi varato solo nel 1990, con la legge 4.5.1990 n. 107 (Disciplina per le attività trasfusionali relative al sangue umano e ed i suoi componenti e per la produzione di plasma derivati), ed è poi concretamente attuato solo nel 1994 con il Primo Piano Sangue e Plasma Italiano.
[…] In particolare si fa riferimento alla legge del 1958 n. 2296 istitutiva appunto del Ministero della Sanità cui affida una competenza generale al fine di provvedere alla tutela della salute pubblica. Sarà poi nel 1965, in virtù della direttiva n. 65//g5 della CEE del 26.1.1965 che rientrano nella nozione di medicinale anche il sangue umano e i suoi derivati, aveti lo scopo di correggere, ripristinare o modificare funzioni organiche dell’uomo.
Da quanto detto sopra si evince che la Legge del 1958 è la norma primaria del neminem leadere, da cui ricavare l’esistenza di doveri in capo al Ministero della Sanità”. (Trib. Bologna, 02.04.2013).

[3] “anche prima dell'entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati, deve ritenersi che sussistesse in materia, sulla base della legislazione vigente, un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di sangue umano da parte del Ministero della sanità, anche strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria. L'omissione da parte del Ministero di attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l'ordinamento attribuisce il potere (qui concernente la tutela della salute pubblica) lo espone a responsabilità extracontrattuale, quando, come nella fattispecie, dalla violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza nell'interesse pubblico, il quale è strumentale ed accessorio a quel potere, siano derivate violazioni dei diritti soggettivi dei terzi” (Cass. S.U. 11.01.2008 n. 576).

[4] “Gli obblighi a carico della struttura ai fini della declaratoria della sua responsabilità vanno posti in relazione sia agli obblighi normativi esistenti al tempo delle trasfusioni di sangue, quali quelli relativi all'identificabilità del donatore e del centro trasfusionale di provenienza (tracciabilità del sangue) che agli obblighi più generali di cui all'art. 1176 c.c. nell'esecuzione delle prestazioni.
La stessa Suprema Corte ha anche precisato che in materia di colpa e accertamento del nesso di causalità per il contagio derivato dalle trasfusioni come sia jus receptum che già dagli anni '60-'70 sussistevano obblighi normativi (1. 592/67, D.P.R. n. 1256 del 1971, il cui art. 44 prescriveva di controllare se il donatore di sangue era stato alletto da epatite virale vietando in tal caso la trasfusione al altri, L. n. 5119 del 1973, L. n. 833 del 1973) di controlli volti a impedire la trasmissione di malattie mediante il sangue infetto e già dalla metà degli anni '60 erano esclusi dalla possibilità di donare il sangue coloro i cui valori delle transaminasi e GPT (indicatori epatici) erano alterati rispetto ai ranges prescritti, e che già a partire dalla data di rilevazione diagnostica dell'epatite B ( 1973) era obbligatoria la ricerca della presenza dell'antigene 3 in ogni singolo campione di sangue o plasma” (Trib. Trento 09.04.2015, cit.). 

