Le c.d. "Linee guida ospedaliere" entrano fra i criteri che il giudice deve utilizzare per sindacare l'attività professionale del sanitario. L'art. 3 del "decreto Balduzzi" – D.L. n. 158/2012 - recepisce alcune indicazioni giurisprudenziali, che dal discostamento dei comportamenti sanitari dai protocolli diagnostici e terapeutici contenuti all'interno delle guidelines giungevano, a giudizi di responsabilità (v. il saggio di Nicola Todeschini pubblicato il 26 settembre 2012 "Responsabilità medica e decreto Balduzzi: cosa cambia?") .

La cornice in assenza di riferimento espresso alle citate guidelines, appariva torbida: ad una giurisprudenza disattenta alle indicazioni terapeutiche contenute nelle linee guida (Cass. Pen., n. 10454 del 28 febbraio 2010, n. 38154 del 29 settembre 2009), ritenute incapienti si contrapponeva una giurisprudenza più rigorista, che da quelle indicazioni dichiarava di non prescindere, al momento di valutare la liceità di una condotta sanitaria.

L'art. 3 del D.L. cit., conferma la specialità delle professioni sanitarie desunta dall'art. 2236 cod. civ., che esonera l'esercente sanitario da responsabilità nel caso in cui la commissione/omissione sia seguente ad una condotta solo lievemente colpevole. Nel mare delle condotte sussumibili sotto la categoria di quelle realizzate con "colpa lieve", la riforma ha inteso confortare le valutazioni giudiziali di sostegni protocollari definiti, come quelli contenuti nelle guidelines. Il rispetto di quest'ultime, ad una prima verifica, esonerebbe il sanitario da responsabilità.

L'art. 3 del D.L. cit. sceglie una soluzione mediana, in grado di legittimare il valore delle linee cit., preservando spazi di valutazione giudiziale aderenti al caso concreto: "il giudice, ai sensi dell'art. 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell'osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalle comunità scientifiche nazionale ed internazionale".

L'effetto è quello di vincolare anche le consulenze tecniche - meno "governate" dalla valutazione giudiziale, verificando il giudice la sola coerenza logica della verifica consulenziale – a dei criteri dal sapore universale, che a fronte di casi clinici definiti, forniscono indicazioni diagnostiche e terapeutiche immediatamente verificabili.

Le espressioni utilizzate non brillano per chiarezza: l'art. 3 propone le guidelines sull'altare dei criteri di valutazione giudiziale, statuendo un valore probatorio concorrente ad altri criteri – oppure, quando chiama il giudice a verificare se, "nel caso concreto", sono realmente applicabili al caso sottoposto al vaglio giudiziale.

Il quadro normativo si è arricchito, tuttavia il legislatore ha rifuggito a definire le priorità; la valutazione giudiziale pondererà guidelines a specificità concrete, eventualmente aprendo a quelle condotte sanitarie ancora non universalmente riconosciute.

La scelta del legislatore appare confermativa del tono giurisprudenziale prevalente, costituendo le guidelines criterio concorrente, ma sarà il caso concreto ad imporre i comportamenti attivabili e non viceversa, dal momento che possiedono, un lato sapore aziendalistico, ispirate a criteri di economicità delle risorse e di sostenibilità finanziaria dei comportamenti. Questi caratteri le forniscono un valore non volto alla tutela della salute individuale.