[5] “La giurisprudenza - anche di merito - da tempo ne ha dato diffusamente conto, come fosse già ben noto sin dalla fine degli anni 60 - inizi anni 70 il rischio di trasmissione di epatite virale, la rilevazione (indiretta) dei virus essendo possibile già mediante la determinazione delle transaminasi ALT ed il metodo dell'anti-HbcAg (cfr. Cass., 15/7/1987, n. 6241; Cass., 20/7/1993, n. 8069. In giurisprudenza di merito cfr. Trib. Milano, 19/11/1997; Trib. Roma, 14/6/2001), e che già da tale epoca sussistevano obblighi normativi (L. n. 592 del 1967; D.P.R. n. 1256 del 1971; L. n. 519 dei 1973; L. n. 833 del 1973) in ordine a controlli volti ad impedire la trasmissione di malattie mediante il sangue infetto. Sin dalla metà degli anni 60 erano infatti esclusi dalla possibilità di donare il sangue coloro i cui valori delle transaminasi e delle GPT - indicatori della funzionalità epatica - fossero alterati rispetto ai limiti prescritti (cfr., da ultimo, Cass., 20/4/2010, n. 9315). Come questa Corte ha già avuto modo di osservare, lo stesso Ministero, ben a conoscenza del fenomeno, ha con circolari n. 1188 del 30 giugno 1971, 17 febbraio e 15 settembre 1972 disposto la ricerca sistematica dell'antigene Australia (cui fu dato poi il nome di antigene di superficie del virus dell'epatite B); e con circolare n. 68 del 1978 ha poi reso obbligatoria la ricerca della presenza dell'antigene dell'epatite B in ogni singolo campione di sangue o plasma. Anche prima dell'entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivatì, sulla base della legislazione vigente in materia il Ministero della sanità era dunque tenuto ad attività di controllo, direttiva e vigilanza in materia di sangue umano. E l'omissione delle attività funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l'ordinamento gli attribuisce il potere (nel caso concernente la tutela della salute pubblica) espone il Ministero a responsabilità extracontrattuale allorquando come nella specie dalla violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza nell'interesse pubblico (il quale è strumentale ed accessorio a quel potere) derivi la violazione di interessi giuridicamente rilevanti dei cittadini-utenti (cfr. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576)” (Cass. n. 17685 del 29 agosto 2011).

[6] “ove il paziente faccia valere la responsabilità della struttura sanitaria e del medico che l’aveva operato, allegando che in occasione dell’intervento chirurgico che gli era stata praticata una trasfusione con sangue infetto e che conseguentemente aveva contratto l’epatite C, al paziente spetta provare il contratto relativo alla prestazione sanitaria e il danno, mentre compete ai debitori dimostrare che l’inadempimento non vi era stato (perché il sangue trasfuso non era infetto) ovvero che, pur sussistendo, non era etiologicamente rilevante (ad esempio, perché l’affezione patologica era già in atto al momento del ricovero, circostanza che deve emergere dai dati riportati nella cartella clinica)” (Cass. S.U. 11.01.2008, n. 577 e Cass. 15.05.2012 n. 7549, in GDir, 2012, 32, 75).

[7]  “Alla responsabilità del Ministero della salute ai sensi dell'art. 2043 c.c. per omessa vigilanza in ordine alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell'uso degli emoderivati, si affianca quella di natura contrattuale ravvisata in capo all'ente ospedaliero dove vennero praticate le trasfusioni” (Trib. Trento, 09.04.2015). Nello stesso senso, Trib. Perugia, 25.01.2014; Trib. Milano, 17.06.2009; Trib. Milano, 25.03.2008 n. 3873; Cass. 15453/2011).

[8] “Gli atti interruttivi posti in essere contro il Ministero della Salute, coobbligato in solido, hanno efficacia interruttiva anche contro Az Ospedaliera e Gestione Liquidatoria […] ex art. 1310 c.c.” (Trib. Milano, 15.06.2012).

[9] Il termine prescrizionale inizia a decorrerenon dal momento della trasfusione, né da quello del manifestarsi della patologia, ma da quando l’emotrasfuso ha raggiunto la consapevolezza circa la riconducibilità causale della sua patologia alla pregressa trasfusione” (Trib. Perugia, 27.07.2010, cit.). E, più chiaramente, il termine di prescrizione “decorre, a norma dell'art. 2935 c.c. e art. 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, bensì da quello in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l'ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche, da ritenersi coincidente non con la comunicazione del responso della Commissione medica ospedaliera di cui alla L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 4 ma con la proposizione della relativa domanda amministrativa, che attesta l'esistenza, in capo all'interessato, di una sufficiente ed adeguata percezione della malattia" (tra le altre, Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576; Cass., 2 luglio 2013, n. 16550; Cass., 19 dicembre 2013, n. 28464)” (Cass. 13.08.2015, n. 16813).